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DOMENICO ZAMBERLETTI

DOMENICO ZAMBERLETTI

Adolescente (1936-1950) 29 maggio

Un ragazzino di 14 anni che non ha potuto coronare il suo sogno di essere sacerdote sulla terra, promise: “quando avrete bisogno di qualche grazia chiedetela a me, ma chiamatemi, chiamatemi…”. E davvero il flusso di grazie non è mai cessato. Alla mamma raccomandò: “Mamma, quando non ci sarò più, va a trovare i bambini che soffrono negli ospedali, va a nome mio. Hanno tanto bisogno di conforto”.

Nasce nel 1936, nella famiglia dei gestori dell’albergo, localizzato a pochi passi dal celebre santuario che domina il Sacro Monte di Varese. Ultimo di tre fratelli di una famiglia agiata e ricca di sentimenti umani e cristiani che seppe trasmettere ai figli, specie al più piccolo Domenico, il quale già in tenera età era pieno di bontà per i poveri, al punto di disporre che in cucina si preparasse un piatto in più per il “Cristo affamato”, infatti tutti i giorni si presentava qualche povero all’albergo, bisognoso di cibo.

Pur cresciuto tra pentole e fornelli, gattonando tra i tavoli e familiarizzando con i clienti, è chiaro fin da subito che quello dell’albergatore non sarà comunque il suo destino. All’attività di famiglia preferisce di gran lunga il vicino santuario, di cui già a sei anni diventa il chierichetto più affezionato e solerte e, a nove anni appena, addirittura organista-titolare.

Quello della musica è un dono naturale, di cui i genitori si accorgono sentendolo suonare “ad orecchio” al pianoforte dell’albergo, e che hanno l’accortezza di coltivare senza trasformare lui in un bambino-prodigio. Oltre ad accompagnare all’organo le messe solenni, destreggiandosi in deliziose “improvvisazioni” durante la consacrazione, Domenichino a neppur dodici anni si rivela anche compositore di una messa a una voce e di numerose pastorali natalizie. Una volta una signora, commossa dalla melodia inedita, ne chiese lo spartito e Domenico rispose: “Mah… non ce l’ho! La musica mi è sgorgata dal cuore, ma io non ricordo nemmeno una nota”; continuò a suonare liberamente melodie stupende, anche per i propri compagni e parenti.

La scintilla scocca sui dieci anni: vincitore del Premio-Roma messo in palio nella gara catechistica, vedendo in piazza San Pietro tanti sacerdoti intenti alle confessioni dei ragazzi, si sente nascere dentro la voglia di essere prete, magari tra i Camilliani, certamente in veste di missionario.

Intanto va a scuola dai Salesiani a Varese e lì si innamora di don Bosco e soprattutto di Domenico Savio, al quale si sente legato non solo dal nome, ma anche dal desiderio di raggiungere in fretta la santità. La sua spiritualità fa progressi: la preghiera diventa intensa e fervorosa, sempre più intenso il desiderio di far sempre la volontà di Dio, ancora più insistente la spinta ad accompagnare il cammino dei suoi amici verso Gesù, cioè, come si diceva allora, a far apostolato.

Ha la stoffa del leader e riesce a far presa sui coetanei e particolarmente sui chierichetti, dei quali diventa cerimoniere attento e scrupoloso, aiutandoli ad entrare nel vero spirito della liturgia in cui lui, evidentemente, si trova già da tempo più che a suo agio. Il “cocco della Madonna”, come lo chiamano in casa, ha una devozione tenerissima per la mamma di Gesù, alla quale indirizza volentieri i suoi piccoli amici: è forse anche per questo che il suo santuario, che è la “casa della Madonna”, gli è così familiare e vi si trova così bene.

A gennaio 1949 si manifestano i sintomi di una strana malattia, caratterizzata da febbre alta, vomito e dolori articolari, che i medici per un anno non riescono a diagnosticare: soltanto nel successivo mese di dicembre, infatti, alla Columbus di Milano riescono ad individuare una rara forma leucemica, all’epoca inguaribile, malgrado ogni tentativo di cura, anche dolorosa, cui viene sottoposto e nonostante il suo prepotente desiderio di star bene “per diventare sacerdote”.

Le crisi della malattia sembrano inspiegabilmente acuirsi ogni venerdì, ed in modo particolare il 7 aprile 1950, venerdì santo, tanto che qualcuno è portato a vedere in ciò una relazione con la passione di Gesù, alla quale comunque Domenichino è costantemente unito, tutto offrendo per la salvezza degli altri, anche l’inappagato desiderio di essere prete.

So che non guarirò, il Paradiso è assicurato”, “Non voglio essere incosciente quando muoio… è Domenico Savio che mi viene incontro”, “Mamma, quando non ci sarò più, va a trovare i bambini che soffrono negli ospedali, va a nome mio. Hanno tanto bisogno di conforto”, “Mi sarebbe piaciuto tanto aver potuto tenere Gesù nelle mie mani, ma si vede che devo essere sacerdote in Paradiso”, “Mamma ho chiesto alla Mamma Celeste di venirti a consolare”.

VARESE SACRO MONTE DOMENICHINO ZAMBERLETTI

Chiude per sempre i suoi occhi il 29 maggio 1950, anno in cui il suo grande amico e confidente Domenico Savio, veniva proclamato beato, annunciando con gioia: “Mamma mi viene incontro la Madonna!”.

Il processo di beatificazione di questo fanciullo è stato bloccato dai familiari a causa dell’eccessiva intraprendenza di un sacerdote, che dal Sud un po’ troppo sovente saliva al Sacro Monte a fare incetta delle cose appartenute al loro bambino. Speriamo però che presto possa essere riaperta, visto che le grazie a seguito della sua intercessione non si sono mai fermate.

FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/92263

 

Herman Wijns

Herman Wijns

Fanciullo ( 1931 – 1941) 26 maggio

Nato in Belgio, sin da bambino manifestò il desiderio di farsi sacerdote. Il 24 maggio 1941, come ogni giorno, servì la Messa al suo parroco ed al termine questi gli domandò: “Davvero vuoi farti sacerdote?”. Il ragazzino gli risponde deciso: “Sì, solo sacerdote”. Nel pomeriggio dello stesso giorno si ferì ad una gamba. Spirò mormorando: “Vado da Gesù, starò con Lui per sempre”.

Herman Wijns è nato il 15 marzo 1931 in Belgio, nel paese di Merksem, presso Anversa in una famiglia benestante. Suo padre era un commerciante di successo, che viveva la sua professione con entusiasmo e gioia, convinto che si può diventare santi anche lavorando: l’importante è lavorare bene, fare bene il proprio dovere, essere onesti e leali.

Il papà di Herman sapeva che molti suoi colleghi e amici lavoravano “semplicemente”, ma scontenti, nervosi, facendo il minimo o addirittura imbrogliando gli altri. Invece lui credeva che si può lavorare “con amore”, mettendo il meglio di noi stessi, sapendo che chi lavora “con amore” realizza la missione che Dio ha affidato ad Adamo ed Eva – e dunque ad ogni uomo , quella di trasformare il mondo e di renderlo un poco di più il Paradiso di Dio. Chi lavora diventa “immagine e somiglianza di Dio”, perché come lui crea e plasma la realtà. Il papà di Herman voleva diventare “santo” nel posto in cui lo aveva posto Dio, per questo cercava di essere un “santo commerciante”.

Per essere stato sul lavoro, il papà di Herman metteva in pratica la “ricetta” della santità: ogni giorno faceva la comunione, ogni giorno recitava il rosario, ogni mattina ed ogni sera recitava le preghiere insieme a sua moglie ed ai suoi figli.

Accade così a Herman. Un giorno, rientrando a casa dai suoi giochi, vide suo padre con la corona del rosario in mano; gli chiese cosa stesse facendo. Suo padre gli rispose: “parlo con la Madonna, la mamma di Gesù e le affido tutti voi, la mamma, tutti coloro che soffrono”. Herman – allora aveva cinque anni si sedette accanto al papà e gli disse: “voglio pregare anch’io con te. Voglio pregare anche io per mamma e per i miei fratelli. Voglio pregare anche io la Madonna per tutti”. Da allora ogni giorno recitò il rosario, anche da solo: per i suoi cari e per tutti quelli che avevano bisogno di aiuto.

La stessa cosa accade per la comunione. Una mattina Herman chiese a suo padre perché uscisse di casa così presto: i genitori dei suoi amici andavano al lavoro più tardi. Papà gli rispose che, prima di andare al lavoro,voleva partecipare alla messa e fare la comunione, per avere Gesù nel cuore e con lui nel cuore lavorare. Herman disse subito: “papà, posso venire anch’io?”. Da quel giorno, ogni mattina Herman faceva una domanda sulla messa e papà spiegava una cosa nuova. Herman giorno per giorno si affascinava: “allora è una cosa grandissima!”, diceva. E domandava: “papà, quando potrò ricevere anche io Gesù nel mio cuore?”.

