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SANTA CLOTILDE

SANTA CLOTILDE 

Regina dei Franchi (474-545) 3 giugno

Orfana, andrà in sposa a Clodoveo re dei Franchi pagano che riuscirà a convertire, anche se sembra più una mossa politica per avere l’appoggio della Chiesa. Per sanare la guerra fratricida scoppiata alla morte del marito, la regina si affiderà con la preghiera a san Martino di Tours.

Clotilde nacque a Lione intorno al 475, quasi in coincidenza con la scomparsa dell’impero romano in Occidente (476). Anche la Gallia romana si era andata disgregando mediante la costituzione di vari regni indipendenti da parte di popoli cosiddetti barbari, non di rado rivali tra loro. Con la nascita ella era già principessa, in quanto figlia del re Childerico I, capo dei burgundi, un gruppo germanico orientale arrivato prima sulla sinistra del Reno e poi sul medio Rodano. Nella sua vita ci sarà tuttavia l’avversa sorte di una dolorosa serie di tragedie e di assassini regali, tra i quali trovò salvezza con una grande fede in Cristo Gesù.

Nel 481 le venne ucciso il padre e allora lei, con la madre e la sorella maggiore Croma, si ritirò a Ginevra. Insieme si diedero ad una vita di preghiera e poi di assistenza ai bisognosi. Secondo alcuni racconti la giovane andò soggetta anche a persecuzioni ed alla perdita della madre per assassinio, finché, tramite gli ambasciatori, venne chiesta in sposa da Clodoveo, il giovane re dei Franchi, altro popolo germanico che si era stanziato in territori a nord della Senna.

Clodoveo, che diventerà il capostipite dei Merovingi, era un uomo pagano, piuttosto rude ed irreligioso. Diede tuttavia il permesso alla moglie di battezzare ognuno dei cinque figli, alcuni dei quali si sarebbero però macchiati di delitti o di disastrosi contrasti per ragioni di potere, specialmente dopo la morte del padre. Con l’aiuto e la protezione del vescovo di Reims, il futuro San Remigio, Clotilde andava anche iniziando una lenta ma profonda opera di seduzione morale nei riguardi del marito.

Un vero prodigio avvenne nel 496, quando Clodoveo si trovò costretto ad attaccare battaglia contro i suoi nemici Alamanni nei pressi di Colonia. Temendo il peggio, egli invocò il Dio della moglie e ne uscì vittorioso. Allora promise la conversione alla fede cattolica e la notte di Natale di quell’anno si fece battezzare a Reims dal vescovo stesso. Quasi tutti i sudditi lo imitarono. Fu tale atto un successo della regina Clotilde, cosi importante da fare della Francia la “primogenita della Chiesa”. Dopo quella conversione Clodoveo si fece amico di molti vescovi, estendendo il proprio potere su buona parte della Francia, che poco dopo avrà per capitale Parigi.

A Clotilde si deve pure la sostituzione dei tre rospi con tre gigli nello scudo della monarchia francese, dopo che ella ne ricevette uno coi gigli in dono da parte di un misterioso eremita della foresta di Saint-Germain-en-Laye.

Rimasta vedova dopo vent’anni di matrimonio, la regina di Francia andò incontro a molte altre struggenti prove dinastiche, finché si ritirò a Tours, presso la tomba di San Martino (315 ca.-397), di cui era particolarmente devota. In quella regione fondò chiese e monasteri, dandosi a penitenza e ad opere di carità.

A Tours Clotilde morì il 3 giugno 545. In tempi successivi da quella città sarà portata come una santa virtuosa e coraggiosa al sepolcro di Parigi, accanto al corpi di Clodoveo e di Santa Genoveffa (422 ca.-502 ca.), patrona della capitale. I suoi resti mortali furono poi cremati nel 1793 per evitarne la profanazione rivoluzionaria. Ora riposano in una basilica a lei dedicata e costruita tra il 1846 e il 1856, dove il 3 giugno di ogni anno la santa viene solennemente commemorata.


Autore: 
Mario Benatti

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/55650

Beato Timoteo (Giuseppe) Giaccardo

Beato Timoteo (Giuseppe) Giaccardo

Sacerdote paolino ( 1896 – 1948) 24 gennaio

Convinto che “un uomo scontento è un uomo a metà”, interpretava il Vangelo come “il libro dell’umiltà“. “All’umiltà non dite mai di no, perché più entrate nell’umiltà, più assomiglierete a Gesù Cristo… Umiliamoci anche quando dovessimo inchiodare con Gesù la nostra volontà alla croce“. Perché “l’amore alle comodità non fa mai i santi”, mentre “chi uccide l’io, trova Dio“.

È il primo sacerdote religioso della Società San Paolo fondata ad Alba (Cuneo) il 20-8-1914 dal servo di Dio Don Giacomo Alberione (1884-1971) per l’evangelizzazione dei popoli mediante l’apostolato con gli strumenti della comunicazione sociale.

Il Giaccardo nacque il 13-6-1896 a San Giovanni Sarmassa, borgata di Narzole d’Alba (Cuneo), primogenito dei cinque figli che Stefano, modesto mezzadro, ebbe da Maria Cagna, donna di casa molto attiva e molto devota della Madonna del Rosario. Al fonte battesimale gli furono imposti i nomi di Giuseppe, Domenico e Vincenzo.

L’infanzia di Giuseppe (Pinot) si svolse sotto lo sguardo dei pii ed onesti genitori, lavoratori prima nella fattoria “Battaglione” in cui era nato, e poco dopo in una casa di Narzole, poco lontano dalla chiesa parrocchiale, dedicata a San Bernardo, in cui il padre, per un dissesto finanziario, era stato costretto a trasferirsi adattandosi a fare da mediatore, da norcino e anche un po’ da sacrestano. A quattro anni il Beato imparò tutte le preghiere del buon cristiano frequentando l’asilo, diretto dalle Suore di S. Anna, e a sette anni cominciò ad apprendere i primi rudimenti del sapere frequentando le scuole comunali, dirette da ottimi maestri. […] l’anziano padre, nel processo, poté affermare:Non ho mai sorpreso mio figlio a dire bugie… In famiglia non ho mai dovuto riprenderlo e castigarlo per mancanze commesse“.

Il beato con don Alberione

[…] Don Alberione, il quale era stato mandato in quella parrocchia nella primavera di quell’anno perché assistesse il parroco, ormai al termine della vita, ne aveva ricevuto la prima confessione generale. Quando lo vide […] ne fu subito ottimamente impressionato per la docilità, lo spirito di preghiera e la quotidiana frequenza ai sacramenti. Poiché manifestava il desiderio di farsi sacerdote, nell’ottobre del 1908 se lo portò con sé in seminario essendo stato nominato direttore spirituale degli alunni.

Di lui attestò Pasquale Gianoglio, seminarista, in seguito vicario generale della diocesi: “Era un ragazzo mingherlino, fisicamente insignificante, aveva due occhi neri vivissimi che rispecchiavano un’anima serena, tranquilla; sempre sorridente, composto, raccolto, specialmente in cappella nella preghiera, senza singolarità alcuna; e tale contegno conservò durante tutta la vita… Nonostante primeggiasse negli studi non ostentava mai questa superiorità anzi cercava di passare inosservato”, ben sapendo quanto fosse invidiato dai compagni.

[…] Due anni dopo l’ingresso in seminario, emise il voto annuale di castità. La forza di osservarlo sempre gli derivò da una tenera e filiale devozione a Maria SS. di cui si considerava schiavo, secondo lo spirito di S. Luigi M. Grignion de Montfort (+1716). Secondo Francesco Grosso suo compagno di scuola, “sul banco di studio teneva l’immagine della Consolata e la baciava sovente dicendo qualche giaculatoria… Di frequente mi diceva: Franceschino facciamoci santi perché questo è il nostro mestiere… Sovente si rammaricava con me di non poter cantare la Messa a motivo della sua voce stonata“.

[…]Il 22-1-1915 il Giaccardo fu chiamato alle armi e assegnato alla 2a Compagnia di Sanità di Alessandria, ma il 7-1-1916 fu riformato perché affetto di oligoemia (anemia). Ritornò in seminario a fare da assistente agli studenti, ma ne fu presto dispensato perché nell’esigere la disciplina era pedante e minuzioso. Il Beato in preda a umiliazioni non accettate, a invidie e a principi di scoraggiamento levò ardente il grido: “Gesù, tu mi sostieni, ed io confido in Te. Voglio farmi santo. Trasformami in Te” (nov. 1916).

Nella solennità dell’Immacolata emise il voto perpetuo di castità, riconoscente alla Vergine perché lo aveva aiutato a superare le dure lotte che, da più di un anno, aveva dovuto sostenere riguardo alla castità. […] Il Beato il 4-7-1917 entrò nell’Opera di Don Alberione con il beneplacito del Vescovo. Essendo chierico di quarta teologia ebbe il compito di assistere i giovanetti della Scuola tipografica, fare loro scuola, correggere le bozze dei bollettini parrocchiali e dei libri che si stampavano in tipografia, e continuare a studiare in preparazione al sacerdozio.

[…]Nonostante gli accresciuti impegni Don Giaccardo continuò anche gli studi. Difatti il 12-11-1920 conseguì a Genova la laurea in teologia […] Don Alberione, per non costringere i suoi ragazzi a continui traslochi, decise di fare costruire in proprio la Casa Madre dell’Istituto benché diversi sacerdoti diocesani ne temessero il fallimento. Il primo tronco fu benedetto personalmente dal vescovo il 5-10-1921. Da quel giorno l’Opera di Don Alberione si chiamò Pia Società S. Paolo. Don Giaccardo ne fu nominato vicesuperiore ed economo. Come se ciò non bastasse, fu pure incaricato di dirigere la Cassetta d’Alba, settimanale diocesano, di cui Don Alberione era diventato proprietario. Era il tempo in cui Benito Mussolini (1883-1945) si preparava, a marciare su Roma per impadronirsi del governo e imbavagliare la stampa contraria al fascismo. Nel redigere il settimanale Don Giaccardo s’impegnò a riportare sempre con fedeltà il pensiero del papa come già faceva nella predicazione, nella scuola e nelle private conversazioni.

[…]Sapendo di avere in Don Giaccardo un discepolo obbedientissimo, il 6-1-1926 Don Alberione gli affidò l’arduo compito di andare a fondare la prima casa dell’Istituto niente meno che a Roma, benché esso non fosse stato ancora eretto in congregazione religiosa.

[…]Il Beato Giaccardo il 15-1-1926 impiantò a Roma una piccola tipografia in via Ostiense n. 75, con l’aiuto di 14 studenti ginnasiali che aveva condotto con sé da Alba. Potè così iniziare alcune settimane dopo la stampa del settimanale La Voce di Roma, al quale fecero ben presto seguito altri undici settimanali diocesani. All’inizio il Beato visse in estrema povertà in una casa d’affitto costruita come magazzino e quindi priva di mobili, di sufficienti servizi igienici e di cappella. Per la messa e la visita al SS. Sacramento, doveva recarsi con i suoi ragazzi alla basilica di San Paolo. 

[…] Verso la metà dell’anno Don Giaccardo riuscì ad allestire una cappellina con un altare portatile avuto in prestito e i paramenti avuti in dono dai Padri Benedettini. Quando giunse a Roma il Beato disponeva soltanto di 3000 lire. La somma doveva bastare per provvedere anche alle prime necessità delle 14 giovanette, dirette dalla maestra Suor Amalia Peyrolo, delle Figlie di San Paolo, stabilitesi nei pressi dei paolini per affiancarli nel lavoro tipografico con appropriati orari.

Non faceva un passo di ordine economico senza la previa autorizzazione del fondatore. A volte non riusciva a pagare in tempo i creditori. Sapeva scusarsene con tanta grazia e umiltà che sovente il creditore rimaneva confuso. Il Beato diceva: “Non sono mai cosi tranquillo come nelle difficoltà. Dio fa lui“.

[…]Il P. Anselmo Tappi-Cesarini, segretario dell’abate, dichiarò di Don Giaccardo, immerso in mille difficoltà: “Io non lo vidi mai scoraggiato. Era solito dire che i giovani sono i parafulmini della casa e che la Provvidenza non sarebbe venuta loro meno“. Secondo il Violardo, che lo frequentava per la confessione e la direzione spirituale, “egli trattava i suoi ragazzi in modo veramente paterno, ispirandosi agli insegnamenti educativi di Don Bosco. Li seguiva motto da vicino e ne studiava le tendenze. Parlandone diceva:Se ne verranno altri mille, io non mi spaventerò; e il Signore che li manda e lui stesso provvederà a mantenerli“.

Con tutti era affabilissimo, ma si asteneva dal dare segni di affetto. […]Il Beato facendo secondo la costituzione tutti i giorni un’ora di adorazione davanti al SS. Sacramento, recitando “bei rosari” in onore della Regina degli Apostoli, lavorando sodo come l’apostolo S. Paolo, riuscì con l’aiuto del P. Enrico Rosa (+1938), direttore della Civiltà Cattolica, a fare da mediatore tra Don Alberione e i dicasteri della Santa Sede riguardo all’approvazione della congregazione.

[…]Nella casa romana, Don Giaccardo non sapeva dove ospitare le vocazioni che aumentavano. I benedettini, poco lontano dalla basilica di San Paolo, possedevano un terreno di cinque ettari chiamato “vigna di S. Paolo”, dotato di un modesto casale. Don Giaccardo andò un giorno a vederlo, gli piacque e ne scrisse a Don Alberione. […] Nell’ottobre dello stesso anno la piccola comunità paolina cominciò a prenderne possesso. Don Giaccardo trasformò la stalla del casale in cappella e la cantina in tipografia.

Dopo la professione perpetua […] Il 10-6-1936, il fondatore trasformò la casa romana in sede del Superiore Generale e destinò Don Giaccardo ad Alba affinchè dirigesse la Casa Madre con l’impegno di insegnare a tutti: ragazzi, chierici e sacerdoti, a praticare la vita di preghiera, di studio, di apostolato e di povertà, costituenti le quattro ruote del carro paolino come avevano imparato fin dalle origini della congregazione.

[…]Nel limite del possibile cercava di accontentare tutti, perché era convinto che “l’autorità è al servizio della carità” e perché, personalmente, “amava di più la misericordia che la giustizia“.
Quando, nel 1936, giunse ad Alba, il Beato trovò circa 500 giovanotti da educare e un centinaio di chierici e di sacerdoti da guidare alla santità. Non sempre gli era facile prendere rapide decisioni per una così folta schiera di persone, e qualche confratello ogni tanto se ne lagnava. Eppure nessuno lo aveva mai visto in preda ad ansietà, a turbamenti o a nervosismi neppure allorché, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale (1940-1945), arrivavano in curia lamentele di creditori non pagati, o il bollettino dei protesti in ogni numero recava un lungo elenco di cambiali scadute e non pagate per debiti contratti da Don Alberione.

Il motivo è che, prima di decidersi, amava riflettere, pregare, consigliarsi e soprattutto attendere da Roma, meno per le questioni più importanti, la definitiva approvazione del fondatore dal quale dipendeva sempre in tutto.