Aveva appena sei anni, ma il suo desiderio divenne così insistente che il Papà ed il parroco decisero di accontentarlo: era il 14 luglio 1937. Da allora partecipò ogni giorno alla messa e fece la comunione. Cominciava a prepararsi la sera prima: le sue preghiere, dette in ginocchio ai piedi del letto, già dicevano a Gesù quello che gli avrebbe chiesto nella comunione.

Nel pomeriggio tornava velocemente in chiesa, per ringraziare Gesù di averlo ricevuto nel cuore la mattina e promettergli che avrebbe vissuto “con lui nel cuore”. In effetti Herman si impegnava per dare il meglio di sé in tutto: a scuola studiava con passione ed era sempre tra i primi e, se gli chiedevano perché studiasse sempre tutto e bene, rispondeva che un cristiano deve sempre realizzare bene quello che fa. Non era un “secchione”: studiava, ma era anche capace di stare con i suoi compagni, anzi era un ragazzo che aveva molti amici, perché era allegro e sapeva aiutare i compagni meno bravi senza umiliarli.

Un giorno suo padre gli fece la domanda che prima o poi tutti i papà fanno: “che cosa farai da grande ?”. Herman – allora aveva sette anni-rispose con voce sicura: “Prima imparerò a servire la messa, poi diventerò prete”. Papà aggiunse: “allora devi prepararti diventando ogni giorno migliore e offrendo a Dio i tuoi sacrifici”.

Come sempre, Herman prese sul serio le parole di suo padre e cominciò ad offrire al Signore i suoi piccoli sacrifici di ogni giorno “per essere unito al sacrificio della messa e convertire i peccatori”.

Qualche volta esagerava, come quando ricevette in regalo dalla zia un paio di scarpe nuove, belle… ma strette, che decise di mettere per non ferire i sentimenti della zia e quando la mamma vide le vesciche sorrise, dicendole che aveva messo nel “calice” di Gesù quei “dolorini”. Era ancora un bambino e doveva imparare a distinguere tra i sacrifici inutili e quelli importanti. Un’altra volta in estate decise di soffrire la sete per unirla a quella patita da Gesù sulla croce e smise solo quando il parroco gli chiese di smettere.

Qualche altra volta non era esagerato, ma semplicemente coraggioso, innamorato di Gesù. Inverno tra il 1940 e il 1941: la temperatura era terribilmente bassa e gli erano venuti anche dei grossi geloni ai piedi. La mamma lo scongiurò di stare a casa, ma Herman rispose sereno e fermo: “mamma, non posso non uscire: Gesù mi attende a Messa”. Herman rispose così, perché si era dato una “regola di vita”, cui cercava di essere fedele sempre, anche se aveva appena nove anni.

Si alzava ogni mattina alle cinque per andare a servire la messa (allora si celebrava verso le 5.30/6.00), ma Herman faceva in modo di arrivare in chiesa almeno 20 min prima, per poter recitare un rosario: gli sembrava un bel modo di prepararsi alla messa, affidandosi alla mamma di Gesù, che avrebbe incontrato sull’altare. Alla messa non rinunciava mai, piuttosto rinunciava ad altre cose pur belle: in estate preferiva rinunciare ad una gita, che alla messa; preferiva “stare accanto a Gesù che viene sull’altare” che divertirsi, lasciando solo il suo Don, mentre diceva le parole di Gesù.

Dopo pranzo, prima di cominciare i compiti, Herman pregava ancora la Madonna e al tramonto recitava ancora il rosario, possibilmente con la mamma, il papà e i fratelli.

Purtroppo avvenne che il padre di Herman, per aiutare un amico in difficoltà, si ritrovò senza lavoro. Talvolta mancava anche il cibo sufficiente per tutti. Ma papà non si scoraggiò: continuò ad avere fiducia in Dio, a pregarlo con fedeltà. Qualche volta – è ovvio – c’erano momenti di scoraggiamento. Allora Herman dava coraggio a suo padre: “preghiamo, papà, e tutto si aggiusterà” e accompagnava suo padre in Chiesa, per la quotidiana visita a Gesù nel Santissimo sacramento: qualche volta il papà era triste, allora Herman gli proponeva di andare a “trovare Gesù nel tabernacolo”. Passava almeno mezz’ora, fissando il tabernacolo, come se vedesse realmente Gesù e il papà lo sentiva ripetere con entusiasmo: “Gesù, ti voglio bene”.

Qualche volta bisognava dare coraggio alla mamma, che si disperava, quando vedeva mancare il cibo per i suoi figli. E, come succede spesso, lo scoraggiamento la spingeva a ribellarsi a Dio, a rifiutarsi di pregarlo: “a che serve pregare? – diceva – tanto Dio non ci ascolta”. Allora Herman le rispondeva con la solita voce ferma e serena: “mamma, la forza della preghiera sta nel continuare a pregare, nel pregare sempre. Io continuo a pregare. Il Signore mi esaudirà”. Un altro giorno, Herman le propose: “mamma, perché non vieni anche tu a messa con noi? ”. Ella li rispose irritata: “ non ti deve interessare quello che faccio o non faccio io”. Herman replicò sereno: “mamma, un giorno papà e io andremo in paradiso e vorrei che ci fossi anche tu con noi, per fare festa tutti insieme per tutta l’eternità”.

In ogni caso, Herman non si limitava a pregare: cominciò a fare dei piccoli servizi per le persone e i negozi del vicinato, così guadagnava qualche soldo, che consegnava tutto sorridente ai genitori, per aiutarli a fare la spesa.

Herman vedendo che la situazione non migliorava decise di “fare sul serio con Dioe cominciò una Novena e poi una terza, alla venticinquesima Novena, l’ultimo giorno papà Wijns fu chiamato a lavorare in un ministero: era un lavoro sicuro, finalmente. Herman commentò il fatto: “vedete che quando si persevera, si ottiene tutto da Dio”. In effetti, lui aveva perseverato: per 225 giorni aveva insistito nella preghiera, sicuro che Dio e la Madonna lo avrebbero ascoltato: “la Madonna è la nostra mamma – diceva – e ci aiuterà sempre”. E, parlando della bontà di Dio: “se hai qualche grazia da ottenere dal Signore, dillo a me, che sono il più vicino a lui, perché servo la messa e sono vicino al suo altare”.

Il 24 maggio 1941 Herman andò come al solito a servire la messa. Al termine, in sacrestia, il parroco gli chiese: “Davvero vuoi diventare sacerdote?”. Herman ancora una volta rispose sereno e convinto: “sì, o sacerdote o nulla!”.

Nel pomeriggio, camminando lungo la strada trovò a terra un crocifisso: lo raccolse, lo baciò, lo portò a casa, lo pulì ben bene e lo appese nella sua camera. Era un poco triste, pensando dove lo aveva trovato: per terra, abbandonato e sporco. Guardando quel crocifisso smarrito, pensò: “povero Signore!”. E fece un proposito: “devo offrirgli la mia vita in riparazione dell’offesa che ha ricevuto per la salvezza di chi lo ha abbandonato per terra”.

Poi corse fuori, a giocare come al solito con gli amici. Scendeva la sera, quando, urtato involontariamente, cadde per terra, ferendosi gravemente la gamba: il sangue sgorgava copioso e inarrestabile. Fu portato di corsa all’ospedale ed operato d’urgenza, senza anestesia per fare più in fretta. Il giorno dopo fu operato una seconda volta, ma l’emorragia non si arrestava.

Il 26 maggio 1941 chiese di confessarsi e di fare la comunione. Poi chiese anche il sacramento dell’unzione degli infermi, che allora si riceveva per prepararsi a morire e, in effetti, era chiamata “estrema unzione”, rispondeva lui stesso alla preghiera del sacerdote, rispondeva sereno. Al termine del rito sorrise e il suo volto divenne luminoso di gioia. Mormorò:papà,mamma, vado da Gesù. Starò con lui per sempre. Vi aspetto”. Chiuse gli occhi, come per dormire. E fu per sempre.

Fonti: www.carloacutis.com; http://www.santiebeati.it/dettaglio/93913

 

MIRACOLI DI SANTA RITA

MIRACOLI DI SANTA RITA

22 maggio

Santa Rita incarna tutti noi, o meglio tutte le donne, mogli, madri, figlie e religiose. Ella provò tutto e vinse ogni prova, ogni tentazione con una tenacia e una volontà che si riscontra solo in chi pone la sua vita nelle mani di Dio. Da questa grande forza nacquero grandi miracoli

Alla santa di Cascia viene associato un fiore in particolare: la rosa. È il simbolo della devozione a lei. Perché? Si narra che una cugina le fece visita, e Rita, ormai morente, espresse un ultimo desiderio: una rosa dal giardino che aveva lasciato. Si era d’inverno. La parente ubbidì, andò e trovò nell’orto coperto di neve una rosa fiorita. Gliela portò e Rita tutta felice la regalò al suo Crocefisso.

Quando morì, il 22 maggio 1447, ci fu un scampanio “spontaneo” cioè miracoloso di tutte le campane del paese.

Rita, moglie e madre, a costo di grandi sacrifici e sofferenze personali riuscì a tenere unita la famiglia e a riaffermare l’indissolubilità del matrimonio cristiano. Il culto a santa Rita non ha mai conosciuto crisi, anche durante il ventennio fascista. Subito dopo la II Guerra Mondiale venne esaltata come eroina contro il divorzio.

Nel 1457, per iniziativa delle autorità comunali, i primi miracoli di Santa Rita cominciano ad essere riportati nel Codex miraculorum (il Codice dei miracoli). Fra questi, troviamo quello cosiddetto maxime, ovvero il più straordinario: il miracolo di un cieco che riebbe la vista.

Il corpo di Rita non è mai stato sepolto, proprio per il forte culto nato immediatamente dopo la sua morte. Da subito, infatti, cominciano ad arrivare gli ex voto portati dai devoti. Vedendo tanta venerazione, le monache, decidono di riporre il santo corpo in una cassa. È a questo punto che Mastro Cecco Barbari s’incarica di costruire (più probabile: far costruire) la prima bara detta “cassa umile”.

Tra le carte del processo, si legge che: «dopo morta, dovendosi fare una cassa per riporre il corpo della Beata per li tanti miracoli che faceva, né trovandosi chi la facesse, un certo mastro Cicco Barbaro da Cascia, concorso se con le altre genti in detta chiesa per vedere il corpo della beata, ch’era struppio delle mani, disse “o’ se io non fussi struppiato, la farei io questa cassa”, e che dopo dette parole restò sano delle mani e fece la cassa…».

Mastro Cecco, nel vedere il corpo di Rita, immediatamente guarisce. Questa testimonianza ha un grande rilievo storico perché ci fa capire con chiarezza che la Beata, appena morta, viene portata nella chiesa senza cassa, sicuramente avvolta in un lenzuolo, per essere poi sepolta nel loculo delle monache. Ma la gente accorre continuamente per venerarla, impedendo così che le sue consorelle procedano al rito della sepoltura. Il corpo, quindi, resta così per qualche tempo e, intanto, si diffonde la voce che Rita compia dei miracoli.

Sempre nel 1457, a causa di un incendio divampato nell’oratorio, la cassa e il corpo rimasti intatti, vengono messi nel sarcofago, conosciuto come “cassa solenne”. Probabilmente, anche questa cassa viene fatta dallo stesso Cecco Barbari come ex voto oppure su commissione della sua famiglia, devotissima alla Beata.

Questa cassa solenne, fatta a soli dieci anni di distanza dal trapasso di Rita, mostra la sua fama di santità già diffusa. Sopra, viene inserito un epitaffio commemorativo. Il corpo di Santa Rita viene poi spostato ulteriormente, fino a giungere nella bellissima cappella dentro la Basilica a lei intitolata. Oggi, la cassa umile si trova custodita all’interno della cassa solenne, nella cella di Santa Rita.

Altre grazie ricevute su http://www.santaritadacascia.org/approfondimenti/approfondimenti-testimonianze-grazie.php

Fonti: http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/05-Maggio/Santa_Rita_da_Cascia.html

http://www.santaritadacascia.org/santarita/santa-rita-primi-miracoli.php

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Luigi Calabresi

Luigi Calabresi

Martire della giustizia (1937-1972) 17 maggio

In un suo quaderno di note dello spirito, scrisse: “Appartengo a un gruppo di giovani che vuol andare contro-corrente. In questo mondo neopagano, il cristiano continua a dare un’enorme fastidio, perché il fine che persegue, lo scopo che dà alla vita, non coincide con quello dei più…

Presso la sua casa a Roma, c’era un’Associazione Cattolica molto viva: Luigi, frequentandola, vi incontrò buoni sacerdoti e crebbe nella conoscenza e nell’amore a Cristo e nella fedeltà alla Chiesa; adolescente limpido, leale e diritto, che non tollerava volgarità, pieno di dignità e di gioia.

Al Liceo S. Leone Magno, studiava con profitto, maturando un’ottima cultura con principi forti e luminosi ideali di donazione a Dio e al prossimo. Ne uscì a 18 anni, giovane cattolico che, dovunque si fosse buttato, si sarebbe distinto. Ormai vedeva la vita, il mondo e ogni scelta solo alla luce della fede – la luce di Cristo – e ne faceva propria la mentalità in ogni momento.

Così scelse “giurisprudenza”, con l’intento di fare della professione di domani un servizio alla società, con lo stile di Gesù.

Durante gli studi universitari entrò nel movimento Oasi, fondato il I° novembre 1950 dal gesuita P. Virginio Rotondi, impegnandosi con la meravigliosa promessa di consacrazione che trascriviamo intera:

O Gesù, Re divino Salvatore del mondo, io ti rendo grazie per avermi scelto e chiamato a offrire a Te, per le mani di Maria Immacolata, tutta la mia giovinezza. Assumo l’impegno di conservare in essa immacolato il mio candore e di questo faccio voto oggi. Voglio meditare, visitarti e nutrirmi di Te ogni giorno. Voglio onorare Maria, tua e mia Madre con il Rosario quotidiano. Metto a servizio della Chiesa il mio tempo e le mie energie. Accetta in odore soavità questo mio olocausto e dammi la grazia di saper affrontare anche la morte per rimanere fedele a Te, o Re divino, Gesù Salvatore del mondo“.

Così la vita diventò, ancora di più per Gigi, un continuo esaltante “sì” a Cristo e alla Chiesa, in intimità con Lui, nell’apostolato nella società, con disinvoltura e fierezza. Visse con generosità estrema questo stile di vita, entusiasmante, con “Gesù solo” al centro, con Gesù solo come vera passione d’amore.

In un suo quaderno di note dello spirito, scrisse: “Appartengo a un gruppo di giovani che vuol andare contro-corrente. In questo mondo neopagano, il cristiano continua a dare un’enorme fastidio, perché il fine che persegue, lo scopo che dà alla vita, non coincide con quello dei più… Sentiamo di vivere, tutto sommato, in un mondo non nostro, che tende a escluderci e a sopprimerci. Il mondo, così com’è, lo sentiamo ostile“.

Gigi amava tutti con il cuore di Gesù, ma come Gesù sentiva di essere un esule, anzi un continuo tormento per il mondo del peccato e del rifiuto di Dio. Si laureò brillantemente con una tesi sulla lotta alla mafia. Pensando e pregando, capì che la sua strada sarebbe stata quella del matrimonio cristiano e di un servizio disinteressato al bene comune, da laico cristiano, cattolico vero.

Continuò pertanto a approfondire la sua cultura teologica, partecipando attivamente a incontri con altri giovani a studiare la Sacra Scrittura e a pregare insieme. Poi, la decisione per la carriera in Polizia, per essere in questa struttura, luce e fermento di Vangelo.[…]

Incontra Gemma, la ragazza che sposerà, e sente che matrimonio e famiglia non sono ricerca di se stessi, ma una grande missione: “Si impara a essere buoni sposi, quando ancora non si è sposati. Prima, molto prima ci si prepara“. Lui lo fa nel rispetto gioioso della Legge di Dio, nella purezza che ha consacrato a Dio nel movimento Oasi!

Nel 1969, si sposa con Gemma: è felice assai, ma proprio in quell’anno, il suo lavoro diventa durissimo. Nel ’70, il primo figlio, poi, negli anni che verranno, gli altri due. Sono la sua gioia più grande.

Quanti ragazzi – si domanda – hanno il modo di sentire davvero la famiglia? Il genitore deve fare il padre o la madre; quando vuol fare troppo l’amico o il fratello maggiore, sbaglia. Il figlio deve avere un padre, cioè ben più di un amico. Vuole avere una guida che sappia dire anche dei no, quando sono motivati“.

Nel 1970, Luigi Calabresi diventa commissario-capo. In Italia, a Milano avvengono fatti gravissimi. Lui è in prima linea e non si arrende, va sino in fondo nel suo compito, senza compromessi. È attaccato ingiustamente da molti per la sua fermezza: “Io non posso fuggire – spiega – non voglio che domani qualcuno dei miei figli possa dire: tuo padre è fuggito“.