A Don Giaccardo ripugnava fare correzioni specialmente a sacerdoti e confratelli professi. Timido per natura, dovette sempre lottare per vincersi. Non sempre, però, le sue osservazioni venivano accolte con la dovuta sottomissione. Non gli mancarono sgarbi, ingratitudini, grossolanità, ma egli li sopportò sempre senza un lamento e senza conservare rancori verso nessuno.

[…]Il Beato traeva gli argomenti per le sue riflessioni dal Vangelo che voleva esposto in chiesa, negli studi, in tipografia, nelle camerate e che baciava a mani giunte ogni volta che vi passava davanti, ma in modo speciale dalle Lettere di San Paolo, che leggeva in greco e conosceva quasi a memoria. Ne portava in tasca una piccola edizione e sovente la consultava. Nella predicazione il riferimento al pensiero dell’apostolo era per lui una necessità.

Quando il Beato parlava del peccato si sentiva che trattava di un argomento che lo imbarazzava, che gli ripugnava. Lo si deduceva dalla contrazione del volto. Non riusciva a concepirlo. Quando gli venivano riferite colpe di qualche confratello, ne rimaneva affranto. Poiché aveva in odio i sotterfugi e le bugie, correggeva gli erranti, ma non sempre, con la dovuta sollecitudine per il grande timore di rattristare persone care. Come penitenza raccomandava la carità, l’esame di coscienza e la vita comune.

[…]L’amore della castità costituiva la caratteristica principale della sua vita. Alcuni confratelli lo ritenevano “esagerato” perché dimostrava il suo sincero disgusto ogni volta che udiva facezie sconvenienti o scurrilità.

[…] A un confratello che gli chiese un giorno come facesse a starsene tranquillo e sereno tra tante preoccupazioni egli rispose: “Vedi, dopo un quarto d’ora di preghiera, qualsiasi fastidio per me si scioglie come un pezzo di cera al sole“.

[…] Alle Suore in preda a travagli e perplessità raccomandò di non “lasciarsi schiacciare, opprimere dalla prova“, ma anche di “obbedire in silenzio, fiducia e docilità“‘. Egli stesso ne diede l’esempio, […]

[…] Don Giaccardo dagli ultimi mesi del 1947 cominciò a sperimentare una spossatezza che andava sempre più accentuandosi. Egli stesso non si fidava più di viaggiare da solo a causa di frequenti svenimenti e di particolari difficoltà nell’articolare le gambe. Due mesi prima della morte, visitò, per incarico di Don Alberione, diverse case d’Italia come “fratello maggiore”, ma figlio del fondatore. Da Alba volle recarsi al paese natio per rivedere la chiesa dei suoi ardori infantili, salutare i parenti e i conoscenti, specialmente il vecchio parroco al quale chiese la benedizione in ginocchio, e diede appuntamento per il Paradiso.

Il 12-1-1948 celebrò con estrema fatica la sua ultima Messa. In mattinata Pio XII concesse il Decreto di Lode alle Pie Discepole del Divino Maestro. […]
Il Dott. Tommaso Teodoli curò il malato come fosse affetto da artrite e lombaggine. Dal consulto di tré medici risultò, invece, che era colpito da una anemia leucemica acuta, che annunziava una fine prossima.

[…] Morì secondo Don Alberione ancora rivestito dell’innocenza battesimale, il 24-1-1948, sabato, vigilia della conversione di S. Paolo e memoria del suo discepolo S. Timoteo, dopo che tutta la comunità, la sera precedente, gli era sfilata dinanzi per baciargli la mano, e il fondatore gli aveva impartito ancora una volta l’assoluzione, lo aveva abbracciato e baciato sospirando: “Tu sei stato sempre un figliuolo buono e fedele!“.

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[…] L’ultima preghiera che, prima di morire, quest’ultimo scrisse fu:Signore, ti prego, fa che il mio sepolcro sia semente di vergini!“.
Giovanni Paolo II riconobbe le virtù eroiche di Don Giaccardo il 9-4-1985 e lo beatificò il 22-10-1989. La data di culto è stata posta dal Martyrologium Romanum al 24 gennaio, mentre le Congregazioni paoline lo ricordano il 19 ottobre.

Autore: Guido Pettinati

Fontehttp://www.santiebeati.it/dettaglio/74900

Santa Maddalena da Nagasaki

SANTA MADDALENA DA NAGASAKI

Martire (1611 – 1634) 15 ottobre

Figlia di nobili cristiani martirizzati si consacrò a Dio. Nel 1629 fu costretta a nasconderti sulle montagne, aiutando i cristiani perseguitati dove visitava i malati, battezzava i bambini, confortava le persone maltrattate. Neppure le promesse di un vantaggioso matrimonio e le torture piegarono la sua fede. Venne così condannata al tormento della fossa dove sopravvisse per 13 giorni.

Maddalena nacque nel 1611 a Nishizaka, nei pressi di Nagasaki in Giappone, figlia di nobili e ferventi cristiani. Narrano gli antichi manoscritti che fosse una giovane gracile, delicata e bella. I suoi genitori e fratelli furono condannati a morte per la loro fede cattolica e martirizzati quando essa era ancora giovanissima.

Nel 1624 conobbe due agostiniani recolletti, Francesco di Gesù e Vincenzo di Sant’Antonio, poi anch’essi martiri e beati. Attratta dalla profonda spiritualità dei due missionari, Maddalena si consacrò a Dio come terziaria agostiniana recolletta. Da allora il suo abito fu quello religioso, le sue uniche occupazioni la preghiera, la lettura di libri santi e l’apostolato. Divenne in seguito terziaria domenicana. I tempi erano assai difficili e la persecuzione che infuriava contro i cristiani era divenuta sempre più sistematica e crudele. Maddalena infondeva coraggio ai cristiani, insegnava il catechismo ai fanciulli, domandava l’elemosina ai commercianti portoghesi per i poveri.

Nel 1629 cercò rifugio tra le montagne di Nagasaki, condividendo le sofferenze e le angosce dei suoi concittadini perseguitati, incoraggiandoli a mantenersi forti nella fede, riportando sulla retta via quanti, vinti dalle torture, avevano rinnegato Cristo, visitando i malati, battezzando i bambini, portando a tutti parole e gesti di conforto.

Di fronte alle apostasie di parecchi cristiani terrorizzati dalle torture alle quali erano sottoposti e desiderosa di unirsi eternamente a Cristo, Maddalena pensò di sfidare i tiranni. Vestita con l’abito di terziaria, nel settembre 1634 si presentò ai giudici, portando con se solamente un piccolo fagotto pieno di libri santi per poter pregare e meditare in carcere. Neppure le promesse di un vantaggioso matrimonio e le torture subite riuscirono a piegare la sua ferma volontà.

Ai primi di ottobre fu allora sottoposta al tormento della forca e della fossa: sospesa per i piedi, con la testa ed il petto sommersi in una fossa sottostante, coperta con tavole per renderle più difficile la respirazione. La coraggiosa giovane resistette al tormento per tredici giorni, invocando durante il supplizio i nomi di Gesù e Maria e cantando inni al Signore. L’ultima notte un acquazzone inondò la fossa e Maddalena morì affogata. Era il 15 ottobre 1634. I tiranni bruciarono il suo corpo e sparsero le ceneri nel mare, onde evitare una venerazione delle sue reliquie da parte dei cristiani.

Per procedere alla sua elevazione agli onori degli altari Maddalena fu aggregata ad un gruppo complessivo di sedici martiri domenicani di varie nazionalità, tutti uccisi in terra giapponese, capeggiati da Lorenzo Ruiz, primo santo di origini filippine. Il gruppo fu beatificato da papa Giovanni Paolo II il 18 febbraio 1981 a Manila nelle Filippine e canonizzato a Roma dal medesimo pontefice il 18 ottobre 1987.

Mentre la commemorazione della singola Santa Maddalena da Nagasaki ricorre nel Martyrologium Romanum in data odierna nell’anniversario del suo martirio, la festa collettiva di questo gruppo di martiri è fissata dal calendario liturgico al 28 settembre.

Autore: Fabio Arduino

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/90173

 

 

 

SAN VITTORE I

SAN VITTORE I

Papa e martire (199) 28 luglio

Quattordicesimo Papa, dal 189 al 199. Tenace difensore della purezza della fede, condannò i vari movimenti ereticali che attaccavano la Trinità. In particolare, l’adozionismo, secondo cui Gesù sarebbe stato un uomo adottato da Dio ed elevato al rango divino.

S. Vittore I è il 14° papa, eletto nel 189 morì nel 199 molto probabilmente subendo il martirio, quindi il suo pontificato durò 10 anni, un lungo periodo se consideriamo che a quei tempi imperversavano le persecuzioni ricorrenti dei vari imperatori, che cessarono solo nel 313-14; quasi tutti i papi dei primi 300 anni della Chiesa sono martiri.
Ebbe la sorte di pontificare i primi cinque anni sotto l’imperatore Commodo (m. nel 194) il quale grazie agli auspici della sua favorita Marcia, simpatizzante per il Cristianesimo, non solo non rinnovò la persecuzione, ma fece per i cristiani quello che finora nessun imperatore aveva fatto; con l’aiuto di Marcia, il papa Vittore ebbe un incontro con lui, nel quale gli consegnò la lista dei cristiani condannati alla deportazione per i lavori forzati nelle miniere della Sardegna e Commodo ne ordinò la liberazione.
Era l’anno 190 ed era la prima volta che l’Impero trattava direttamente con la Chiesa e il vescovo di Roma.

Questo episodio è importante anche per capire la perfetta organizzazione della carità cristiana in Roma, la quale provvedeva non solo ai membri bisognosi della comunità, ma si estendeva anche ai fratelli perseguitati, sofferenti nelle carceri o condannati ai lavori forzati nelle miniere; di tutti si teneva un elenco aggiornato. A guardare oggi questi avvenimenti ci sembra quasi impossibile che in quei tempi, dove per il solo fatto di essere oppure solo indicati come cristiani, si moriva con estrema facilità e con tormenti indicibili e incomprensibili in un impero così vasto e faro di civiltà e diritto, proprio la Chiesa primitiva nel suo vivere nascosto e continuamente in pericolo, avesse un’organizzazione da far invidia sia nel campo assistenziale che in quello spirituale e dottrinario.

In campo liturgico, la controversia in cui si venne a trovare papa Vittore I, fu quella della celebrazione della Pasqua.
Le Chiese dell’Asia del periodo preconsolare e quelle di origine ebraica, la celebravano il 14 del mese di ‘nisan’ (aprile), da qui il loro nome di Quartodecimani e dall’altra parte le Chiese Occidentali compresa quella di Roma, la celebravano la Domenica come il giorno nel quale Gesù era risorto.
Questa controversia vide impegnati nei due schieramenti grandi personaggi della Fede cristiana, come s. Policarpo di Smirne, s. Ireneo, papa Aniceto, Papirio, Melitone, ecc.
Il papa Vittore I indisse i Sinodi presso le varie Chiese per poter avere risposta specifica sull’argomento, se favorevoli o no alla celebrazione domenicale. Ancora una volta le Chiese asiatiche rimasero sulle loro posizioni e il papa allora agì di autorità, dopo aver imposto la celebrazione romana a tutta la Chiesa Universale, comminò la scomunica a tutti i dissenzienti, ma poi non l’applicò, visto le mediazioni di autorevoli vescovi non asiatici, tese ad evitare un grave scisma.
Comunque durante il III sec., la scelta di Roma fu poi pacificamente accettata.

Questo altro episodio ci presenta il papa Vittore I come il primo vero “papa”, il quale afferma la supremazia della Chiesa di Roma sulle altre, lo si vede nell’imporre la celebrazione dei Sinodi nelle varie Chiese e la loro ubbidienza; anche l’atto di imporre pena la scomunica, la celebrazione della Pasqua in un’unica data universale, lascia intravedere i primi segni di quello che sarà nei secoli futuri il primato di Pietro e quindi di Roma.

Altre eresie che si affacciavano durante il suo pontificato, furono combattute con vigore, come l’adozionismo che presentava Gesù come puro uomo adottato da Dio come figlio ed elevato così al rango divino.
Papa Vittore I presenta un’altra caratteristica, egli era un africano ed insieme a s. Melchiade, (papa 100 anni dopo) furono gli unici papi di questo Continente, a riprova di quanto fossero importante nell’epoca romana il Nord Africa e le zone vicine all’Asia Minore.
Non si conosce bene come morì, ma visto che i suoi secondi cinque anni di pontificato corrispondono alla ripresa delle persecuzioni con il nuovo imperatore Settimio Severo, quasi certamente fu martirizzato come i suoi predecessori. Sepolto presso s. Pietro, lo si ricorda il 28 luglio.

FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/90137

Beata Maria di Gesù

BEATA MARIA DI GESÙ

Vincenza Jordá e Martí

Vergine e martire – 23 luglio 1936

Questa santa spagnola si distingueva per la sua straordinaria capacità di raccoglimento. Amante del silenzio e della vita interiore si rifugiava piacevolmente nella preghiera. All’interno della sua comunità veniva considerata un esempio di santità. Fu martirizzata all’età di 37 anni e 15 di vita religiosa.

Vicenta Jordà y Martí nacque a Zorita (provincia di Castellón) il 6 marzo 1899, figlia del contadino Gabriel Jordà e di Vicenta Martí. Entrò tra le monache Minime di Barcellona a diciott’anni e professò i voti temporanei nel 1921. Il 14 dicembre 1924, invece, emise quelli solenni, ma dovette ripeterli il 2 aprile 1935 a causa di un difetto di forma.

Due consorelle che la conobbero rilasciarono, nel 1988, alcune testimonianze giurate. Suor Concepción di Gesù riferì: «Si distingueva in maniera speciale nel raccoglimento; era molto amante del silenzio e della preghiera, al suo fianco ci trovavamo bene. In comunità godeva fama di santità. Il suo rifugio era la preghiera, specialmente davanti al Tabernacolo».

Suor Teresita di Gesù Bambino lo conferma: «Godeva in comunità di fama di santità: era sempre in Dio. Anima di preghiera, molto silenziosa […] compiva molto bene il proprio dovere e aiutava molto la professa di voti temporanei che aveva come aiutante e non possedeva tante iniziative. Il suo raccoglimento era tale che, nei momenti liberi, era già scomparsa per andare dal Signore. Aveva molta intimità con una sorella della Comunità, parlavano sempre di Dio». Si trattava di madre Consuelo del Sacro Cuore di Gesù, che sopravvisse alla dispersione e al martirio delle consorelle.

Allo scoppio della guerra civile spagnola, venne costretta ad abbandonare il convento e, insieme a otto consorelle e a Lucrecia Garcia Solanas, sorella di sangue di una di loro, si rifugiò in un edificio vicino, la Torre Arnau, presso la quale c’era una caverna che venne adattata come rifugio per le monache.

Nel periodo trascorso lì, dichiarò suor Teresita, suor Maria riferì a madre Consuelo di avere molta paura non del martirio, ma di mettere in pericolo la propria verginità nel corpo. Dopo essere stata incoraggiata dalla sua confidente, si mise in preghiera e, un momento dopo, tornò e disse: «Ho dato tutto al Signore, che faccia di me ciò che vuole; mi sono già affidata completamente a Dio».