Sperimenta amarezza e solitudine, ma dice: “Se non fossi cristiano, non so come resistere“, ma confida anche: “Ho trovato risorse morali di cui ignoravo l’esistenza“. Come ha imparato da Gesù, esclude sempre l’odio, anzi coltiva la carità, anche per chi l’offende, pregando Dio di saper vivere il Vangelo sino alle ultime conseguenze. A un amico dice: “L’importante è il poter dire di aver sempre fatto il proprio dovere, tutto intero“.

Ama rileggersi e meditare un pensiero di uno scrittore, che ha fatto suo come condotta di vita: “Io ho fiducia nel Signore e nei suoi vasti disegni (anche se stiamo passando e scontando un periodo di sbandamento morale), e perciò penso che per quanto pochi ci si riduca, bisogna resistere a ogni costo sulle posizioni non ancora sommerse; e su queste attendere a dar mano a quanti, a poco a poco, approderanno, sfuggendo al gran naufragio“.

Gigi, che ora (siamo nel 1972), è noto in tutta Italia e altrove come “il commissario Calabresi”, resiste con coraggio, con audacia, rifiutando anche la scorta, per non mettere altri in pericolo, e confidando a qualcuno: “Forse sono un idealista… Ma io credo in Dio, cerco di servirlo fedelmente. Ma oggi a fare un discorso così, non sei capito. È meglio proseguire per la propria strada con coerenza al Vangelo“.

Trova energie nella fede, nella preghiera quotidiana, nel suo intenso rapporto con Gesù.

Mercoledì 17 maggio 1972, proprio sotto casa sua, è freddato da terribili spari alla nuca e alla schiena. Muore all’istante. L’ideologia non accetta un cattolico coerente nella società!

Il suo volto giovane e maschio – aveva 35 anni non ancora compiuti – parve a tutti i puri di cuore come “un Adamo senza peccato, un eroe antico senza macchia e senza paura, caduto per la Verità e la libertà”. Vennero parole di altissimo riconoscimento alle sue qualità cristiane; da Papa Paolo VI e presuli e credenti illustri. Qualcuno affermò: “Ci sono in lui i lineamenti del santo“. P. Rotondi, il fondatore dell’Oasi, scrisse: “Gigi visse da santo e morì da martire”.

Oggi si parla di avviare la sua causa di beatificazione… È certo comunque che, come Gigi Calabresi, dobbiamo trovare il coraggio di andare contro-corrente, di passare all’opposizione di questo mondo di peccato, per proclamare, anche se dà fastidio a troppi, anche sedicenti cristiani, con la vita e con parola: “GESÚ SOLO”

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/94632

 

Domenico Pasquale Pestarino

Domenico Pasquale Pestarino

Sacerdote (1817-1874) 15 maggio

Durante la seconda metà dell’Ottocento, ci fu in Italia tutto un fiorire di figure eccelse in santità, in politica, nelle scienze, nelle arti, nel fondare Congregazioni religiose, Istituti e Movimenti laici ed ecclesiastici, impegnati nella vita contemplativa, ma soprattutto nelle opere sociali, caritatevoli, d’istruzione e formazione, una di queste fu proprio Domenico Pasquale Pestarino.

Domenico Pasquale nacque il 5 gennaio 1817 a Mornese, provincia di Alessandria, diocesi di Acqui, settimo dei quindici figli di Giovanni Battista Pestarino e di Rosa Gastaldo.

Di tutti questi figli alcuni morirono in tenera età, come purtroppo accadeva nelle famiglie dei tempi passati, a causa della grande mortalità infantile esistente; uno diventerà sacerdote e tre saranno suore, un’altro medico e un’altro farmacista; la famiglia comunque era benestante e profondamente cristiana.

Domenico frequentò le prime scuole dai Padri Scolopi ad Ovada, poi sorta la vocazione sacerdotale, continuò gli studi nel Seminario di Acqui. Purtroppo delle divergenze fra gli insegnanti, provocarono lo spostarsi di quasi tutti gli allievi presso altri Seminari; Domenico si trasferì a quello di Genova nel 1835, per completare gli studi di filosofia e teologia.

Qui l’ambiente profondamente spirituale, incise sulla formazione del giovane chierico Pestarino, il Rettore avendolo notato, gli affidò come prefetto gli studenti più piccoli; nel Seminario genovese, incontrò altre sante figure di confessori, insegnanti, educatori, come il beato Antonio Giannelli, il beato Tommaso Reggio, il futuro cardinale arcivescovo di Torino, Alimonda, un fratello della beata Paola Frassinetti, don Giuseppe.

Il 21 settembre 1839, ottenuta la dispensa per la giovane età di 22 anni, Domenico Pestarino fu ordinato sacerdote dal cardinale arcivescovo di Genova, Tadini.

I suoi superiori non lo fecero allontanare e lo richiamarono nel Seminario genovese, come prefetto dei chierici e nella città della Lanterna, don Domenico affinò le sue doti educative e come prete completò la sua formazione pastorale.

Nei sei anni della permanenza a Genova dopo l’ordinazione, la situazione in città era tutta un fermento, sia a livello religioso che politico; qui operavano più o meno, Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Nino Bixio, Vincenzo Gioberti, il conte Doria e per alcuni preti il clima non era favorevole; alcuni significativi e importanti professori del Seminario, partirono missionari o si ritirarono in paesi isolati, alla fine anche don Pestarino nel 1847, ritornò al suo paese. Mornese, ridente paese posto a 350 m di altezza, in quel tempo era in preda al “giansenismo”, come del resto tanti altri Comuni del tempo.

Il giansenismo ebbe origine con l’opera ‘Augustinus’ del teologo olandese Cornelio Giansenio (1585-1638), il quale diede vita con le sue teorie, ad un Movimento religioso che prendendo spunto dalla polemica anti-pelagiana di s. Agostino, aveva accentuato il motivo della profonda corruzione dell’uomo dopo il peccato originale e dell’assoluta necessità della Grazia per la salvezza, la quale sarebbe stata concessa solo ad alcuni per imperscrutabile disegno di Dio (predestinazione). Alla luce di queste teorie gianseniste, in quel tempo si era cristiani e credenti, ma il Signore proprio perché è Onnipotente, veniva scomodato poco, bastava confessarsi e comunicarsi perlopiù una volta l’anno.

Don Domenico Pestarino diventò collaboratore dell’anziano parroco don Lorenzo Ghio, che era affetto anche da forte deficit visivo; poté così in piena libertà d’azione, esplicare il suo apostolato a favore della popolazione; la predicazione, il catechismo, le confessioni e le opere di carità, diventarono il lievito per la crescita della vocazione laicale della parrocchia.

Le importanti conoscenze di veri sacerdoti di Dio, vennero da lui sfruttate con inviti a venire a Mornese per predicazioni, convegni, scambi di esperienze.

Santa Maria Domenica Mazzarello

Fra le giovani della parrocchia, c’era una di cognome Maccagno, orfana di padre, dotata di una certa istruzione e discreta indipendenza economica; sotto la guida di don Pestarino diventò maestra e faceva scuola nel paese; in seguitò fondò le ‘Figlie dell’Immacolata’, che diventeranno poi le nuove Orsoline, e un gruppo di queste, formeranno con s. Maria Mazzarello, il nucleo fondante delle Suore “Figlie di Maria Ausiliatrice”.

Facilitato dalla posizione del fratello maggiore medico e sindaco del paese, don Domenico prese ad attuare un programma di promozione della vita umana, cristiana, culturale e sociale, a favore della popolazione, in collaborazione con l’Amministrazione Comunale.

Nel 1860 il vecchio parroco morì e fu sostituito con un giovane sacerdote, ciò permise una diminuzione delle sue responsabilità; e in quel periodo in cui muore anche il padre, la madre era già deceduta nel 1845, don Domenico Pestarino incontrò don Giovanni Bosco; era inevitabile che fra i due attivi apostoli della gioventù, nascesse una simpatica collaborazione, tanto che don Domenico diventò salesiano esterno.

Don Bosco comunque lo lasciò a Tornese, a consolidare le varie attività esistenti e nel frattempo seguire il gruppo di ragazze che diventeranno poi le ‘Figlie di Maria Ausiliatrice’. Nel 1864, il 7 ottobre, don Bosco venne a Mornese per la prima volta, accompagnato da una settantina dei suoi turbolenti ragazzi e qui si decise di istituire un Collegio per ragazzi con l’interessamento degli abitanti, di don Pestarino e dell’Opera Salesiana.

Ma la Provvidenza decise altrimenti, su sollecitazione del vescovo di Acqui, che vedeva nel collegio una diminuzione di ragazzi frequentanti il piccolo Seminario, che si stava ricostituendo ad Acqui; l’edificio ormai ultimato, cambiò così destinazione d’uso, diventando la Casa di una nuova Istituzione, il ramo femminile dell’Opera Salesiana, cioè le Figlie di Maria Ausiliatrice.

Il 24 maggio 1872 il preesistente gruppo di Figlie dell’Immacolata, costituì la nuova Congregazione, eleggendo come superiora Maria Domenica Mazzarello (1837-1881) nativa di Mornese; don Domenico Pestarino già guida spirituale del gruppo e della Mazzarello, ne divenne il primo direttore spirituale.

San Giovanni Bosco

Don Pestarino, scrivendo a don Bosco sulle virtù e sul lavoro di Madre Mazzarello, diceva: “Non sa quasi scrivere e poco leggere; ma parla così fine e delicata in cose di virtù e con tale persuasione e chiarezza che sovente si direbbe ispirata dallo Spirito Santo“.

Trascorsero un paio d’anni dalla costituzione e i problemi non mancarono sia organizzativi, sia di formazione; il direttore spirituale don Domenico ne soffriva e taceva, ma la piccola navicella, nonostante tutto, continuò sempre più a navigare verso il largo, per la gloria di Dio e per il bene da fare nel mondo, affrancata alla grande Famiglia Salesiana.

Il 15 maggio 1874 don Pestarino moriva a Mornese, il suo paese che tanto gli è riconoscente, per aver in tempo di cambiamenti epocali, con la Grazia dello Spirito, indicato la strada giusta per rinnovare la fede dei suoi compaesani, portandoli ad una fede pregata, testimoniata e vissuta.

Autore: Antonio Borrelli

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/92481

 

ANTEA GIANETTI

ANTEA GIANETTI

Laica (1570-1630) 7 maggio

Detta “Madonna Antea” aveva una preghiera potente che otteneva grandi favori da Dio e grazie a casa Savoia riuscì a spargere la devozione alle anime del purgatorio e alla Vergine del Suffragio in tutta Europa.

Antea Gianetti nacque a Lucca nel 1570. Aveva solo due mesi quando la famiglia si trasferì a Brissago, il paese paterno, sulla sponda svizzera del Lago Maggiore, dove nacquero tre fratelli. Il padre era un uomo di modeste condizioni, mentre la madre era una nobile lucchese la cui famiglia era decaduta.

A sette anni Antea, osservando la vita delle religiose del monastero annesso al santuario di S. Maria del Monte, sentì il desiderio di farsi monaca.

Presto orfana di padre, dovette adattarsi ai lavori più umili: raccoglieva legna e portava le pecore al pascolo. All’età di sedici anni si sposò con un bravo giovane del paese che faceva il muratore a Sesto Calende.

Antea era “eccessivamente” generosa. Attingendo dalle provviste di casa, dava in elemosina più di quanto poteva e non pochi furono i litigi con il marito. Nel 1602 rimase vedova, senza figli, poco più che trentenne. Si trasferì ad Arona dove un gesuita divenne suo confessore.

Sacro Monte di Varallo

Un pellegrinaggio al Sacro Monte di Varallo, che compì in quegli anni, fu molto importante per fortificare la sua devozione per la Passione di Cristo. In seguito il confessore cadde malato e guarì grazie alle preghiere di Antea. Il sacerdote comprese le doti non ordinarie della donna e la inviò a Cascina s. Giorgio, nei pressi di Settimo Torinese.Era una proprietà dell’Ordine che aveva il vantaggio di essere più vicina a Torino dove Antea poteva recarsi regolarmente per vendere uova, burro e formaggio ai palazzi nobiliari e a Palazzo Ducale.

Nel 1604 ebbe la fortuna di assistere all’ostensione della Sindone. La sua umiltà e i saggi consigli che dava a quanti la conoscevano suscitò intorno alla sua persona un certo interesse e una dama di corte, appartenente all’illustre casato dei Tana, notandola, ne parlò ai Savoia. Ebbero inizio così i provvidenziali disegni che il Signore aveva sulla vita della pia contadina. Antea conobbe le venerabili Infanti Maria e Caterina di Savoia. Quest’ultima era malata e chiese le sue preghiere. La guarigione repentina fece scalpore e la sorella maggiore, Margherita, col marito Francesco Gonzaga, Duca di Mantova, vollero incontrarla a Casale Monferrato.

Madonna Antea, come veniva ormai chiamata, si trasferì a Torino ed entrò in relazione spirituale con una monaca che aveva una grande devozione per le anime dei defunti, in particolare per quelle che non ricevevano suffragi. Antea fece propri i sentimenti di carità per quelle anime. Qualche tempo dopo, mentre recitava il rosario davanti ad un pilone, vide la Regina del Cielo. Era sorridente e con le braccia distese concedeva grazie. Le venne spontaneo di chiedere di alleviare le sofferenze delle anime prive della vista di Dio. La Santa Vergine si disse madre di quelle anime e manifestò la volontà che si costruisse una chiesa per il loro suffragio.

Antea, nella chiesa di S. Domenico, organizzò una solenne esposizione settimanale del Santissimo, ottenendo come offerta da Carlo Emanuele I “il dono della cera”. Con le venerabili Infanti, intanto, prendeva forma l’idea che la chiesa potesse sorgere insieme al monastero delle cappuccine che si voleva fondare in città.

Antea ebbe un’ispirazione particolare pregando, nella festa di s. Bernardino, nel convento della Madonna degli Angeli, dove l’anno prima era morto il Servo di Dio fra’ Lorenzo Gallo da Revello. Quel giorno stesso iniziò a raccogliere i fondi necessari. Nel 1624 Papa Urbano VIII concesse il breve per la fondazione del monastero della Madonna del Suffragio e il 24 settembre, alla presenza solenne della corte, si innalzò la croce.

La “santa contadina” andava spesso a trovare le monache, istruendo in particolare le novizie nella devozione ai defunti. Tra queste c’era suor Maria del beato Amedeo Vercellone che poi divenne guida del cenobio, intima confidente di Madama Reale Cristina di Francia, fu la fondatrice del monastero di Mondovì e morì in concetto di santità.

L’attività di Antea non conobbe soste. Visitò, grazie alle “raccomandazioni” dei Savoia, diverse capitali italiane con la “missione” di diffondere il culto per la Madonna del Suffragio e le orazioni a vantaggio dei defunti. Al santuario di Vicoforte incontrò padre Bernardino Rossignolo, provinciale dei Gesuiti. Visitò le corti di Mantova, Ferrara, Modena e Milano. A Vercelli aiutò una religiosa a liberarsi dalle “ossessioni demoniache”.

Assisi – Santa Maria Degli Angeli – Porziuncola

Fu pellegrina ad Assisi, alla tomba del Serafico Padre Francesco, poi andò alla Santa Casa di Loreto. Passando per Firenze, andò a Roma per chiedere le indulgenze alle orazioni dei defunti. Si ammalò e guarì per intercessione di s. Carlo Borromeo.

Tornò a Mantova, dove ebbe in dono il rosario della venerabile francescana Giovanna della Croce. A Brissago fece visita ai parenti e con l’occasione raccolse elemosine a favore delle Orsoline di Cannobio. A Sesto “risanò” la sorella moribonda, poi andò ad Arona, ospite del Cardinale Borromeo, e a Como. Nel suo “pellegrinare missionario”, il suo esempio era di grande edificazione: aveva familiarità con Dio, grande carità verso i poveri, spirito d’umiltà e d’obbedienza.

Madonna Antea morì a Torino il 7 maggio 1630 e fu sepolta nel sepolcretto delle cappuccine. Sulla lapide, posta a memoria, si scrisse: “singolare per l’integrità della vita, celebre per la pietà verso i defunti, promotrice indefessa di questa casa”. Il confessore conosciuto da Antea ad Arona, Gerolamo Villani, nel 1617 scrisse “Una breve narrazione” della sua vita. Il manoscritto, rimasto purtroppo inedito, testimonia la straordinaria fama di santità di Antea e, si direbbe, il “dovere” che sentì l’autore di raccogliere notizie su di lei.

Nelle sua terra di origine la memoria di Antea rimase grazie ad un paio di ritratti conservati nella parrocchia di Angera e ad Arona. In quest’ultima città un suo dono fatto alle Madri della Congregazione della Purificazione è ancora oggi venerato nella collegiata. È un busto di Cristo “appassionato” che le fu a sua volta donato da una monaca di Lucca. La religiosa disse d’averlo creato, quasi prodigiosamente, con le sue mani. Antea lo portò con sé fino a quando ne fece dono alle religiose di Arona.

L’unico storico che parlò di Antea, Gian Alfonso Oldelli, nella sua opera “Dizionario storico-ragionato degli uomini illustri del Canton Ticino”, pubblicato nel 1807, cita i due ritratti e il busto, lamentando però la mancanza di notizie sulla donna. Definendola “beata”, dice che “ebbe gli onori della Regina di Francia, inviata ambasciatrice a Nostra Signora di Loreto; ricevette gli ultimi onori dalle Infanti di Savoia; portata sulle proprie loro spalle, come in trionfo”, riferendosi alla sepoltura. La devozione per le anime dei defunti si diffuse negli anni a venire in tutto il Piemonte. Le vicende di Antea caddero in oblio, ma ancora oggi, però, il monastero torinese delle cappuccine è dedicato alla Madonna del Suffragio.