Mercoledì 22 luglio 1936 tornò, insieme ad alcune consorelle, alla torre, per non mettere in pericolo la famiglia che le ospitava. Tuttavia, alle tre e mezza della notte del 23 luglio, alcuni miliziani, informati da Esteban, il portinaio del convento, assaltarono la torre in cerca di dieci monache. Entrati nella sala da pranzo, videro nove donne che recitavano il Rosario e chiesero chi di loro fosse la superiora, per ottenere da lei i valori del convento.

Alle proteste di madre Maria di Montserrat, che affermava che sua sorella Lucrecia non era una monaca (in effetti, era vedova), i persecutori non credettero: erano convinti che fosse quella che mancava per arrivare alle dieci che cercavano. In realtà, suor Maria di Gesù si era nascosta a pregare in un luogo appartato: quando, durante la perquisizione della torre, venne scoperta, si consegnò volontariamente.

Le nove monache e Lucrecia vennero gettate in un camion e, dopo essere fatte scendere, torturate e uccise. Al momento del martirio, suor Maria di Gesù era la più giovane del gruppo: aveva trentasette anni, di cui quindici di vita religiosa. Dall’autopsia del suo cadavere risultò che non aveva subito violenza.

Insieme alle sue compagne di martirio, è stata beatificata a Tarragona il 13 ottobre 2013, inclusa nel più vasto gruppo di cinquecentoventidue martiri caduti durante la guerra civile spagnola.

FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/96208

 

Beato Tommaso da Orvieto

BEATO TOMMASO DA ORVIETO

Religioso (1300 circa – 1343) 21 giugno

Il comune di Orvieto, come risulta da antichi documenti del 1463 conservati nell’Archivio di Stato della città, offriva ogni anno, il 21 giugno, un cero per l’altare in cui erano venerate le spoglie del beato Tommaso dei Servi di Maria.

Il comune di Orvieto, come risulta da antichi documenti del 1463 conservati nell’Archivio di Stato della città, offriva ogni anno, il 21 giugno, un cero per l’altare in cui erano venerate le spoglie del beato Tommaso dei Servi di Maria. L’atto pubblico si univa alla devozione unanime della popolazione verso l’umile frate, dichiarato santo dai suoi concittadini alcuni secoli prima che la Chiesa ne confermasse ufficialmente il culto. Tommaso aveva raggiunto le vette del Paradiso senza fare nulla di straordinario, semplicemente, con umiltà.

Il Beato nacque nell’antichissima città di Orvieto in una buona famiglia da cui assimilò un ardente amore per la Santa Vergine. Fin da piccolo imparò a recitare ogni giorno le preghiere in suo onore, anche camminando per le strade della città e, quando poteva, in ginocchio. Fu naturale dunque la decisione di farsi religioso, consacrandosi alla Madre del Signore nell’Ordine per Lei fondato nel 1233 da sette mercanti fiorentini. La congregazione, che andava diffondendosi, eccellendo per la santità dei suoi membri, era giunta in Orvieto nel 1260. Negli anni della giovinezza di Tommaso vi viveva il dotto frate B. Bonaventura da Pistoia, maestro in santità e dottrina, collaboratore di S. Filippo Benizzi e guida spirituale di S. Agnese da Montepulciano.

Tommaso volle essere un semplice converso, ad imitazione proprio della Vergine, la Serva del Signore. Venne così destinato alla raccolta delle elemosine, ricoprendo questo incarico devotamente. Tanto umile nel mendicare quanto gioioso nel donare, venne ricompensato da Dio con tangibili segni miracolosi. A contatto con le più diverse classi sociali, toccando con mano la miseria dei bisognosi, donava quanto poteva, a costo di privarsi di ciò che era necessario al suo sostentamento.

Tra gli altri, ci è stato tramandato un episodio singolare: durante un inverno, mentre era in giro per la questua, incontrò una donna che sempre gli faceva l’elemosina e che trovandosi in stato di gravidanza aveva un forte desiderio di mangiare dei fichi. Vista la stagione la richiesta era irrealizzabile, ma Tommaso promise che il giorno seguente l’avrebbe accontentata. Dopo aver pregato si recò nell’orto e quale fu la gioia nel trovare i sospirati frutti. Erano tre, fra cinque foglie: il frate raccolse tutto il rametto e lo portò alla donna. L’episodio rimase talmente impresso nella memoria collettiva che Tommaso venne poi chiamato il frate “del fico” e con quell’atto assumerà la sua tipica raffigurazione iconografica.

L’albero diede in seguito frutti di un sapore tutto particolare. Altri fatti eccezionali operò il beato ancora in vita: due ciechi guariti e un ragazzo illeso dopo la caduta in un precipizio. Molti miracoli si verificarono successivamente alla sua morte, avvenuta nell’anno 1343. La sua sepoltura, presso l’altare della Vergine dei Dolori, divenne meta di pellegrinaggi e fonte di grazie.

A inizio ‘600, mentre si raccoglievano i documenti per la stesura degli annali dell’Ordine, il priore del convento dei Servi di Orvieto raccolse alcune memorie, documenti e molte relazioni di grazie del B. Tommaso che furono poi importanti per la beatificazione. Mentre era superiore della provincia Fra Luca Pucci di Foligno (1698-1701) si procedette alla prevista ricognizione del corpo che, secondo le antiche memorie, era inumato con quello del B. Bonaventura da Pistoia. Nottetempo e segretamente si procedette a cercare la sepoltura. Trovata la cassa, dopo l’autorizzazione del vescovo, la si aprì in presenza di un notaio. La festa diocesana, “ab immemorabili”, come risulta dalle carte comunali, si celebra il 21 giugno. Un’altra memoria era però molto sentita, coincidente col primo martedì dopo Pasqua. In tale giorno, dopo una solenne celebrazione in duomo, il popolo numerosissimo si raccoglieva nella chiesa dei Servi per venerare le reliquie del beato appositamente esposte. Quest’ultima festa fu celebrata fino alla riforma del calendario liturgico, la memoria propria dell’Ordine è invece fissata al 27 giugno.

Nel 1758 si dipinsero dieci medaglioni raffiguranti momenti importanti della vita del beato e fatti occorsi dopo la sua morte. Sono purtroppo scomparsi durante i lavori di ristrutturazione della chiesa nella seconda metà dell’800, ma la loro descrizione è interessante per comprendere come la popolazione, in larga parte analfabeta, venisse a conoscenza delle virtù del nostro beato. Ne abbiamo notizia da un documento del processo di beatificazione, scritto dieci anni dopo la loro esecuzione. Il loro contenuto era: il piccolo Tommaso vede in sogno l’Addolorata che gli porge l’abito dei Servi, la carità dei pani verso i poveri, l’episodio celebre del dono dei fichi in pieno inverno ad una donna gravida, il beato che prega per un giovane che cade in un dirupo, la restituzione della vista ad un cieco, la guarigione di un monaco da una cancrena, la liberazione dal carcere di un condannato a morte, un cieco che prega davanti al sepolcro del beato, devoti davanti al medesimo sepolcro e infine due frati che porgono una reliquia del beato ad un’inferma. L’immagine più antica di fra’ Tommaso è invece conservata in sacrestia, insieme ad altri tondi raffiguranti santi e beati dell’Ordine, eseguiti dalla mano sapiente di Luca Signorelli (1445-1523).

Una ulteriore ricognizione delle reliquie fu fatta nel 1738: si trovarono una pergamena datata 1343 e alcuni ramoscelli di fico. Analizzato dai periti, lo scheletro era in discrete condizioni. Terminate le operazioni furono suonate le campane e cantato il Te Deum. Papa Clemente XIII ne confermò il culto il 10 dicembre 1768, seguirono grandi festeggiamenti. Nel 1902 si provvide al cambio dell’abito e alcune reliquie furono portate a Roma presso la postulazione dell’Ordine. Oggi il suo corpo riposa sotto la mensa dell’altare maggiore della medesima chiesa dei Servi che, a distanza di sette secoli, sono ancora coadiuvati dall’ordine secolare nato qualche anno prima dell’umile frate “del fico”.

PREGHIERA

O Dio, che benigno porgi ascolto alle preghiere degli umili, concedi alla tua famiglia, per intercessione del Beato Tommaso, di ottenere la serenità nella vita presente e il gaudio eterno in quella futura. Amen

Autore: Daniele Bolognini Fonte:http://www.santiebeati.it/dettaglio/92947

 

Beati Martiri Irlandesi

BEATI MARTIRI IRLANDESI

XVI-XVII secolo – 20 giugno

Il 27 settembre 1992 papa Giovanni Paolo II beatificò diciassette martiri irlandesi uccisi dai protestanti tra il 1579 e il 1654. Naturalmente, l’elenco sarebbe molto lungo, dal momento che la persecuzione anticattolica nell’arcipelago britannico, dallo scisma di Enrico VIII in poi, provocò circa settantamila vittime.

Dall’elenco totale fu ulteriormente selezionato un gruppo di diciassette, sia perché rappresentativi di tutte e quattro le province irlandesi, sia perché appartenenti a epoche diverse, sia infine perché sulle loro vicende la documentazione è particolarmente dettagliata. Scrive Andreas Resch nel III volume della sua opera I Beati di Giovanni Paolo II (Libreria Editrice Vaticana, 2003): “La scomunica di Elisabetta I da parte del potefice s. Pio V nel 1570 diede inizio a una fiera persecuzione in Inghilterra che colpì particolarmente i sacerdoti.

Risultati immagini per martiri irlandesiIn Irlanda, invece, le prime uccisioni intendevano creare, in un tempo di incertezze e di minacce, un clima di paura fra il popolo cristiano. La ribellione del conto di Desmond nel Sud, la spedizione militare di James Fitzmaurice Fitzgerald del luglio 1579 con l’appoggio di papa Gregorio XIII e l’insurrezione di lord Baltinglass nel 1580, ognuna nel nome della libertà cattolica, erano tutte fallite. Per le autorità protestanti di Dublino, tuttavia, costituivano motivo di preoccupazione non lieve”. Fu in questo clima che molti esponenti cattolici vennero trucidati: “Il destino, però, di tutte queste persone fu sempre dipendente da un solo motivo: il rifiuto di emettere il giuramento di Supremazia, ossia di riconoscere la regina come capo della Chiesa”.

C’è da osservare che l’Irlanda, evangelizzata da s. Patrizio ne V secolo, non aveva mai avuto martiri in tutta la sua storia precedente. Il primo martire fu il vescovo di Mayo, il francescano Patrick O’Healy, impiccato nel 1579 insieme al confratello Conn O’Rourke. Quest’ultimo era figlio di lord Brian di Breffni e si trovava in Spagna insieme all’OHealy, che insegnava all’università. I due avevano collaborato ai negoziati che dovevano condurre alla spedizione militare di Fitzgerald. L’idea era quella di invadere l’Irlanda e darne la corona a Don Giovanni d’Austria, fratello di Filippo II vincitore a Lepanto. Così l’Irlanda cattolica sarebbe stata salvata. I due francescani si imbarcarono per preparare il terreno ma le spie avevano già informato gli inglesi. Appena sbarcati vennero arrestati e impiccati senza processo il 13 agosto 1579.

Prima dell’esecuzione fu loro offerta la possibilità di passare anglicanesimo (la conversione di un vescovo cattolico sarebbe stata un buon colpo propagandistico) ma rifiutarono. Nel 1580 il conte di Desmond innescò la ribellione irlandese in concomitanza con lo sbarco delle truppe di Fitzgerald. Si unirono il visconte di Baltinglass e il clan degli O’Byrne. Ma nella battagli di Leynster i cattolici vennero sconfitti.

Nel febbraio 1581, Baltinglass e il suo cappellano, il gesuita Robert Rockford, trovarono rifugio a Wexford, dove un gruppo di marinai e un fornaio, cattolici, offrì loro aiuto e la possibilità di far perdere le proprie tracce. I marinai erano cinque, ma conosciamo solo i nomi di Robert Meyler, Edward Cheevers e Patrick Cavanagh. Il panettiere si chiamava Matthew Lambert. Con l’accusa di aver aiutato dei traditori, questi sei cattolici vennero appesi per il collo e poi fatti squartare da cavalli legati ai loro arti. Il fornaio Lambert, uomo semplice, dichiarò ai suoi aguzzini che poco sapeva di questioni teologiche ma che intendeva restare fedele al Papa.

Margaret Ball era figlia di agiati proprietari terrieri della contea di Meath, si sposò col sindaco di Dublino ed ebbe venti figli (solo alcuni però sopravvissero). Rimasta vedova, la sua casa divenne scuola cattolica e rifugio per i preti perseguitati. Arrestata una prima volta fu rilasciata su cauzione. Ma quando un suo figlio, passato al protestantesimo, divenne sindaco fu di nuovo arrestata e, malgrado l’età avanzata, gettata nei sotterranei del castello di Dublino in isolamento. Morì in cella, nel 1584, dopo tre anni di reclusione.

Dermot O’Hurley era decano della facoltà di legge nell’Università di Lovanio. Nel 1581 il papa Gregorio XIII lo fece vescovo di Cashel. Tornò clandestinamente in Irlanda dove esercitò il suo ministero girando travestito. Ma gli inglesi, che avevano spie anche a Roma, lo cercavano. Ospite, in incognito, del barone di Slane, lo O’Hurley si consegnò per non mettere nei guai il suo amico. Lo portarono a Dublino, dove cercarono di fargli confessare quel che sapeva circa un presunto complotto papista-spagnolo ai danni dell’Inghilterra. Gli misero i piedi dentro certi scarponi di ferro pieni di olio, sotto ai quali accesero il fuoco. Poi, visto che non gli si cavava niente né intendeva piegarsi al giuramento di Supremazia, il 20 giugno 1584 lo impiccarono senza processo fuori città.

Maurice MacKenraghty era il cappellano del conte di Desmond. Nel 1583, dopo la sconfitta di Leinster e la fuga, questi fu catturato con i suoi più stretti collaboratori. Il MacKenraghty venne rinchiuso a Clonmel. Nella Pasqua del 1585 il notabile cattolico Victor White riuscì a corrompere un secondino per far si che il prete dicesse messa a casa sua. Ma il carceriere li tradì. Il sacerdote riuscì a fuggire ma poi si costituì per salvare la vita al White. Il 20 aprile del 1585 fu appeso per la gola e poi decapitato.

Dominic Collins aveva intrapreso la carriera militare in Francia, diventando capitano. Nel 1589, dopo un pellegrinaggio a Compostela, decise di farsi gesuita. Nel 1601 tornò in Irlanda insieme ad una spedizione spagnola, ma quest’ultima venne sconfitta a Kinsale e il Collins fu catturato e torturato. Poiché non volle passare all’anglicanesimo, il 31 ottobre 1602 venne impiccato a Youghal, sua città natale (per dare esempio).