Autore: Daniele Bolognini

FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/94279

 

 

NOVENA A SAN MATTIA

NOVENA A SAN MATTIA

Dal 6 maggio

San Mattia fu tra gli uomini che accompagnarono gli apostoli per tutto il tempo che Gesù Cristo visse con loro, chiediamogli con questa novena di accompagnare anche noi nelle difficoltà della nostra vita.

DA RIPETERE PER NOVE GIORNI CONSECUTIVI

I. Glorioso s. Mattia, che fin dalla vostra giovinezza conduceste una vita sì santa da essere universalmente riguardato come uno dei più degni d’essere elevato al grado d’Apostolo, ottenete a noi tutti la grazia di viver sempre così santamente da edificare con la nostra condotta tutti quanti i nostri prossimi, spargendo da per tutto il buon odore di Gesù Cristo.

Gloria al Padre al Figlio e allo Spirito Santo come era in principio ora e sempre nei secoli dei secoli.

II. Glorioso s. Mattia, che, trascelto da Dio medesimo regolatore di tutte le sorti ad entrar nel Collegio Apostolico in sostituzione del perfido Giuda, corrispondeste con tanta fedeltà a così sublime vocazione da scorrere evangelizzando tutto le contrade della Giudea e dell’Etiopia, ottenete a noi tutti la grazia di corrispondere sempre fedelmente a tutti i divini favori, o travagliare incessantemente al bene dei nostri fratelli.

Gloria al Padre…

III. Glorioso s. Mattia, che, dopo aver erudito nella fede di Gesù Cristo un numero infinito di anime, ve lo confermaste con lo spettacolo il più edificante, cioè con l’eroismo con cui affrontaste il martirio e con la generosità con cui dimandaste a Dio il perdono del peccato di coloro che vi seppellivano barbaramente sotto una tempesta di sassi, ottenete a noi tutti la grazia di non temere giammai la persecuzione del mondo, e di soffrir sempre qualunque male piuttosto che violare menomamente la legge santa di Dio.

Gloria al Padre…

Fonte: http://rosarioonline.altervista.org/index.php/santorosario/rosario/it

 

Coroncina del “Fateci Santi”

CORONCINA DEL FATECI SANTI

Fu composta da San G. Cottolengo e giova a togliere il pregiudizio che la santità sia troppo difficile e quasi impossibile a conseguirsi…

Fu composta da San G. Cottolengo e giova a togliere il pregiudizio che la santità sia troppo difficile e quasi impossibile a conseguirsi…: molti non vi aspirano, anzi credono di peccare di superbia coltivandone il desiderio. San Paolo ci ricorda: «È volontà di Dio che vi facciate santi».

Recitiamo con fervore questa coroncina e sentiremo il desiderio di diventare santi e di praticare ciò che è necessario: otterremo così dalla Regina di tutti i Santi le grazie necessarie per realizzare questo desiderio.

 

Si recita sulla corona del Rosario.

0 Dio, vieni a salvarmi… – Signore, vieni presto in mio aiuto.

Gloria al Padre

Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. Come era nel principio, e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.

Sui grani piccoli:

Vergine Maria, Madre di Gesù, fateci santi.

Sui grani grossi:

Gloria al Padre

Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. Come era nel principio, e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.

 

Alla fine:

Sia fatta, lodata ed in eterno esaltata la giustissima, altissima ed amabilissima volontà di Dio in tutte le cose.

SALVE REGINA

Salve, Regina madre di misericordia, vita dolcezza speranza nostra salve. A Te ricorriamo, noi esuli figli di Eva a Te sospiriamo gementi e piangenti in questa valle di lacrime. Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi quegli occhi tuoi misericordiosi e mostraci dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del Tuo seno, o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria.  

Fonte: Il libro delle novene ed. Ancilla 

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San Giuseppe Benedetto Cottolengo
Triduo e coroncina a San Giuseppe Cottolengo

Serva di Dio Maria Costanza Zauli

SERVA DI DIO MARIA COSTANZA ZAULI

Fondatrice (1886 – 1954) 28 aprile

Già dalla Prima Comunione ella si considerò come “fidanzata” con Gesù e dopo un lungo periodo di malattia promise al Signore che se fosse guarita avrebbe fondato un istituto di perpetua adorazione e così avvenne con le “Ancelle Adoratrici del Ss. Sacramento”.

Anche lei, nacque come tante altre belle figure della spiritualità ed operosità cattolica, nel secolo XIX, che vide tanti sconvolgimenti politici e sociali, ma anche e soprattutto la nascita di uomini e donne, destinati a lasciare per il futuro, il segno della loro fede cristiana, e della loro abnegazione in ogni campo sociale, assistenziale, religioso.

Palma Pasqua (Palmina) Zauli nacque a Faenza (Ravenna) il 17 aprile 1886 da Giuseppe Zauli e da Rosa Tanesini, in un ambiente familiare ricco di fede; i suoi genitori provvidero a darle un’istruzione in casa nei primi anni di scuola, frequentando saltuariamente qualche mese alla scuola pubblica.

Crebbe comunque intelligentissima e giudiziosa, da suscitare stupore fra i familiari. Già dalla Prima Comunione ella si considerò come “fidanzata” con Gesù, al quale aveva promesso la sua vita ed a 13 anni con il consenso del suo confessore, gli offrì il voto di verginità per sempre. La sua “storia d’amore” con Gesù, sarà il filo conduttore della sua vita; rifiutò ogni proposta di giovani coetanei, perché lei era già impegnata con un “Altro”, e che ciò soddisfaceva il suo cuore per sempre.

A 19 anni il 15 agosto 1905, nella festa dell’Assunzione di Maria, Palmina lasciò la sua famiglia ed entrò nella Congregazione delle “Ancelle del Sacro Cuore” di Bologna. Il 10 settembre 1908 fece la sua professione, con il nome di suor Costanza, nelle mani dell’arcivescovo di Bologna Giacomo Della Chiesa, futuro papa Benedetto XV (1914-1922).

Il suo primo compito era di accudire le piccole alunne del Collegio, che seguiva con cuore materno nel loro crescere ed istruirsi. Durante la Prima Guerra Mondiale (1915-18) suor Costanza venne aggregata come infermiera all’Ospedale militare S. Leonardo di Bologna, prodigandosi per i giovani soldati, feriti sia nel corpo sia nell’animo, per la crudezza del conflitto. E in mezzo a loro, bisognosi soprattutto di un consiglio e di una buona parola, ella portò l’Amore di Dio, raccogliendo il loro consenso a confessarsi, frequentare la s. Messa e ricevere la S. Comunione.

Già dal 14 febbraio 1916 iniziò per lei un lungo periodo d’infermità, che nei primi sette anni si alterneranno con ristabilimenti temporanei; ma poi dal 1923 e per lunghi dieci anni, fino al 1933, fu costretta a letto, carica di dolori e spesso vicina alla morte.

Nel suo letto di dolore suor Costanza promette a Gesù che se lo vorrà, fonderà un’Opera di Ancelle Adoratrici del Ss. Sacramento, in cui Lui sarà sempre, giorno e notte, adorato da elette creature, per la conversione del mondo, le vocazioni sacerdotali e religiose, per l’unità della Chiesa.

È ancora inferma, ma la sua intuizione e volontà và avanti, ottiene i permessi della Madre Generale e dei Superiori, dal papa e dagli arcivescovi bolognesi e dal suo letto vide l’innalzarsi del nuovo monastero. Il 3 agosto 1933 nel giorno dell’apertura, suor Costanza guarisce miracolosamente, mentre viene esposto Gesù Eucaristia nella Cappella e da quel momento, ella entrò nell’Istituto come Madre Superiora e Fondatrice, per dirigere l’Opera con sapienza evangelica.

La “Congregazione delle Ancelle Adoratrici del Ss. Sacramento” fu eretta canonicamente il 9 dicembre 1935. E nel chiuso del chiostro, insieme alle Figlie che affluirono intorno a lei, offrì gioiosamente il sacrificio della sua vita, interamente dedicata all’adorazione dello Sposo Divino e indicando a tutti, suore e fedeli, che non c’è che un’opera da compiere sulla terra, ed è diventare “uno con Lui”, per essere “uno” nel Suo Corpo mistico che è la Chiesa, guidati e sostenuti da Maria, la prima adoratrice del Verbo Incarnato.

Madre Maria Costanza Zauli morì il 28 aprile 1954, nel suo convento di Bologna. Il 12 aprile 1985 la Santa Sede ha dato l’autorizzazione per introdurre la causa per la sua beatificazione; la pratica è attualmente presso la competente Congregazione di Roma.

Autore: Antonio Borrelli

FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/91856

 

Luciano Guarnier

LUCIANO GUARNIER

(1953 – 1962) 27 aprile

Luciano Guarnier, una meteora, piccola ma luminosissima, che ha attraversato il cielo della terra lasciando un segno indelebile del suo passaggio su quanti hanno potuto conoscerlo, avvicinarlo, apprezzarlo e amarlo.

Nasce il 14 gennaio 1953, terzo di cinque (l’ultimo nascerà con un parto cesareo urgente 4 giorni dopo la sua morte) e cresce nutrendosi dell’amore della sua famiglia dalla quale assorbe i fondamenti di una fede genuina, talmente solida che diventa sostegno di ogni pensiero e di ogni azione, vero “pane quotidiano” per tutta la famiglia Guarnier.

Una fede che si fa esperienza giornaliera nella vita del piccolo Luciano e si concretizza in momenti spirituali vissuti con incredibile intensità. Dall’animo sensibile e dal temperamento vivace, egli con spontaneità passava dalla gioia ludica dell’arrampicarsi come uno scoiattolo sugli alberi, alla sofferenza quasi fisica per tutti coloro che vedeva soffrire a causa di malanni o disgrazie.

Diligente a scuola, era straordinariamente concentrato durante le lezioni di catechismo e si applicava alla preghiera con una serietà e devozione che non lasciavano posto a distrazione alcuna, perché doveva parlare con il Signore e ringraziarlo per il dono della vita.

Per non parlare della gioia intima che esternava senza remore, ogni volta che l’insegnante di catechismo lo invitava a fare il chierichetto; una soddisfazione immensa, perché, diceva, sarebbe statopiù vicino al Signore”. Nel racconto che la mamma fa di Luciano, un episodio merita di essere riportato che arricchisce ancor più il ritratto di un ragazzo al top, solido nelle convinzioni, limpido nelle manifestazioni.

Scrive la mamma:La casa dove abitavamo allora d’inverno era fredda. L’unico posto riscaldato era la stalla. Lì si passava la serata, prima di andare a letto. Quando ci si metteva sotto le coperte, il freddo e l’umido le faceva sembrare bagnate. Ebbene Luciano, a un certo punto si alzava, salutava e saliva in camera prima di noi. Scaldava bene il suo posticino e quando arrivavamo ci diceva, spostandosi, di mettere Beppino (il fratello più piccolo) al suo posto, sennò lui frigna perché sente le coperte fredde”.

I ricordi di mamma Irma non sono sfocati, nonostante sia passato ormai tanto tempo. Essi, anzi, trovano nella dolorosa ricostruzione della troppo breve esistenza del suo Luciano, una spiegazione a quello strappo così improvviso e inaspettato che non si è più ricucito. Di fronte a tragedie di questo tipo tutti s’interrogano, anche quando la fede è tanta. Anzi, forse proprio per questo il dolore è più forte e, di conseguenza, la domanda più angosciosa. Quel 27 aprile del 1962, come sempre, il piccolo era partito di casa per recarsi a scuola assieme a suo fratello. Mamma li seguiva dalla finestra. Voltandosi per salutarla, Luciano lo fece per l’ultima volta. Doveva attraversare i binari della ferrovia, percorso che faceva tutti i giorni. Quella volta… “Quale destino lo portò – scrive la mamma – ad attraversare proprio nel momento in cui stava passando la littorina?”. Finiva così la vita appena sbocciata di un fiore, piccolo ma fragrante, colto da questa terra perché già maturo per il giardino di Dio.

Autore: Serena Manoni

Fontewww.sdb.org; http://www.santiebeati.it/dettaglio/94236

 

Padre James Manjackal

PADRE JAMES MANJACKAL

Sacerdote carismatico – 18 aprile 1946

Padre James Manjackal è nato il 18 aprile 1946 a Cheruvally a Kottayam in India. E’ un sacerdote cattolico romano della Congregazione dei Missionari di San Francesco di Sales e un personaggio di rilievo per i suoi significativi doni carismatici.

Padre James Manjackal è nato il 18 aprile 1946 a Cheruvally nello stato indiano del Kerala dove i cristiani costituiscono una forte minoranza entra a far parte dei missionari di San Francesco di Sales il 23 aprile 1973. Da quel momento intraprende viaggi di evangelizzazione in tutti i continenti, tra cui gli Stati Uniti, la Germania, la Bosnia-Erzegovina, la Croazia e l’Austria, ma anche nell’Arabia Saudita e negli Emirati Arabi.

Il suo ministero sacerdotale prevede incontri, seminari e ritiri, con “Messe di Guarigione e Liberazione”. Dirige anche alcune scuole di evangelizzazione fondando nel 1989 il centro di ritiro “Charis Bhavan” in Kerala, del quale è stato direttore per sei anni. Ha scritto molti libri sul rinnovamento Carismatico della Chiesa Cattolica. Le sue opere riflettono anche il suo ministero sacerdotale e raccontano gli eventi e le esperienze personali che ha vissuto con traduzioni in molte lingue.

Come cristiano cattolico, sono nato in una famiglia cattolica tradizionale in Kerala in India, pur vivendo tra gli indù. Ora sono un prete cattolico e carismatico che predica in 60 paesi di tutti i continenti, e devo dire qualcosa circa gli effetti negativi dello yoga sulla spiritualità cristiana e della vita cristiana. So che v’è un crescente interesse per lo yoga in tutto il mondo, anche tra i cristiani, e che questo interesse si è esteso anche ad altre pratiche esoteriche nuove come il Reiki, la reincarnazione, digitopressione, l’agopuntura, la guarigione pranica, riflessologia, etc. Questi metodi si trovano in conflitto con, “Jesus Christus portatore dell’acqua della vita”, così come ci ha messo in guardia il Vaticano nel suo documento.” (vedi articoli collegati MEDICINA ALTERNATIVA – PRATICHE ESOTERICHE E MEDICINE ALTERNATIVE)

Padre Manjackal sta lottando molto soprattutto nel nostro continente definito la culla del cristianesimo che purtroppo sembra essersi prostituita a queste forme pagane che senza rendersene conto portano ad allontanarsi da Dio e dalla sua vera essenza.

In un ritiro predicato a Medjugorje, in Bosnia-Erzegovina, un pomeriggio, un sacco di persone erano in piedi al di fuori della sala in attesa dell’imposizione delle mani e della sua preghiera. Improvvisamente, una donna si precipitò verso di lui furiosamente con alte grida e parole offensive, cercando di colpirlo con pugni, calci e sputi. Non furono sufficienti 8 persone per tenerla ferma. “Tu, sanguinoso sacerdote indiano perché vieni a distruggere noi e a cacciarci via?  Non ti vergogni di venire qui a lavorare senza nemmeno conoscere la nostra lingua e cultura“. Con una risata di scherno, disse anche, “O sapranno che siete molto poveri e che stavate morendo di fame in India, per questo siete venuti qui …“.

Intanto continuava ad urlare e cercava di stracciarsi le vesti. Stava esprimendo tutte le caratteristiche di uno spirito maligno, che si trova anche sul Vangelo in Marco 5: 1-10. Fu Fr. Slavko, il direttore spirituale del Centro mariano di Medjugorje a quel tempo, che venne in suo soccorso! Gli asciugò la saliva dalla faccia con il suo asciugamano e dopo avergli lavato il viso con l’acqua fresca prese anch’egli il Crocifisso e il Rosario e iniziarono a pregare insieme per la liberazione di quella donna. All’improvviso cadde a terra con la lingua fuori e il viso blu pur continuando a sputare e a dire parole offensive.

Anche se proveniva dall’Inghilterra, parlava in italiano così che solo Fr Slavko riusciva a capirla ma Padre James Manjackal no. L’esorcismo durò parecchie ore, ma il digiuno e la preghiera, unita alla grande fede riuscirono a liberarla dallo spirito maligno per essere riconsegnata nelle braccia del marito. Entrambi erano medici omeopatici ed egli li informò che queste le loro pratiche mediche erano intrise di altrettante pratiche esoteriche che traggono origine dall’Induismo e dal Buddismo. Si tratta di pratiche in cui la forza della natura viene mescolata ai poteri del male.

Nell’ottobre del 2001 venne organizzato un ritiro a Madrid con più di 500 carismatici che hanno ottenendo centinaia di guarigioni fisiche, ma soprattutto interiori, uno di questi era un ragazzo di dodici anni che camminava con l’ausilio di stampelle da sette anni il quale gettandole è salito sul palco per dare la sua testimonianza. Lo stesso è capitato ad un uomo in sedia a rotelle che dopo 17 anni ha riacquistato l’uso delle gambe. Ma questi sono solo due dei numerosissimi casi che accadono ogni volta che P. Manjackal si riunisce con i pellegrini di tutti le nazioni a pregare.