Conor O’Devany, francescano, era stato consacrato a Roma nel 1582 vescovo di Down e Connor. Nel 1588, anno in cui l’Inghilterra temette l’invasione dell’Invencible Armada, fu arrestato e tenuto per diversi anni in galera. Nel 1611 venne arrestato ancora insieme al prete Patrick O’Loughran. Questi era cappellano di Hugh O’Neill, il conte che aveva dato del filo da torcere agli inglesi per nove anni dal 1594 al 1603. Scappato con gli O’Neill, era poi tornato clandestinamente per esercitare il suo ministero. Il 1° febbraio 1612 vennero impiccati entrambi su ordine di Londra.

croci

Francis Taylor era nobile e padre di sei figli. Nel 1595 divenne sindaco di Dublino ma, dopo la sconfitta della resistenza irlandese nel 1603, Londra estromise i cattolici dalle cariche pubbliche e organizzò il parlamento irlandese su base protestante. Il Taylor, che vi era stato eletto, vide la sua elezione invalidata. Nel 1613 venne addirittura arrestato e lasciato marcire in prigione fino al 10 gennaio 1621, data in cui morì.

Il domenicano Peter Higgins, dopo gli studi di Spagna, era tornato in Irlanda. Durante l’ennesima ribellione cattolica, nel 1641 si adoperò per soccorrere tutti quelli che poteva, anche protestanti. Ma fu arrestato lo stesso e il 23 marzo 1642 impiccato senza processo.

Terence O’Brien, <<padre Albert>>, era provinciale dei domenicani d’Irlanda. Nel 1648 fu consacrato vescovo di Emly. Ma l’anno seguente ci fu l’invasione di Oliver Cromwell, che esordì con i massacri di Drogheda e Wexford. Nel 1651 la città di Limerick capitolò e il vescovo fu arrestato mentre soccorreva i feriti dell’ospedale. Impiccato il 30 ottobre dello stesso anno, il suo cadavere venne squartato.

John Kearney era un francescano ordinato prete a Bruxelles nel 1642. Due anni dopo cercò di tornare in Irlanda ma la sua nave venne fermata in mare, perquisita e lui catturato. Lo portarono a Londra e lo torturarono. Ma riuscì a fuggire in Francia, a Calais. Da qui fece ritorno clandestinamente in Irlanda. Con l’arrivo di Cromwell fu messa una taglia sulla sua testa. Arrestato, il 21 marzo 153 fu impiccato perché, contro la legge, era un sacerdote cattolico.

L’ultimo è William Tirry, nipote del vescovo di Cork e Cloyne. Studiò in Spagna, Francia e Belgio prima di diventare sacerdote agostiniano e tornare in Irlanda. Divenne cappellano di un altro suo zio, il visconte di Kilmallock. Ma la sera del sabato Santo del 1654 fu arrestato mentre diceva messa e impiccato il 2 maggio. Le festa collettiva di questi martiri irlandesi cade il 20 giugno.

Autore: Rino Cammilleri su “Il Timone” (ottobre 2011)

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/93355

 

Beata Francisca de Paula De Jesus

BEATA FRANCISCA DE PAULA DE JESUS

“Nhà Chica” Laica (1810-1895) 14 giugno

Nhà Chica”, cioè zia Francesca: così in Brasile la conoscevano in vita e così la conoscono adesso, a quasi 120 anni dalla morte. E c’è da giurarci che continueranno a chiamarla così anche quando sarà elevata alla gloria degli altari, tanta è la confidenza dei brasiliani verso questa umile donna, figlia di una schiava e di padre ignoto.

Nasce nel 1808, figlia di una schiava e di padre ignoto, probabilmente il padrone della fazenda in cui sua madre è a servizio. Al battesimo le impongono il nome di San Francesco de’ Paola, di cui sono particolarmente devoti gli schiavi sudamericani, e cresce senza cognome, cui non ha diritto in quanto figlia naturale di donna schiava.

Affrancata dalla schiavitù, si trasferisce in città con la mamma e con un fratello nato da una precedente unione, restando orfana appena adolescente. Completamente analfabeta, ha ricevuto da mamma soltanto l’educazione religiosa, insieme alla raccomandazione di vivere una vita ritirata per meglio dedicarsi alla preghiera ed alla carità: un impegno cui resterà fedele per tutta la vita, malgrado le numerose proposte di matrimonio che riceve.

Perché Francisca de Paula de Jesus non passa inosservata: bella, bruna e slanciata, diventa la donna dei sogni di molti coetanei, che puntualmente si vedono, anche se in bel modo, respinti. Senza aver per niente chiaro cosa Dio e gli altri vogliano da lei, inizia molto semplicemente ad organizzare incontri quotidiani di preghiera nella sua casa: è l’unico modo a sua disposizione per farsi carico dei bisogni spirituali della sua gente. Che comincia ad arrivare, alla spicciolata o a piccoli gruppi, per riversare tra quelle quattro mura i suoi problemi.

Francisca tutto raccoglie e tutto presenta alla “mia Signora”, cioè alla Madonna, raffigurata in un’umile statuetta di terracotta con le sembianze dell’Immacolata. Incredibilmente, trovano risposta le intercessioni presentate attraverso l’umile Francisca, che con una disarmante semplicità non fa che ammettere: “Io la prego e Mia Signora mi risponde”. In cerca di consigli, suggerimenti, parole di conforto, guarigione fisiche o spirituali da lei si presentano persone umili ed altolocate, consiglieri imperiali e professionisti, giovani ed anziani: a ciascuno Francisca trasmette il messaggio che attinge dalla Madonna, ben lontana dall’atteggiarsi a profetessa, con l’umiltà di chi sa di altro non essere che il canale per far incontrare cielo e terra, quasi nascondendosi dietro il suo semplice ruolo di intermediaria, in virtù del quale ripete incessantemente: “Rispetto ciò che mi dice la Madonna e niente più”.

Parallelamente a questo suo ministero di consiglio e di consolazione, Francisca svolge anche un ruolo di carità concreta, organizzando settimanalmente un pranzo per i poveri e donando generosamente a chiunque bussa alla sua porta per chiedere un aiuto e così, benchè povera come loro, diventa “madre dei poveri”.

Nel 1862, a dire il vero, anche lei ha l’occasione di dare una svolta alla propria vita: il fratello, che ha fatto carriera e si è arricchito nel commercio, morendo in quell’anno senza figli la nomina sua erede universale e mette di fatto nelle sue mani una fortuna immensa. Francisca coglie al volo l’occasione per meglio organizzare le sue opere di carità ed assistenza, moltiplicare le sue elemosine, venire incontro ai bisogni più disparati. Utilizzando una parte di quei beni “piovuti dal cielo” riesce anche ad esaudire un desiderio che dice esserle stato chiesto direttamente e da tanto tempo dalla Madonna: costruire una cappella dedicata all’Immacolata Concezione.

Appena può, comunque, si spoglia di tutto, lasciando la parrocchia erede di tutti i suoi averi e tornando ad essere povera come sempre e continuando comunque ad arricchire spiritualmente tanti. Muore il 14 giugno 1895 e viene sepolta nella cappella da lei fatta edificare per il culto dell’Immacolata, all’ombra della quale oggi hanno preso vita molte opere di assistenza sociale. Il processo per la sua beatificazione, iniziato quasi 100 anni dopo, nel 2011 ha raggiunto una tappa importante con il riconoscimento delle virtù eroiche, mentre parallelamente si sta procedendo all’esame di uno dei tanti “miracoli” attribuiti alla sua intercessione per cui c’è da credere che molto presto si possa venerare sugli altari Francisca de Paula de Jesus, detta “nhà Chica”.

Il 4 maggio 2013 Nha’ Chica è stata beatificata a Baependi con rito presieduto dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, in rappresentanza del papa.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/95538

 

 

 

 

Beata Marianna Biernacka

BEATA MARIANNA BIERNACKA

Martire (1888-1943) 13 giugno

Nel giorno della festa di sant’Antonio da Padova, ricordiamo una figura del nostro tempo. Una dei 108 martiri polacchi del nazismo la cui storia ricorda quella del francescano Massimiliano Kolbe. Vedova ortodossa poi convertita si offrì al posto di sua nuora, che era incinta.

Papa Giovanni Paolo II, ha proclamati beati il 13 giugno 1999 a Varsavia, durante il suo settimo viaggio apostolico in Polonia, 108 martiri vittime della persecuzione contro la Chiesa polacca, scaturita durante l’occupazione tedesca dal 1939 al 1945. L’odio razziale operato dal nazismo, provocò più di cinque milioni di vittime tra la popolazione civile polacca, fra cui molti religiosi, sacerdoti, vescovi e laici cattolici.

Fra i tanti si è potuto, in base alle notizie raccolte ed alle testimonianze, istruire vari processi per la beatificazione di 108 martiri, il primo processo fu aperto il 26 gennaio 1992 dal vescovo di Wloclaweck, dove il maggior numero delle vittime subì il martirio; in questo processo confluirono poi altri e il numero dei Servi di Dio, inizialmente di 92 arrivò man mano a 108.

Diamo qualche notizia numerica di essi, non potendo riportare in questa scheda tutti i 108 nomi. Il numeroso gruppo di martiri è composto da quattro gruppi principali, distinti secondo gli stati di vita: vescovi, clero diocesano, famiglie religiose maschili e femminili e laici; appartennero a 18 diocesi, all’Ordinariato Militare e a 22 Famiglie religiose.

Tre sono vescovi, 52 sono sacerdoti diocesani, 3 seminaristi, 26 sacerdoti religiosi, 7 fratelli professi, 8 religiose, 9 laici. Subirono torture, maltrattamenti, imprigionati, quasi tutti finirono i loro giorni nei campi di concentramento, tristemente famosi di Dachau, Auschwitz, Sutthof, Ravensbrück, Sachsenhausen; subirono a seconda dei casi, la camera a gas, la decapitazione, la fucilazione, l’impiccagione o massacrati di botte dalle guardie dei campi.

Capogruppo dei 9 laici è la beata Marianna Biernacka della diocesi di Lomza in Polonia, nacque nel 1888 a Lipsk, in una famiglia di cristiani ortodossi. A 17 anni nel 1905, insieme ai suoi familiari, passò fra i cattolici di rito latino.

All’età di 20 anni si sposò con il rito cattolico con Ludwik Biernacki; dal matrimonio nacquero sei figli. Dopo la morte del marito coabitò con il figlio Stanislao e con sua moglie, condividendo la sua vita con la giovane coppia, dimostrando saggezza cristiana e amore fraterno verso di essi e i loro figli.

Tra la gente del suo paese era conosciuta per la sua benevolenza e profonda religiosità. Quando Lipsk il 1° luglio 1943, fu colpita da una rappresaglia tedesca e sconvolta da arresti di massa, anche la giovane nuora incinta di un altro figlio fu arrestata; allora si fece avanti Marianna e si propose al posto della nuora per salvare lei e la vita del nascituro.

Fu un nobile slancio d’amore di una semplice donna di 55 anni, che offrì la sua vita per altri, come già fece s. Massimiliano Maria Kolbe (1894-1941) frate conventuale, nel campo di Auschwitz.

Lo scambio fu accettato e gli arrestati furono tradotti in carcere, da lì fu spostata a Naumowicz presso Grodno (attualmente in Bielorussia) e fucilata il 13 luglio 1943.

E la Chiesa ha voluto affiancare ai tanti suoi figli consacrati, vittime in Polonia della barbarie nazista, anche questa umile donna, che a pari loro, riconoscendo Gesù nei fratelli, mise in pratica il detto evangelico “Chi perderà la propria vita per me, la salverà”.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/92076

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Beata Maria del Sacro Cuore di Gesù

BEATA MARIA DEL SACRO CUORE DI GESÙ

 (Maria Schininà Arezzo) Fondatrice – 11 giugno

La beata di oggi era una nobile che condusse una vita signorile fino a quando – morto il padre e sposatisi tutti i fratelli – rimase sola con la madre. Iniziò così il cammino verso i poveri, abbattendo le barriere non solo di censo, ma soprattutto culturali, ai tempi fortissime. Nel 1889 fondò le Suore del Sacro Cuore, che furono molto attive nel terremoto di Messina.

Maria Schininà Arezzo nacque a Ragusa il 10 aprile del 1844 e fu battezzata il giorno stesso della nascita. Era discendente da due famiglie di antica nobiltà siciliana: il padre era Giambattista Schininà, dei marchesi di Sant’Elia e dei baroni di San Filippo e del Monte, mentre la madre era Rosalia Arezzo Grimaldi, dei duchi di San Filippo delle Colonne.

Quinta di otto figli, crebbe in un ambiente familiare dove venivano professati i principi cristiani. Ricevette un’educazione integerrima con l’aiuto del sacerdote Vincenzo Di Stefano, suo precettore, figura usuale nelle famiglie nobili. Seguendo l’istinto della sua età esercitò, sempre con liceità, la danza, seguì la moda ed ebbe una particolare predilezione per la musica. A sei anni le fu impartita la Cresima e, l’anno successivo, ricevette la Prima Comunione.

Nel 1860, a 16 anni, divenne l’animatrice della costituenda banda musicale di Ragusa: in occasione dei festeggiamenti per l’Unità d’Italia ebbe il privilegio, da parte del maestro della banda, di battere il tempo con la bacchetta durante il concerto nella piazza adiacente la cattedrale.

Ma intimamente si sentiva insoddisfatta: dava ascolto alle più profonde esigenze del suo spirito che anelava ad una più approfondita ricerca di Dio. Rifiutò più volte le proposte di matrimonio e si dedicò ad una vita più devota. Quando anche l’ultimo fratello si sposò, nel 1874, rimase sola con la madre che non la ostacolava.

Si spogliò quindi dell’elegante vestiario e si rivestì con quello delle popolane, mettendosi a servizio dei poveri. Fu una scelta sconvolgente per la società dell’epoca, perché infranse il muro esistente fra ricchi e poveri, nobili e popolo, per servire personalmente nei loro tuguri i poveri e gli ammalati, la cui situazione critica si era acutizzata con tutte le problematiche della Questione Meridionale. Maria li chiamava “la pupilla di Dio” e in loro vedeva il volto di Gesù.

Il padre carmelitano Salvatore Maria La Perla la nominò prima direttrice dell’associazione delle Figlie di Maria, che nel 1877 era stata impiantata a Ragusa. Maria radunò dunque intorno a sé molte giovani e vivacizzò la società e la Chiesa ragusane. Istituì nuove forme di apostolato, come l’insegnamento del catechismo ai fanciulli, la solennità della Prima Comunione, il soccorso dei poveri a domicilio, la propagazione della devozione al Sacro Cuore tra il clero e i fedeli.

Morta sua madre nel 1884, espresse il desiderio di farsi suora di clausura ma, consigliata dall’arcivescovo di Siracusa, rimase in città a continuare le sue opere di misericordia. Nel 1885 si associò ad alcune compagne formando un gruppo di apostolato. Il 9 maggio 1889 si unì in comunità con le prime cinque giovani, fondando così l’Istituto del Sacro Cuore, con lo scopo di offrire ricovero alle orfane abbandonate e povere e per propagare il catechismo a Ragusa e comuni vicini, dare asilo agli anziani invalidi, assistendo i carcerati e gli operai che lavoravano nelle miniere di “pietra pece”, il cui sfruttamento nei dintorni di Ragusa era cominciato verso la fine dell’800.

La sua era una vita tutta di preghiera e fede, al punto che si impresse sul petto il nome “Jesus” con un ferro arroventato. Papa Leone XIII la ricevette in udienza nel 1890. Nel 1892 iniziò la costruzione della prima casa dell’Istituto, che divenne in seguito la Casa madre. Fu chiamata ad organizzare a Ragusa l’Associazione delle Dame di Carità e ospitò nel suo Istituto, dal 1906 al 1908, le prime monache carmelitane giunte in città. Dal 1908 al 1909 diede anche asilo ai profughi del disastroso terremoto che distrusse Messina e Reggio Calabria.

Dopo aver consolidato la sua congregazione, madre Maria del Sacro Cuore si sentiva ormai pronta all’incontro col Signore. La sera del 3 giugno 1910, quell’anno festa del Sacro Cuore, volle radunare attorno a sé le orfanelle ospitate in Casa madre, poi si allontanò per andare in cappella. Nei giorni seguenti fu più affaticata del solito, finché, il 9 giugno, non ebbe un forte dolore al petto. Le suore chiamarono il medico, mentre lei fece chiamare il confessore, padre Branchina. Con un sorriso, gli disse: «Il padrone mi chiama, vostra reverenza, ascolti la mia confessione». Il giorno dopo ricevette l’Unzione degli Infermi e la Comunione in forma di viatico da padre Branchina. L’11 giugno, dopo aver affidato alle sue Suore del Sacro Cuore il comandamento dell’amore, madre Maria del Sacro Cuore morì: aveva 66 anni.

Il processo per l’introduzione della causa si è svolto inizialmente (1937 – 1945) presso la Curia arcivescovile di Siracusa ed è proseguito (1956 – 1957) nella Curia vescovile di Ragusa. Nel 1974 si tenne la discussione della fama di santità e il 16 gennaio 1975 la Causa di Beatificazione venne ufficialmente introdotta. Il processo informativo e quello apostolico sono stati convalidati il 25 novembre 1983, mentre la “Positio super virtutibus” è stata consegnata a Roma nel 1988. Sia i consultori teologi, il 13 dicembre 1988, sia i cardinali e vescovi membri della Congregazione vaticana per le Cause dei Santi, il 21 marzo 1989, hanno espresso parere positivo circa l’esercizio delle virtù cristiane in grado eroico. Il 13 maggio 1989 il Papa san Giovanni Paolo II ha quindi autorizzato la promulgazione del decreto con cui madre Maria del Sacro Cuore di Gesù veniva dichiarata Venerabile.

Come presunto miracolo utile per la beatificazione, tra gli oltre 150 fatti prodigiosi documentati e conservati presso la Casa generalizia delle Suore del Sacro Cuore, è stato scelto quello riguardante la signora Angelina Tarantino in Veltri, di Scalea (Cosenza). Era stata ricoverata nell’Ospedale Mariano Santo di Cosenza per una sindrome asmatica con enfisema ostruttivo e gravissima insufficienza respiratoria. Consigliata anche dalle suore che operavano presso l’ospedale, invocò la loro Fondatrice e si ritrovò guarita proprio al momento della crisi definitiva.

Per questo asserito miracolo è stato istruito il processo cognizionale presso la Curia arcivescovile di Cosenza, durato dal 5 marzo 1981 all’11 gennaio 1982 e convalidato il 17 dicembre 1983. La Commissione medica della Congregazione per le Cause dei Santi, il 25 ottobre 1990, si è pronunciata favorevolmente circa l’inspiegabilità dell’evento. I consultori teologi, il 2 febbraio 1990, e i cardinali e vescovi della Congregazione, il 13 marzo 1990, hanno confermato questo parere. Il Papa ha quindi concesso, il 9 aprile 1990, di promulgare il decreto con cui la guarigione era dichiarata inspiegabile, completa, duratura e ottenuta per intercessione di madre Maria Schininà. La beatificazione si è quindi svolta a Roma il 4 novembre 1990, con la celebrazione presieduta dal Papa san Giovanni Paolo II. La sua memoria liturgica cade il 12 giugno, il giorno seguente alla sua nascita al Cielo.

Le Suore del Sacro Cuore sono attualmente diffuse in tre continenti ed espandono con misericordia l’amore e la carità per i più bisognosi, seguendo lo spirito della fondatrice, i cui resti mortali riposano nella chiesa della Casa madre, a Ragusa, in via Beata Maria Schininà 2. Esiste anche un gruppo di laici, i Laici Amici di Maria Schininà (LAMS), i cui aderenti s’impegnano a vivere nel loro stato gli insegnamenti e il carisma della Beata fondatrice delle suore.

https://www.youtube.com/watch?v=rRnc9UKvEmE&t=359s

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/91055

 

SANT’ESPEDITO DI MELITENE

SANT’ESPEDITO DI MELITENE

19 aprile

Patrono delle cause urgenti e disperate. Mostra la Croce sulla quale sta scritto: Hodie (oggi) e schiaccia la testa ad un corvo che col suo gracchiare dice: Cras (domani) per insegnarci che non dobbiamo mai dubitare della Onnipotenza di Dio, né aspettare il domani per pregare con fiducia e fervore. E’ il Santo dell’undicesima ora, che non è mai invocato troppo tardi, sempre però come intercessore presso la Santissima Vergine.

Sant’Espedito, onorato per riconoscenza da chi vi ha invocato per l’ultima sua ora, e per cause urgenti, noi vi preghiamo d’ottenerci dal Sacro Cuore di Gesù, e per l’intercessione di Maria Santissima Addolorata (oggi, o per tal giorno) la grazia diche noi sollecitiamo, sempre però sommessi al volere del Signore.

Le notizie riguardanti S. Espedito si ricavano solamente dai martirologi ed è pertanto impossibile avere dettagli più precisi sulla sua esistenza. Il Martirologio Geronimiano (che risale, nella sua originaria formulazione, alla prima metà del V secolo) commemora il martire Espedito in due date: il 18 aprile ed il 19 aprile. La prima data sembra però essere frutto di un errore: si può facilmente dimostrare che i nomi dei presunti compagni di martirio del 18 aprile sono solo ripetizioni di nomi di altri santi. A questo proposito occorre ricordare che gli errori (modificazioni di date, luoghi, ecc.) sono molto frequenti nei martirologi.

In sintesi, le uniche informazioni che sembrano certe riguardano il giorno (19 aprile) ed il luogo di morte (Melitene, ora Malatya, in Turchia); nulla si può dire neanche sulle circostanze del martirio, né sulla sua epoca (l’affermazione che esso avvenne sotto Diocleziano non si fonda su dati storici), sicuramente però anteriore alla redazione del Martirologio Geronimiano.

L’esistenza di S. Espedito è stata più volte messa in dubbio, senza però una ragione basata su prove decisive. Secondo Delehaye, il nome Espedito sarebbe una lettura errata di Elpidio, ma la tesi sembra essere troppo sbrigativa. Infatti, sia S. Espedito che un martire di nome Elpidio morirono a Melitene insieme ad un compagno di nome Ermogene, ma nulla indica che si tratti dello stesso Ermogene: tant’è vero che il Martirologio Geronimiano segnala i martiri “Elpidio ed Ermogene” sempre in date diverse dal 19 aprile, giorno in cui sono invece riportati i nomi di Ermogene, Espedito e degli altri compagni. Appare quindi una forzatura considerare Elpidio ed Espedito appartenenti allo stesso gruppo di martiri o identificarli addirittura nella stessa persona.

E’ anche stata avanzata l’ipotesi che la parola “expeditus” debba essere intesa come aggettivo riferito ad una persona e non come nome proprio. Effettivamente, in latino, tale vocabolo poteva essere sia aggettivo (“libero da impacci”) che sostantivo (“chi è libero da impacci”; nel linguaggio militare, il plurale “expediti” indicava la fanteria leggera). Non ci sono però assolutamente prove per affermare – come qualcuno ha fatto in passato – che “expeditus” sia un aggettivo riferito a S. Menna. L’unico legame tra i due santi consiste nel fatto che entrambi sono rappresentati in vesti militari e, dopo il XVII secolo, la loro iconografia venne confusa in Occidente.

Intorno alla figura di S. Espedito sono nate anche diverse leggende. Frutto di invenzione è ad esempio la storia che presenta S. Espedito come comandante della legione romana Fulminante e autore del miracolo dell’acqua avvenuto all’epoca di Marco Aurelio.

Esiste poi un’altra leggenda, diffusa in numerose versioni: in ognuna di esse si spiega che il nome “Expeditus” deriverebbe dalla scritta ”spedito” posta su un pacco contenente le reliquie di un santo sconosciuto. Naturalmente, queste storie sono completamente false, dal momento che il nome “Expeditus” si trova già nel Martirologio Geronimiano. Una variante di questa leggenda è presente anche in una poesia, all’interno della raccolta Palmström (1810), dell’autore tedesco Christian Morgenstern (München, 1871 – Merano, 1941); in quest’opera viene inoltre nominata un’opposizione da parte della Chiesa di Roma al culto del santo.

Per quanto riguarda il culto di S. Espedito, sicuramente il nome “Expeditus” ha facilitato giochi di parole e così egli è diventato il santo della rapidità per antonomasia. Inizialmente invocato per le cause urgenti, è divenuto patrono dei commercianti (per il celere disbrigo degli affari) e dei naviganti; per lo stesso motivo viene anche pregato dagli esaminandi e per il buon esito dei processi.

Espedito è raffigurato nelle vesti di soldato (il termine latino “expeditus”, come già accennato, significa anche “armato alla leggera”) e calpesta un corvo che grida “cras” (“domani” in latino): secondo una leggenda, tale corvo, che rappresenta lo spirito maligno, apparve a S. Espedito dopo la conversione al cristianesimo. Nell’area germanica il santo è rappresentato con un orologio, mentre nel resto del mondo ha in mano un crocefisso (elemento aggiunto in epoca successiva) con la scritta “hodie” (“oggi” in latino).

Il culto, al contrario di quanto si legge solitamente, non è di origine piuttosto recente (non nacque cioè in Sicilia e in Germania nel XVII secolo): già nel Medio Evo a Torino esisteva la contrada di S. Espedito ed il santo era patrono dei commercianti; inoltre, in Francia, il culto del santo risale almeno al XVI secolo. All’inizio del XX secolo vi furono numerose dispute intorno alla soppressione del culto: nel 1905 si diffuse addirittura la voce – infondata – che esso era stato vietato.

Attualmente S. Espedito è conosciuto ed invocato in molti Paesi, in particolare Austria, Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Filippine, Francia (ed in special modo nell’Ile de La Réunion), Italia (soprattutto in Sicilia, Campania e Lombardia), Germania, Messico, Nicaragua, Panama, Perù, Russia, Spagna, Turchia, Uruguay, Venezuela, Stati Uniti.

 

Supplica a S. Espedito martire

Glorioso S. Espedito, che Dio nella sua misericordia ha incaricato di soccorrerci nelle più grandi necessità, noi ricorriamo a Voi in questo urgente bisogno affinché per vostra intercessione, liberi da ogni ostacolo temporale e spirituale, possiamo servire Dio nella pace e nella tranquillità.

Padre nostro, Ave Maria, Gloria al Padre.

Glorioso Santo pregate ed intercedete per noi.

Sant’Espedito, onorato dalla riconoscenza di quelli che vi hanno invocato all’ultima ora e per cause difficili noi vi preghiamo di ottenere dal S. Cuor di Gesù, per intercessione dalla SS. Vergine Addolorata se a Dio piace la grazia… che noi chiediamo con piena sommissione alla divina volontà.

Padre nostro, Ave Maria, Gloria al Padre.

Glorioso Santo pregate ed intercedete per noi.

Sant’Espedito, deh! Pregate perché all’ora della nostra morte il divin Redentore pronunzi per ciascuno di noi quella soave parola: Oggi sarai meco in paradiso. Ottenete questa grazia a tutti gli agonizzanti di questo giorno, ed affrettate con le vostre preghiere la liberazione delle ani-me del purgatorio, e particolarmente delle più abbandonate.

Padre nostro, Ave Maria, Gloria al Padre

Santa Maria, Regina degli Angeli e dei Santi, pregate per noi.

Sant’Espedito martire glorioso, pregate per noi. Soldato coraggioso sino alla morte, Modello di fedeltà, Esempio di ubbidienza, Invincibile atleta delle fede, Patrono dei viaggiatori, Salute degli infermi, Soccorso dei scolari, Potente soccorso nelle cause pressanti, Amico della gioventù studiosa, Speranza dei mesti, Avvocato dei peccatori, Consolatore delle madri afflitte, Intercessore degli agonizzanti. O voi che avete ricevuto la corona promessa e quelli che soffrono persecuzioni per la giustizia, Insegnateci a far subito ricorso nelle nostre necessità.

Orazione

O Signore che ascoltate favorevolmente quelli che vi pregano con umiltà, fervore e fiducia, concedeteci, ve ne scongiuriamo, per l’intercessione deI Santo Martire Espedito la grazia urgente che chiediamo. Volgete pure uno sguardo di tenerezza verso i peccatori prossimi a comparire al vostro giusto giudizio, e fate che la gioventù cristiana si slanci con gioia all’osservanza dei vostri comandamenti e dei precetti della Chiesa. Dio onnipotente ed eterno, che siete la consolazione degli afflitti ed il sostegno dei tribolati, ascoltate il grido della nostra miseria, e per l’inter-cessione e per i meriti di S. Espedito, concedeteci di risentire gli effetti prodigiosi della vostra misericordia. Per Gesù Cristo Signor nostro. Così sia.

Orazione per la grazia ricevuta

Siate, nostro Dio, infinitamente ringraziato, perché per i meriti del nostro Signor Gesù Cristo, e ad intercessione del Santo Martire Espedito vi siete degnato accogliere le nostre umili preghiere, coll’accordarci benignamente la grazia che imploriamo dal trono della vostra misericordia. E voi, o Santo Martire Espedito, nostro speciale Avvocato e Protettore, siate mille volte benedetto. Deh! Proseguite a perorare presso Dio la causa della nostra temporale e spirituale salute, e rendeteci così facile e spedita la via per giungere al Monte dell’Eterna felicità. Così sia.

Preghiera a Santo Espedito

Mio Santo Espedito delle cause giuste ed urgenti. Soccorrimi in questo momento di afflizione e disperazione. Intercedi per me presso il nostro Signore Gesù Cristo. Tu che sei il Santo degli afflitti, tu che sei un Santo Guerriero, tu che sei il Santo dei disperati, tu che sei il Santo delle cause urgenti. Proteggimi, aiutami, dammi forza, coraggio e serenità. Ascolta la mia richiesta (Fare la richiesta). Aiutami a superare questo momento difficile, proteggimi da tutti coloro che possono danneggiarmi. Proteggi la mia famiglia, attendi la mia domanda con urgenza. Ridammi la pace e la tranquillità. Ti sarò grato fino alla fine della mia vita e porterò il tuo nome a tutti quelli che hanno fede. Grazie

Fonti: http://www.santiebeati.it/dettaglio/50050; http://www.preghiereagesuemaria.it/santiebeati/sant’espedito.htm

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Novena a Sant’Espedito Martire

San Goslino (Gozzelino)

San Goslino (Gozzelino)

Abate di S. Solutore 12 febbraio 1053

Nato da una famiglia nobile divenne abate di San Solutore. Le sue reliquie vennero traslate nella chiesa dei santi martiri Solutore, Ottavio e Avventore, in seguito all’occupazione francese  di Torino.

Nel Medioevo le guerre erano continue e mettevano a dura prova intere popolazioni, spesso già provate dalla fame e dalle epidemie. Nelle città, il più delle volte, la massima autorità era il vescovo. Torino, facente parte con Susa di un Marchesato, mentre subiva le scorribande degli Ungari e dei Saraceni, aveva come particolari nemici i Borgognoni. L’instabilità politica causava anche il malcostume sia del popolo che del clero. Intorno all’anno Mille il Vescovo Gezone, amante dell’ideale monastico, vide nella fondazione di nuovi monasteri un modo per contrastare tale decadenza morale. Mentre S. Guglielmo Abate fondava la celebre Abbazia di Fruttuaria e S. Giovanni Vincenzo illuminava con la sua santità la Sacra di S. Michele della Chiusa, a Torino nasceva un monastero benedettino presso la cappella dei Ss. Protomartiri Solutore, Avventore e Ottavio (voluta dalla B. Giuliana d’Ivrea per dare loro degna sepoltura).

I monaci, lontani dagli affetti terreni, dediti alla preghiera e allo studio della Sacra Scrittura, rispettavano umilmente i voti di povertà, castità e obbedienza. Amare il Signore voleva dire amare il prossimo e il loro esempio era di edificazione a tutti. Giorno e notte le orazioni incessanti accompagnavano le diverse occupazioni a cui ognuno era preposto. Compito dei monaci era anche quello di contrastare la diffusione delle eresie (la più pericolosa era quella dei Simoniaci).

Il monastero di S. Solutore fu fondato nell’anno 1006 e tra i primi giovani che offrirono la loro vita a Dio vi fu Goslino (o Gozzelino). Appartenente alla nobile famiglia torinese degli Avari, fu educato e istruito nelle lettere e nelle scienze umane. La vocazione religiosa arrivò presto e così rinunciò al mondo per abbracciare la Regola di S. Benedetto.

Suo maestro fu il primo abate del Cenobio, Romano, mentre compagno privilegiato fu Atanasio. Il rispetto di Goslino per la Regola fu ineccepibile, nessuno sconto si concedeva neppure quando era ammalato. Umilissimo, non prevalse mai sui compagni sebbene fosse superiore ai più per istruzione e dottrina. Digiuni e penitenze erano l’arma per combattere le passioni mentre cibo per l’anima era la lettura di libri spirituali. Fu vero modello di perfezione per coloro che vivevano al suo fianco e per quanti frequentavano il monastero: la sua santità era conosciuta da tutti.

Nel 1031, nonostante da sempre avesse declinato ogni onore, venne eletto abate. Sulla sua nomina erano d’accordo tutti ed egli accettò per adempiere alla volontà di Dio. Affidò la cura delle cose materiali ad alcuni fidati collaboratori mentre volle solo occuparsi di quelle spirituali. L’osservanza della Regola da parte di tutti i monaci garantiva il cammino della comunità verso la perfezione evangelica e Goslino, per primo, ne era il modello. Fu molto attento ai poveri, sia a quelli dei dintorni che ai pellegrini, anche a costo di impoverire notevolmente le derrate del monastero. Soccorrere il prossimo nelle necessità materiali voleva dire potersi occupare poi di quelle dello Spirito. Il Signore vigilava e mai mancò loro il necessario. Il vescovo Cuniberto, dal canto suo, fece nuove donazioni (1048).

Carico di fatiche e soprattutto di meriti, morì il 13 dicembre 1051 tra la venerazione e la stima sia del popolo che del clero. Considerato un santo, tale si tramandò la sua memoria negli scrittori antichi dell’Ordine. Purtroppo però il tempo non ci ha consegnato i manoscritti di coloro che, suoi contemporanei, ebbero modo di conoscerlo.

Sepolto umilmente, come era vissuto, nel corso dei secoli si perse traccia del suo sepolcro. Solo nel 1472 fu ritrovato il sacro corpo vestito con mitra e pastorale: un epitaffio lo indicava chiaramente. Grande stupore suscitò il candore delle sua ossa, come a testimoniare la sua santa condotta di vita. Il ritrovamento ebbe vasta eco e numerose furono le grazie che il popolo ottenne per sua intercessione. Il primo ad essere miracolato fu il medico di corte, Michele Brutis.

Il monastero fu distrutto dai francesi nel 1536. Le sue reliquie, con quelle dei Protomartiri e della beata Giuliana, fortunatamente erano state poste al sicuro nel monastero della Consolata, retto anch’esso dai Benedettini. Fu l’ultimo abate di S. Solutore, Vincenzo Parpaglia, che si preoccupò di dare loro una degna collocazione. Durante una sua ambasceria a Roma incontrò S. Francesco Borgia, terzo Generale della Compagnia di Gesù, e il Papa S. Pio V. Si definì che i Gesuiti, da poco arrivati a Torino, avrebbero costruito una chiesa dedicata ai tre martiri torinesi per accogliere le loro spoglie.

La traslazione dei cinque santi fu solenne, alla presenza del Duca Emanuele Filiberto di Savoia (19 gennaio 1575). Le reliquie di S. Goslino vennero sigillate in una cassetta e custodite con le altre prima nell’oratorio, poi nella cappella di S. Paolo della erigenda chiesa (1584). Oggi sono conservate sotto la statua del presbiterio che lo raffigura. La memoria è fissata localmente al 12 febbraio, con quella di santa Giuliana.

Autore: Daniele Bolognini

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/92107

 

Santa Vereburga

SANTA VEREBURGA

Badessa (650 – 700 circa) 3 febbraio

Questa santa principessa, dal nome per noi quasi impronunciabile, discendeva da una famiglia di santi. La tradizione vuole che riportando in vita un’oca selvatica salvò un villaggio.

Nata nel 650 dal re Wulfhere di Mercia e da Santa Ermenilda, nel 675 alla morte del padre Vereburga rinunciò ai fasti della corte e si ritirò nell’abbazia di Ely.

Il fratello del defunto, Etelredo, succedutogli al trono, fece tornare la nipote per affidarle un gruppo di case per religiose nelle contee dell’Inghilterra centrale, con lo specifico compito di introdurvi una più rigida osservanza.

Tra questi monasteri figuravano quello di Weedon nel Nothamptonshire, già abitazione reale che la santa poi trasformò in monastero, Trentham nel Lincolnshire, ove ella morì, ed Hanbury nello Staffordshire, in cui desiderò essere sepolta. Le reliquie di Vereburga furono poi traslate a Chester, assai probabilmente per salvarle dalla profanazione durante le invasioni danesi. Qui il suo sacrario, posto nella cattedrale cittadina, divenne frequentatissima meta di pellegrinaggi.

Santa Vereburga deve gran parte della sua popolarità ad una romanzesca leggenda, secondo la quale la bella principessa respinse le avances di non pochi corteggiatori onde salvaguardare la sua consacrazione al Signore. A Werbod, suo principale ammiratore, il sovrano concesse la figlia in sposa, purché egli riuscisse ad ottenere il libero consenso da parte di Vereburga. Il pretendente era però pagano e quindi già la regina Ermenilda ed i suoi figli si opposero all’eventualità di questa unione, suscitando però in tal modo la sua ira.

I principi erano stati educati da San Chad, vescovo di Lichfield, che viveva in una foresta e dava perciò loro la possibilità di mascherare le visite rivoltegli con delle spedizioni di caccia. Werbod denunciò questo fatto al re e questi non esitò a farli uccidere. Anche Werbod, però, ben presto andò incontro ad una miserabile morte ed il sovrano, roso dal rimorso, mutò in positivo i suoi rapporti con la sua santa consorte e con San Chad. Questi eventi incoraggiarono Vereburga nel suo proposito e chiese allora il permesso al padre di poter entrare ad Ely.

Un’altra antica leggenda spiega il perchè l’oca sia divenuto l’emblema principale di questa santa: un gruppo di oche selvatiche devastò i raccolti di Weedon e Vereburga le fece catturare, ma dopo che nottetempo un servo ne uccise una e la cucinò, la santa la riportò in vita. Lo stormo di animali poi fuggì, senza più tornare a rovinare i raccolti.

Le reliquie di Santa Vereburga vennero nuovamente traslate nella cattedrale di Chester nel 1095, cioè pressapoco quando Goscelino scrisse la sua Vita, ove questa leggenda è raffigurata su una mensola d’appoggio di un sedile del coro: al centro vi è la santa con un bastone pastorale in mano, mentre un servo le porge un’oca; sulla destra un uomo confessa di aver rubato l’animale, mentre a sinistra si scorgono le altre oche rinchiuse. Questa storiella in realtà era già stata utilizzata dallo stesso autore nella Vita di Santa Amalberga.

Santa Vereburga è festeggiata dal Martyrologium Romanum al 3 febbraio, presumibilmente data della morte, mentre il 21 giugno ricorre l’anniversario della traslazione delle reliquie nella cattedrale di Chester, della quale è protettrice. Attrazione per numerosi pellegrini, il suo sacraio fu però distrutto sotto il regno di Edoardi VIII d’Inghilterra, nel contesto della Riforma Protestante e della nascita della Chiesa Anglicana.

Autore: Fabio Arduino

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/39475

 

San Giuliano l’ospitaliere

SAN GIULIANO L’OSPITALIERE

29 gennaio e 31 agosto

Gustave Flubert trasse dalla storia di questo santo un’avvincente romanzo parlando di questo fiammingo patito per la caccia anche violenta, cavaliere infaticabile e carattere vendicativo che non aveva esitato a uccidere il padre e la madre coricati nel suo letto credendoli la moglie e il suo presunto amante.

San Giuliano L’Ospitaliere, patrono dei viaggiatori come degli albergatori è il protettore della città di Macerata. Chiunque visiti questa città lo troverà rappresentato ovunque: sulle porte d’accesso intorno alle mura, nelle opere conservate in pinacoteca, nell’antico sigillo dell’università, nelle medaglie commemorative del comune, nei palazzi signorili, sugli stendardi…

La sua immagine più antica, a cavallo, è del 1326, una scultura in pietra un tempo nella Fonte maggiore e oggi nell’atrio della pinacoteca comunale; la più scenografica nelle chiesa delle Vergini mentre tiene in mano il modellino della città; la più moderna nel ciclo della vota del presbiterio del Duomo dove negli anni 30 è stata affrescata la storia della sua redenzione dopo un tragico, incredibile evento. Gustave Flubert ne aveva già tratto una novella-romanzo, Saint Julien l’Hospitalier, raccontando con tinte fosche la giovinezza di questo fiammingo patito per la caccia anche violenta, cavaliere infaticabile e carattere vendicativoPoi una vita di espiazione e di preghiera dedicata all’accoglienza dei poveri e al traghetto dei pellegrini da una riva all’altra di un periglioso fiume.

La leggenda narra infatti che un mentre cacciava un cervo, questi, invece di scappare si rivolse a lui dicendo: “Come osi inseguirmi tu che ucciderai tuo padre e tua madre?” Ovviamente atterrito lasciò scappare il cervo e per paura che la profezia dell’animale si avverasse scappò dalla città senza avvisare nessuno. Trovò fortuna in un paese lontano dove riuscì addirittura a sposare una nobile che aveva un castello. I suoi genitori intanto non si davano pace per la sua scomparsa e decisero di mettersi in viaggio per cercarlo. Caso volle che un giorno giunsero proprio al castello di Giuliano dove vennero accolti dalla sua sposa, la quale sentendo la storia di questi genitori si rese conto che si trattava proprio degli suoceri. Senza dire nulla al marito e per rispetto, li fece alloggiare nelle sue stanze.

All’alba la giovane si trovava nella cappella a pregare quando il marito rientrò dal suo viaggio. Desideroso di fare una sorpresa alla moglie entrò nella loro camera da letto, quando ancora la luce del giorno non aveva riempito la stanza. Vedendo due persone dormire nel suo letto immaginò che si trattasse di un tradimento e preso dall’ira uccise entrambi i genitori. Si rese conto di quanto aveva fatto, solo quando vide venirgli incontro la moglie che l’informava di aver ospitato i suoi genitori.

Disperato Giuliano comprese che tutti i suoi sforzi non erano bastati a salvarlo da quella terribile profezia e giurò di andarsene pellegrino fino a quando il Signore non gli avesse dato un segno del suo perdono per il male fatto ai genitori. La moglie, che amava profondamente il marito non volle lasciarlo e decise di diventare essa stessa una pellegrina insieme a lui.

Fondarono un ospizio sulle rive del fiume Potenza. Mentre una notte dormiva gli giunse una voce che chiedeva aiuto per attraversare il fiume. Vedendo che l’uomo era intirizzito dal freddo gli propose di entrare in casa e lo mise vicino al fuoco per riscaldarlo, ma ancora l’uomo che sembrava malato di lebbra sembrava stare meglio. Così decise di metterlo nel suo letto e solo allora lo vide trasfigurarsi in un’immagine luminosa che si sollevò dinanzi a lui. Questo angelo del Signore gli annunciò di essere stato mandato da Dio, il quale aveva accettato la sua penitenza e gli comunicava che in pochi giorni lui e la moglie sarebbero morti santamente. E così avvenne.

Dedicata a San Giuliano l’ospitaliere, vi è anche la chiesa gemella di Saint Julien-le Pauvre nel quartiere latino, che raccoglie un certo interesse e avvolta da un alone misterioso, infatti la chiesa parigina, costruita dai benedettini tra il 1170 e il 1240 su una originaria cappella del VI secolo dedicata a Saint Julien-l’Hospitalier, faceva parte della ventina di chiese edificate nei dintorni di Notre -Dame, tutte scomparse tranne quella. Situata nel cuore del centro universitario del XII e XIV secolo, fu luogo d’incontro di studenti e mastri, quando le lezioni si tenevano all’aria aperta, e al suo interno si riuniva l’assemblea per l’elezione del Rector Magnificus.

Pare che Dante vi ascoltò le lezioni di Sigieri e che certamente la frequentarono Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Petrarca e più tardi Villon e Rabelais. Solo quando furono costruiti nelle vicinanze i collegi della Montagne Sainte Geneviève tra i quali si impose quello della Sorbona, la chiesa perdette d’importanza.

Quanto al santo cui è intitolata, la fama popolare ha sempre fatto coincidere il Giuliano storico con l’ospitaliere, tant’è che in veste di traghettatore compare in piedi sulla barca in un bassorilievo medievale incastrato nella facciata numero 42 della rue de Galande, di fianco alla chiesa: nel vicino giardino, che la separa dalla Senna e dalla fiancata destra dell’imponente Notre-Dame, una fontana in bronzo, questa recente, porta scolpiti tutti intorno a cascata i fatti salienti della sua storia. Tutto sembra quindi far pensare che si tratti di San Giuliano l’Ospitaliere eppure l’opuscolo predisposto dalla parrocchia di rito greco-melkita e il prete interpellato propendono per l’identificazione del santo con Giuliano martire di Brioude.

Tutto ciò appare assai strano…Il Giuliano leggendario, al quale la voce popolare ha dato il nome di ospitaliere rendendolo patrono di fatto anche nella chiesa di Parigi, sarebbe perciò usurpatore del titolo e in ogni caso, come ribadisce anche l’attento custode, non sarebbe riconosciuto come santo dall’autorità ecclesiastica. Un bell’impiccio per tutte le chiese francesi, italiane e spagnole che lo hanno scelto come loro protettore.

I dubbi vennero fugati nel momento in cui il 6 gennaio del 1442, quando un nobile maceratese affermò di sapere con certezza il luogo che custodiva la reliquia del braccio del santo in questione. La sua certezza veniva dalla testimonianza di un vecchio del suo paese, ormai defunto. Trattandosi di una persona stimata e conosciuta il vescovo decise di scavare, tra le colonne dell’altare maggiore, luogo indicato dal veggente, dove infatti fu trovato un cofanetto contenente pochi resti di un braccio avvolti da un drappo di seta insieme ad un’antica pergamena che ne avvalorava l’identità.     

L’atto notarile che descrive il ritrovamento è ora depositato nell’archivio priorale mentre le ossa, dopo varie collocazioni, sono conservate in una urna d’argento cesellata dall’orafo Domenico Piani.

Quello che conta è che in nome del patrono, santo reale o possibile, si aggreghino interessi culturali e iniziative utili alla città proprio nel senso e nella direzione dell'”ospitalità”. La pensa così il comitato “Amici di San Giuliano” che si è costituito con spirito attivo e che non si preoccupa tanto dei riconoscimenti ufficiali quanto il promuovere in suo nome in tempi tanto angoscianti il valore dell’accoglienza.

Il 14 gennaio 2001, riprendendo un’antica tradizione, è stata innalzata in cielo una stella luminosa in onore del santo e la sua storia raccontata per le vie, quasi in veste di banditore, dall’attore Giorgio Pietroni mentre risuonavano i canti della Pasquella, continuazione allegra di un evento che sarebbe durato troppo poco se esaurito nel giorno dell’Epifania.

Non è citato nel Martirologio Romano, mentre la Bibliotheca Sanctorum lo pone al 29 gennaio.

E’ patrono della Diocesi e della città di Macerata che lo festeggiano il 31 agosto.

PREGHIERA A SAN GIULIANO L’OSPITALIERE

O glorioso San Giuliano, che hai visto e accolto nei miseri Cristo stesso, proteggi noi tuoi devoti nelle necessità temporali e spirituali, e intercedi per noi, affinché orientando la nostra vita al bene supremo e operando in spirito di carità a vantaggio dei nostri fratelli, possiamo meritare di avere ospite nel nostro cuore il Signore Gesù e di godere un giorno con Te la luce del Paradiso. Amen

Fonti: http://www.santiebeati.it/dettaglio/36750; http://www.figlidellaluce.it/documenti/preghiere/198-preghiere/13846-preghiera-a-s-giuliano-l-ospitaliere

 

Servo di Dio Pasquale Canzii

Servo di Dio Pasquale Canzii

Seminarista (1914 – 1930) 24 gennaio

Detto Pasqualino, sentì prestissimo la chiamata al sacerdozio desiderando diventare passionista entrà dodicenne in seminario. Morì sedicenne per tubercolosi raggiungendo il suo obbiettivo: la santità.

Nacque il 6 novembre 1914 a Bisenti, comune in provincia di Teramo, posto nella vallata del Fino. I suoi genitori, Alfredo Canzii e Semira Forcellese, sarto e casalinga, erano persone semplici, ferventi nella vita cristiana e laboriose e accolsero quel figlio tanto atteso con gioia profonda. Ricevette il battesimo il 16 maggio 1915 nella parrocchia di Santa Maria degli Angeli a Bisenti.

La sua prima catechista fu la mamma, che gli insegnò ad invocare la protezione dell’Angelo Custode, di san Pasquale Baylon del quale portava il nome (e che era pure il patrono del paese) e di san Gabriele dell’Addolorata, che fu canonizzato nel 1920 e dichiarato patrono d’Abruzzo. Insieme pregavano Gesù nel Tabernacolo e recitavano il rosario alla Madonna.

Pasqualino, com’era soprannominato, maturò un carattere mite e riservato. Era diligente nel compiere i suoi doveri quotidiani, ma anche come studente e come chierichetto. Ricevette la Prima Comunione il 31 maggio 1925 a 10 anni e la Cresima il 29 maggio dell’anno successivo.

Verso la fine dell’estate del 1926 arrivarono a Bisenti due padri Passionisti, per predicare una missione popolare e ad uno di loro, padre Ireneo Cataldi, Pasquale confidò il desiderio di farsi sacerdote nella stessa congregazione sua e di san Gabriele. Il missionario gli suggerì di riflettere attentamente e di orientarsi, possibilmente, al sacerdozio diocesano.

La madre, quindi, informò il marito della scelta del loro primogenito: dopo la nascita nel 1919 dell’altro figlio, Pietro, Alfredo era infatti emigrato in America per trovare un sostegno economico alla famiglia. Non essendoci ostacoli da parte sua, concesse a Pasqualino di partire: gli avrebbe poi inviato lui il denaro necessario per mantenerlo agli studi. Così il 14 ottobre 1926, a dodici anni, il ragazzo entrò nel Seminario diocesano di Penne (Pescara), vestendo l’abito talare.

Pasquale era di aspetto delicato e gentile. Il suo contegno era sempre rispettoso sia verso i professori sia verso i compagni: per questo, tutti cercavano la sua compagnia. Spesso era indicato come esempio agli altri seminaristi, per il suo impegno nello studio e per l’innato spirito di carità e devozione.

Tutti potevano vedere, nel suo sguardo dolce, lo specchio del suo animo limpido: s’illuminava tutto quando si parlava di Gesù, della Vergine Maria e delle cose divine. Nelle lettere scritte ai familiari e nei suoi appunti espresse con insistenza il suo desiderio e il suo impegno di farsi santo, adempiendo con fedeltà ai suoi doveri per amore di Dio.

Improvvisamente, nel gennaio 1930, si rivelarono in Pasquale i sintomi della malattia del ventesimo secolo: la tubercolosi, che mieteva in Italia e nel mondo innumerevoli vittime, senza distinzione di età. Nella fase acuta galoppante durò poco, forse perché diagnosticata troppo tardi, ma il giovane seminarista si rese conto della situazione e accettò con serenità la volontà di Dio. Nel suo letto, con le poche forze che gli rimanevano, riusciva appena a recitare brevi invocazioni, dalle quali traspariva la sua fervente fede e il desiderio dell’amore di Dio.

Negli ultimi giorni, alla mamma e alla nonna che l’assistevano amorevolmente, disse: «Si avvicina l’ora beata: sono felice! Iddio mi chiama. Tu mamma mia, non piangere: è necessario che io parta da questo mondo; insieme, facciamo al Signore un’umile offerta della mia vita e del tuo fervido amore materno. Un giorno, lassù, io pregherò per te, per la nonna, per il babbo, per il fratellino, per tutti».

Morì il 24 gennaio 1930 a 15 anni e 2 mesi nel Seminario di Penne, fra il dolore dei familiari e la costernazione di compagni ed insegnanti. La sua salma fu esposta in Cattedrale. I funerali furono officiati dal vescovo monsignor Carlo Pensa, con la partecipazione di tutta Penne; altrettanta partecipazione ci fu alla sua sepoltura nel cimitero di Bisenti.

Il suo ricordo è perdurato nel tempo, aumentando la devozione dei fedeli di Penne e di Bisenti e valicando i confini dell’Abruzzo tanto che, nel 1993, si è costituito il Comitato Pasqualino Canzii, perché non si smarrisca. Il 26 gennaio 1999 la diocesi di Pescara-Penne ha ricevuto il nulla osta della Congregazione delle Cause dei Santi per l’inizio della sua causa di beatificazione.

Il 4 luglio i resti di Pasquale sono stati riesumati alla presenza di oltre cinquemila persone, incluso suo fratello Pietro, anche lui emigrato negli Stati Uniti, precisamente a Baltimora. Hanno ricevuto nuova tumulazione nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Bisenti, nel primo altare laterale rispetto all’altare maggiore.

La fase diocesana del processo di beatificazione si è conclusa il 1° aprile 2001 nella cattedrale di San Cetteo a Pescara ed è stata convalidata il 1° febbraio 2002. La “positio super virtutibus” è stata trasmessa a Roma nel 2004.

Autore: Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/92704

Servo di Dio Aldo Marcozzi

SERVO DI DIO ALDO MARCOZZI

Adolescente (1914 – 1928) 24 novembre 

Oggi sembra impossibile trovarsi davanti un ragazzo adolescente che ama tanto Gesù Eucaristico, la Santa Messa e il rosario, eppure questo ragazzo che sembrava ne più ne meno come tutti gli altri ha dato un grande esempio di fede e di amore.

Aldo Marcozzi di 14 anni, nacque a Milano il 25 luglio 1914 da una buona e distinta famiglia. Ricevette un’ottima educazione cristiana, prima dai genitori, poi dalle insegnanti della scuola e a nove anni prese a frequentare l’Istituto Gonzaga di Milano, retto dai Fratelli delle Scuole Cristiane.

Della sua breve esistenza non vi sono episodi straordinari, ma tutto nella vita quotidiana fu eccezionale in lui, come l’intelligenza, il candore della sua anima, lo studio, la devozione ardente a Gesù e alla Madonna, la fedeltà ai doveri quotidiani, la bontà verso il prossimo, la preghiera.

Appassionato per lo sport, alto, slanciato, elegante e gentile nei modi, premuroso, espansivo, sempre sorridente, Aldo fu una bella figura di ragazzo cristiano e nei suoi occhi puri e gioiosi, si poteva leggere tutta la serenità della sua anima.

Leggeva ogni giorno il Vangelo, eletto a codice della sua vita; totalmente fedele a Gesù rinunciava volentieri a tutto per Lui, come la domenica se invitato ad una gita, non esisteva la possibilità di partecipare alla Messa, respingeva l’invito.

La sua giovanissima esistenza era da lui intesa come appartenente alla “milizia” per Cristo-Re; nel suo diario annotò durante un corso di Esercizi Spirituali, tutta la sua gioia di essere cristiano-cattolico e l’impegno di professare la sua fede, vivendola intimamente e interamente.

Aldo si può dire con certezza, era un innamorato di Gesù Eucaristico, dall’età di dieci anni partecipava alla Messa ogni mattina facendo il chierichetto e ricevendo la Comunione, si confessava ogni settimana, convinto che anche il più lieve peccato offendeva l’amore di Gesù Eucaristia; la mamma disse: “L’Eucaristia fu il più grande desiderio di Aldo in vita e il suo supremo desiderio in morte”.

Una giornata senza l’Eucaristia era per Aldo Marcozzi una giornata senza sole e piena soltanto di tristezza; riceveva la S. Comunione e si raccoglieva per il ringraziamento, con un fervore che suscitava l’ammirazione dei presenti e lo stimolo a pregare per i compagni della sua età.

Dopo la S. Messa, il Rosario era la sua preghiera prediletta e fra tutti i misteri, quello riguardante il Paradiso era il più gradito; e il quinto Mistero Glorioso: Maria regina del cielo e della terra e la gloria di tutti gli angeli e i santi volle, come ultimo desiderio sul letto di morte, che la mamma piangente recitasse per lui.

Colpito da grave malattia, ebbe una lunga agonia, durante la quale non faceva altro che sospirare il nome di Gesù; la sua, più che una morte fu un trionfo di santità, così come profetizzò papa s. Pio XVi saranno molti santi tra i fanciulli”; Aldo Marcozzi, l’”adolescente radioso ed eucaristico”, morì sorridendo ai suoi genitori e parenti stretti intorno al suo letto, sabato 24 novembre 1928 nella sua casa di Milano.

FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/92227

SANT’ALBERTO MAGNO

SANT’ALBERTO MAGNO

Vescovo e dottore della Chiesa (1206ca-1280 ) 15 novembre

Entrato nell’Ordine dei Predicatori, maestro di filosofia e teologia fu l’insegnante di san Tommaso d’Aquino. Riuscì ad unire in mirabile sintesi la sapienza dei santi con il sapere umano e la scienza della natura.

Alberto, della nobile famiglia Bollstadt, nacque in Germania verso il 1200. Molto giovane venne in Italia per studiare le arti a Padova e forse anche a Bologna e Venezia. Durante il soggiorno nella penisola conobbe i domenicani, dai quali fu inviato a Colonia per la formazione religiosa e per lo studio della teologia, indossando ancora giovanissimo l’Abito dei Predicatori dalle mani del Beato Giordano di Sassonia, immediato successore del Santo Patriarca Domenico.

Al giovane studente sembrò ostacolo insormontabile le difficoltà che incontrava nello studio della Teologia, e fu tentato di fuggire dalla casa del Signore. La Madonna, però, di cui era devotissimo, lo animò a perseverare, rasserenandolo nei suoi timori, dicendogli: “Attendi allo studio della sapienza e affinché non ti avvenga di vacillare nella fede, sul declinare della vita ogni arte di sillogizzare (ragionare cavillosamente n.d.r.) ti sarà tolta”.

Sotto la tutela della Celeste Madre, Alberto divenne sapiente in ogni ramo della cultura, sì da essere acclamato Dottore universale e meritare il titolo di Grande, ancor quando era in vita. Approdò infine a Parigi dove tenne la cattedra di teologia per tre anni, durante i quali ebbe un allievo d’eccezione: Tommaso d’Aquino.

Rimandato dai superiori a Colonia per fondarvi lo studio teologico, portò con sé Tommaso con il quale avviò un progetto molto ambizioso: il commento dell’opera di Dionigi l’Areopagita e degli scritti filosofico­naturali di Aristotele.

Alberto vedeva il punto d’incontro di questi due autori nella dottrina dell’anima. Posta da Dio nell’oscurità dell’essere umano (Dionigi), secondo Aristotele l’anima si esprime nella conoscenza e negli aspetti pratici dell’esistenza umana. In questo agire complesso e meraviglioso, essa svela la sua origine divina.

Alberto dava così avvio all’orientamento mistico nel suo ordine che sarà sviluppato da maestro Eckhart, mentre la ricerca filosofico-teologica verrà proseguita da san Tommaso. Grande studioso delle scienze naturali, Alberto non rifuggì dagli incarichi pastorali. Fu provinciale dell’ordine domenicano per il nord della Germania, per breve tempo vescovo di Ratisbona, partecipò al concilio di Lione dove portò il contributo della sua sapienza per l’unione della Chiesa Greca con quella Latina.

Avanzato negli anni saliva ancora vigoroso la cattedra, ma un giorno, come Maria aveva predetto, la sua memoria si spense. Anelò allora solo al cielo, al quale volò dopo quattro anni, il 15 novembre 1280, consumato dalla divina carità. La sua salma riposa nella chiesa parrocchiale di Sant’Andrea a Colonia. Papa Gregorio XV nel 1622 lo ha beatificato. Papa Pio XI nel 1931 lo ha proclamato Santo e Dottore della Chiesa. Il 16 dicembre 1941 Papa Pio XII lo ha dichiarato Patrono dei cultori delle scienze naturali.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/29950

 

 

Ven.  Abate Ildebrando Gregori

Ven.  Abate Ildebrando Gregori

Fondatore (1894-1985) 12 novembre

Come i primi discepoli di San Benedetto uscì dal monastero per portare sollievo nel mondo della sofferenza. Nel 1950 dava inizio ad un sodalizio religioso femminile che in pochi anni divenne la Congregazione delleSuore Riparatrici del Santo Volto”.

Nato a Poggio Cinolfo, Comune di Cursoli, in provincia de L’Aquila 1’8 maggio 1894, Alfredo Antonio Gregori conobbe giovanissimo la vita religiosa frequentando l’Eremo di san Francesco, nei boschi vicini al paese natale, dove viveva una comunità di Frati Cappuccini. A 12 anni, indirizzatovi dal Card. Segna, nativo di Poggio Cinolfo, entrò nella Congregazione dei Benedettini Silvestrini.

Alfredo Antonio Gregori iniziò il noviziato al Protocenobio di San Silvestro Abate sul Monte Fano, presso Fabriano il 10 marzo 1909. Vestendo l’abito di monaco prese il nome di Ildebrando. L’anno dopo emise la professione semplice, tre anni più tardi pronunciò i voti perpetui.

Era studente di Filosofia, ma all’inizio del corso teologico, dovette arruolarsi. Si era nel periodo della prima guerra mondiale. Fu assegnato alla Sanità e promosso caporale della 20° sezione; fu anche attendente del Cappellano don Pietro Ciriaci, divenuto poi arcivescovo, Nunzio Apostolico e Cardinale.

Terminata la guerra e rientrato in monastero, frequentò teologia presso la Pontificia Università Gregoriana, dove si laureò brillantemente in filosofia e teologia. All’età di 28 anni fu ordinato sacerdote a Roma il 29 ottobre 1922 nella Basilica dei Santi Apostoli.
Dopo l’ordinazione sacerdotale il monaco Ildebrando Gregori venne incaricato, all’interno della sua Congregazione, della pastorale vocazionale ed ebbe anche la responsabilità della formazione dei giovani candidati probandi e professi. Educatore severissimo con sé stesso, ma umanissimo con gli altri, ha formato una generazione di monaci Silvestrini che ricordano con affetto la sua guida.

Nel 1939, all’età di 45 anni, viene eletto Abate generale della Congregazione Benedettina Silvestrina. Ricoprirà l’incarico per vent’anni. Si riconosce che durante il suo generalato, il p. Gregori “salvò la propria Congregazione in Italia durante la seconda guerra mondiale, gettando le premesse per una maggior diffusione all’estero del suo istituto religioso.”

Nel medesimo periodo in cui fu Abate generale, era apprezzato predicatore, ma soprattutto direttore spirituale di anime, di alcune delle quali è in corso la Causa di Beatificazione tra queste, Madre Maria Pierina de Micheli, della Congregazione delle Figlie dell’Immacolata Concezione di Buenos Aires, Madre Geltrude Billi, Cofondatrice delle Ancelle del S. Cuore di Città di Castello e Madre Laura Curlotta, terza Superiora generale delle Suore di Ravasco. Caratteristica inconfondibile della direzione spirituale condotta dal p. Gregori, fu la devozione e la spiritualità del S. Volto di Cristo: devozione e spiritualità attinte dal Madre Maria Pierina de Micheli.

Nell’immediato dopoguerra (1945-1946) per circostanze che si confermarono provvidenziali, raccolse alcuni fanciulli poveri e abbandonati, assistendoli integralmente. Questo apostolato si estese ben presto e, dal prima nucleo creato a Bassano Romano, nacque la sua imponente Opera assistenziale, per condurre la quale il p Gregori fondò una Congregazione religiosa femminile le “Suore Benedettine Riparatrici del Santo Volto di Nostro Signore Gesù Cristo“. Sorto come Pio Sodalizio nel 1973 e, cinque anni più tardi, il 7 febbraio 1978, fu riconosciuto Congregazione di diritto pontificio. Nel frattempo, l’Opera assistenziale del p. Gregori di estendeva anche agli infermi lungodegenti.

“IL PADRE” l’Uomo attivissimo e monaco di intensissima vita contemplativa, ha seguito personalmente con estrema dedizione la sua Opera fino a pochi anni dalla sua morte, preceduta da lunga e sofferta infermità. Attuando un suo vivo desiderio, aveva creato a Roma, in Via della Conciliazione 15, la Casa e comunità religiosa “Deo gratias”, dove ha vissuto gli ultimi due decenni e di dove è salito alla pace eterna il 12 novembre 1985, all’età di 91 anni. Due settimane prima aveva predetta il giorno del suo trapasso.
Il suo corpo riposa in Bassano Romano, nel coro della Cappella della Casa Madre e Generalizia della Congregazione da lui fondata la sua tomba e la Casa romana “Deo gratias” sono divenute meta di continuo, devoto pellegrinaggio.

Per maggiori inform.: Don Simone Tonini, OSBSilv – Postulatore della Causa della Beatificazione: stonini@unigre.urbe.it

Fontiwww.sanvincenzo.silvestrini.orghttp://www.santiebeati.it/dettaglio/95938

SAN LUIGI GUANELLA

SAN LUIGI GUANELLA

Sacerdote (1842-1915) 24 ottobre

Amico di don Bosco, che incontrò a Torino e con il quale trascorse tre anni, fondò i Servi della Carità e le Figlie di Santa Maria della Provvidenza. Guanella intervenne con don Orione nel terremoto della Marsica: gennaio 1915.

Luigi Guanella nacque a Fraciscio di Campodolcino in Val San Giacomo (Sondrio) il 19 dicembre 1842. Morì a Como il 24 ottobre 1915.

La sua valle e il paese (m. 1350 sul mare) sono nelle Alpi Retiche. Fin dall’antichità vi si stabilirono delle comunità vissute, con fatica e stento, di agricoltura alpina e di allevamento[…] fervidamente attaccati alla religione cattolica in contrasto col confinante canton Grigioni riformato, vivevano in povertà, dediti ai più duri lavori per garantirsi il minimo di sopravvivenza. Le qualità che ne riportò il G. furono l’abitudine al sacrificio e al lavoro, l’autonomia, la pazienza e la fermezza nelle decisioni, insieme a grande fede.

Queste qualità si rafforzarono nella famiglia: il padre Lorenzo, per 24 anni sindaco di Campodolcino sotto il governo austriaco e dopo l’unificazione (1859), severo e autoritario, la madre Maria Bianchi, dolce e paziente, e 13 figli quasi tutti arrivati all’età adulta.

A dodici anni ottenne un posto gratuito nel collegio Gallio di Como e proseguì poi gli studi nei seminari diocesani (1854-1866).

[…] Quando tornava al paese per le vacanze autunnali si immergeva nella povertà delle valli alpine; si interessava dei bambini e degli anziani e ammalati del paese, passando i mesi nella cura di questi, e nei ritagli si appassionava alla questione sociale (Taparelli), raccoglieva e studiava erbe medicinali (Mattioli), si infervorava leggendo la storia della Chiesa (Rohrbacher). In seminario teologico entrò in familiarità col vescovo di Foggia, Bernardino Frascolla, rinchiuso nel carcere di Como, poi a domicilio coatto in seminario (1864-66), e si rese conto della ostilità che dominava le relazioni dello stato unitario verso la Chiesa. Questo vescovo ordinò G. sacerdote il 26 maggio 1866.

Entrò con entusiasmo nella vita pastorale in Valchiavenna (Prosto, 1866 e Savogno, 1867-1875) e, dopo un triennio salesiano, fu di nuovo in parrocchia in Valtellina (Traona, 1878-1881), per pochi mesi a Olmo e infine a Pianello Lario (Como, 1881-1890).

Fin dagli inizi a Savogno rivelò i suoi interessi pastorali: l’istruzione dei ragazzi e degli adulti, l’elevazione religiosa, morale e sociale dei suoi parrocchiani, con la difesa del popolo dagli assalti del liberalismo e con l’attenzione privilegiata ai più poveri. Non disdegnava interventi battaglieri, quando si vedeva ingiustamente frenato o contraddetto dalle autorità civili nel suo ministero, così che venne presto segnato fra i soggetti pericolosi (“legge dei sospetti”), specialmente dal momento che pubblicò un libretto polemico. Nel frattempo a Savogno approfondiva la conoscenza di don Bosco e dell’opera del Cottolengo; invitò don Bosco ad aprire un collegio in valle; ma, non potendo realizzare il progetto, il G. ottenne di andare per un certo periodo da don Bosco.

Richiamato in diocesi dal Vescovo, aprì in Traona un collegio di tipo salesiano; ma anche qui venne ostacolato; si andò a rimestare le controversie di Savogno e gli fu imposto di chiudere il collegio. Si mise a disposizione del vescovo con obbedienza eroica. Mandato a Pianello poté dedicarsi all’attività di assistenza ai poveri, rilevando l’Ospizio fondato dal predecessore don Carlo Coppini, con alcune orsoline che organizzò in congregazione religiosa (Figlie di S. Maria della Provvidenza) e con queste avviò la Casa della Divina Provvidenza in Como (1886), con la collaborazione di suor Marcellina Bosatta e della sorella Beata Chiara.

La Casa ebbe subito un rapido sviluppo, allargando l’assistenza dal ramo femminile a quello maschile (congregazione dei Servi della Carità), benedetta e sostenuta dal Vescovo B. Andrea Ferrari. L’opera si estese ben presto anche fuori città: nelle province di Milano (1891), Pavia, Sondrio, Rovigo, Roma (1903), a Cosenza e altrove, in Svizzera e negli Stati Uniti d’America (1912), sotto la protezione e l’amicizia di S. Pio X. Nell’opera maschile ebbe come collaboratori esimi don Aurelio Bacciarini, poi vescovo di Lugano, e don Leonardo Mazzucchi.

Le opere e gli scopi che cadono sotto l’attenzione del G. (e gli impedirono di fermarsi con don Bosco) sono quelli tipici della sua terra di origine. Molti i bisognosi: bambini e giovani, anziani lasciati soli, emarginati, handicappati psichici (ma anche ciechi, sordomuti, storpi): tutta la fascia intermedia tra i giovani di don Bosco e gli inabili del Cottolengo, persone ancora capaci di una ripresa: terreno duro e arido come la sua terra natale, ma che, lavorato con amore (nelle scuole, laboratori, colonie agricole) può dare frutti insperati.[…]

Il Guanella è stato proclamato beato da Paolo VI il 25 ottobre 1964 (Processi diocesani: 1923-1930, introduzione della causa: 15 marzo 1939) ed è stato canonizzato a Roma da Papa Benedetto XVI il 23 ottobre 2011. Il suo corpo è venerato nel Santuario del S. Cuore in Como.

 

Note: Per approfondire: Michela Carrozzino e Cristina Siccardi – Accordò la terra con il Cielo. Luigi Guanella Santo – Ed. San Paolo, 2011

Fonti: http://www.santiebeati.it/dettaglio/75000; www.guanelliani.org

 

 

Santa Taide

SANTA TAIDE

Anche detta Taisia la penitente (III sec) 8 ottobre

Compare nella letteratura pagana con il nome di Taide una meretrice, in una commedia scritta da Terenzio e anche Dante la nomina, non certo per elogiarla, nel suo Inferno, tra gli adulatori, immersa nello sterco di Malebolge.

Quasi per bilanciare la figura della peccatrice pagana è sorta, nel vivace verziere dell’agiografia medievale, la leggenda della Santa Taide cristiana, peccatrice anch’ella, ma penitente e redenta.
Sembra quasi che la pietà cristiana abbia dato un seguito alla storia dell’antica Taide, completandola e coronandola in senso spirituale e in maniera edificante. Il risultato appare così come una suggestiva ” moralità “, come si chiamavano le rappresentazioni allegoriche e didascaliche del Medioevo, che ha per oggetto la rinunzia al peccato e soprattutto l’esaltazione della penitenza.

La leggenda di Santa Taide segue lo stesso schema di quelle, ancora più celebri ‘ di Santa Maria Egiziaca e di Santa Pelagia, e di altre donne passate dal vizio più sfrenato alla penitenza più dura. I particolari del racconto sono però sempre diversi e sempre pittoreschi, con sfumature impreviste e significative. Vere e proprie ” leggende “, cioè composizioni ” da leggere “, con piacere sempre nuovo e curiosità mai delusa, anche quando sia noto il tema e palese l’intenzione edificante.

Della leggenda di Taide esistono testi, abbastanza antichi, greci, siriaci e latini. Roswita, Abbadessa di Gandersheim, e Marbordio, Vescovo di Rennes, la ridussero a dramma, per le scene medievali. E più che dagli storici, è stata prediletta dagli scrittori, sian essi devoti agiografi come il Beato Jacopo da Varagine, o moderni letterati estetizzanti, come Anatole France.

Un Santo anacoreta, che vien detto Bessarione, oppure Serapione, oppure Giovanni il Nano, ma, più spesso, ha il nome di San Paffluzio, saputo dello scandalo di Taide, giunse alla casa della cortigiana e chiese d’esser ricevuto nella più segreta delle sue segrete stanze. Riconosciutolo per un monaco, la donna lo schernì:Se è di Dio che hai paura, in nessun luogo potrai nasconderti ai suoi occhi! “.

Allora Pafnuzio abbandonò la finzione e parlò con santa fermezza: ” Tu sai dunque che esiste un Dio? Perché allora sei la causa della perdita di tante anime? “. Taide cadde in ginocchio, chiedendo tre ore di tempo per liberarsi dalla donna che era stata fino ad allora. In quelle tre ore, fece un gran fuoco, sulla piazza, dei preziosi doni dei suoi visitatori, delle vesti procaci e dei monili vistosi.

Tre anni di penitenza, di preghiera e di contrizione in un monastero, resero l’anima di Taide peccatrice più candida di una colomba. Infatti, nel deserto, San Paolo, discepolo di Sant’Antonio Abate, vide nel cielo un magnifico letto custodito da tre vergini biancovestite: la Paura dell’inferno, la Vergogna per il peccato e la Passione di giustizia. Paolo credette che si trattasse del premio sperato per il vecchissimo Patriarca Sant’Antonio, ma una voce dal cielo lo dissuase. Si trattava dei premio di Taide, ormai perdonata.

Pafnuzio, informato di ciò, corse al monastero e disse alla donna di uscire pure dalla cella oscura e maleodorante dove la sua penitenza era fiorita con tanto rigoglio da cancellare il ricordo del male passato. Taide però non si mosse. Seguitò a pregare per i suoi peccati, anche se ormai scontati. Quindici giorni dopo era morta. La meretrice egiziana veniva accolta così nel letto dell’eterna gloria, custodito dalle tre Vergini biancovestite.

Fontehttp://www.santiebeati.it/dettaglio/90463