Fr. James Manjackal nelle sue catechesi afferma con decisione le parole della Bibbia ribadendo il concetto della famiglia: “Dio creò l’uomo e la famiglia, creando il maschio e la femmina, la vita coniugale era quindi nei piani di Dio, diventa perciò deplorevole il fatto che vi siano così tante separazioni e divorzi in Europa.”

Le sue parole sono Vangelo vivo e vero, ma ricordano molto anche le parole della Regina della Pace nei messaggi di Medjugorje: la famiglia che prega unita rimane unita; attraverso la preghiera si salvano i figli, chi non ama non conosce Dio perché Dio è amore,…

Padre Jamesnelle sue catechesi condanna i tanti aborti che si stanno compiendo nei nostri paesi europei, dichiarando: “Fermiamo tutti gli omicidi! Specialmente la strage dei piccoli bambini. … Se si ama veramente Dio si dovrebbe osservare i suoi comandamenti, se si smette di farlo allora non possiamo dire di amarlo perché bisogna dimostrarlo non con le parole ma con i fatti.”

Vedi il sito http://www.jmanjackal.net/eng/eng.htm

Fonti: http://www.jmanjackal.net/deu/deuyoga.htm; https://de.wikipedia.org/wiki/James_Manjackal; http://www.jmanjackal.net/eng/engnews.htmhttp://christtotheworld.blogspot.it/2011/03/medjugorje-fr-james-manjackal-driving.html

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Emma Alutto

EMMA ALUTTO

Fanciulla cuneese (1928 – 1936) 5 aprile

La foto è di una bimba che potrebbe assomigliarle poichè non vi sono immagini reperibili di Emma sul web.

Visino serio che ispira fiducia, dei bei riccioli bruni raccolti in due treccine non troppo lunghe, espressione vivissima di grandi occhi azzurri, intelligenza precoce e cuore generoso, il tutto in una statura piuttosto piccola: ecco Emma Alutto.

 

 

 

Nacque ad Alba il 19 maggio 1928 e vi morì la domenica delle Palme, il 5 aprile 1936.

Tra gli affetti del suo cuore Emma ha riservato un posto speciale per Gesù Bambino.

A chi vuoi più bene, Emma? – domanda qualche volta la mamma.

Prima voglio bene a Gesù, poi alla Madonna, poi a voi, i miei cari mamma e papà.

E al piccolo Gesù Emma parla con tenerezza, offre i fiori del prato, rinnova l’offerta di sé. E Gesù ascolta, accetta, sorride. Talvolta, la piccola, segue in chiesa la mamma. Mentre questa rimane in ginocchio lei, con passi concitati e svelti si dirige alla balaustra. Fissa con amore il Tabernacolo, unisce le mani e prega per alcuni istanti. Dopo darà ragione del suo atto alla mamma: “È per vedere meglio Gesù“. Quando la mamma torna a casa da Messa, dove ha ricevuto la Comunione, Emma chiede un bacio: – Mamma, adesso profumi di Gesù!

Come tutti i bambini Emma cade in qualche difetto, ma in generale non fa i capricci, perché sa che non piacciono a Gesù. Uno sguardo severo della mamma la richiama al dovere. Si pente e supplica veramente pentita: – Mamma, perdonami, non lo farò più. Un bacio della mamma e la bimba riprende serena il suo gioco. Emma non ha delle sorelline con cui divertirsi, perché i sei fratelli sono tutti più grandi di lei. Gioca un po’ con la bambola e poi va a sedersi accanto alla mamma per osservarla mentre cuce.

Senti, mamma, – le dice una volta – ora io dico: “Io sono tutta tua e tutto quanto posseggo te lo offro, amabile mio Gesù, per mezzo di Maria tua Santissima Madre” e tu lo ripeti con me. E quando io dico: “Gesù è con noi”, tu rispondi; “Noi siamo con Gesù”. Poi, non bisogna più parlare. La mamma, per accontentare la piccola, faceva con lei quella Comunione spirituale e taceva per qualche istante. Ma poi rivolgeva la parola ad Emma che, qualche volta, sarebbe stata capace di continuare il silenzio anche per più di un’ora.

Chi aveva insegnato alla piccola quel modo di unire la preghiera con il lavoro? Il suo spirito di osservazione. Le alunne della Pia Società di san Paolo, presso le quali Emma si recava spesso, nell’esercizio del loro apostolato stampa, accompagnano il lavoro con preghiere, giaculatorie, Comunioni spirituali, Rosari ed offrono il silenzio come mezzo per ottenere delle grazie. Emma aveva visto, imparato e poi imitato.

Aveva appena cinque anni e già da più di una anno supplicava la mamma perché le permettesse di fare la prima ComunioneSei troppo piccola – dicevano le suore dove frequentava l’Asilo. – Ma Gesù vuole bene ai piccoli! – rispondeva lei. Non temette di presentarsi al Vescovo per ottenere il favore tanto desiderato. Mons. Grassi guardò quella bimba dal viso serio e sereno. In quegli occhi lucenti ed espressivi vide tutto l’ardente desiderio di un’anima assetata del suo Dio e concesse volentieri il permesso che gli veniva chiesto. Emma era felice. Il 3 maggio 1934 si unì per la prima volta con il suo Gesù. Da quel giorno, quante Comunioni ricevette la cara bambina!

Ora, mamma – diceva – sono grande anche io. Chiamami pure presto al mattino, verrò con te alla Messa a ricevere Gesù. – E fu fedele, anche quando faceva freddo e stare al caldo sotto le coperte le avrebbe fatto piacere. Qualche volta la mamma non poteva accompagnarla in chiesa. Emma, allora, invece di andare in parrocchia, che era più distante, si recava nella chiesa di san Paolo dove era sicura di trovare qualche suora. Le si avvicinava con garbo e le diceva: – Suora, mi aiuti a prepararmi per ricevere la Comunione.

Nell’autunno de 1934 Emma cominciò ad andare a scuola. Diventò presto una scolara modello, talmente che la maestra ne era orgogliosa e tutta le compagne la prendevano a modello. Emma era nata nel mese di maggio, il mese della Madonna. Vedeva il suo Gesù Bambino quasi sempre in braccio alla Madonna e come voleva bene a lui voleva bene alla sua Mamma.

Da piccola, aveva imparato a recitare la corona del Rosario ed ogni sera, nella famiglia raccolta davanti l’immagine della Madonna, si distingueva, fra tutte, la sua vocina di bimba ha che intonava e guidava la preghiera, lo non so capire – diceva un giorno alla mamma – come mai certe persone trovino lunga la recita del Rosario. Si fa così presto a finirlo! Ed essa ne recitava tanti. Com’era lieta quando alla sera poteva dire: – Oggi, mamma, ho recitato quattro, cinque, sei Rosari! – Quanti fioretti sapeva offrire alla Madonna nel mese di Maggio e al sabato! Un giorno, avendo sete, aveva avvicinato alle labbra un bicchiere di acqua fresca, ma ad un tratto lo allontanò dicendo: “Non ricordavo più il fioretto: ieri il sacerdote ha detto di non bere fuori pasto“.

Spesso, nel giardino della suore dove frequentava l’Asilo, Emma sospendeva il gioco, si portava davanti alla statua della Vergine Maria, sostava un poco e poi tornava a giocare con le compagne. Cosa andava a fare? A pregare, o forse ad offrire alla Madonna i fioretti che aveva imparato a fare e che contava su un’apposita coroncina regalatale dalle Figlie di san Paolo. Il più bel premio per lei era di poter andare nella chiesa di san Paolo. Emma, anche se ancora piccola, amava e apprezzava l’apostolato della stampa delle Figlie di san Paolo, tanto da desiderarlo per sé: – Quando sarò alta – diceva – mi farò Figlia di san Paolo.

Ai primi di dicembre del 1935, Emma accusò un forte mal di denti. Fu il principio di una serie di mali. La bim­ba soffriva, ma non si lamentava. Fu portata all’ospedale della città per una visita e invece si ritenne opportuno trattenerla. – Vuoi rimanere in ospedale, Emma? – le domandò la mamma.- Se volete che rimanga, sì...

E una grossa lacrima luccicò su quegli occhi azzurri. Alla bimba costava molto il distacco dai suoi familiari, ma l’offrì al signore insieme con gli altri dolori fisici. Era però contenta perché, come disseogni mattina poteva fare la Comunione“.

Il male progrediva ed Emma venne riportata in famiglia. Sentiva di dover lasciare presto questa terra, perciò amava più che altre volte la compagnia della mamma.

Mamma, parlami di Gesù, – chiedeva – non voglio sentire altro, ti prego. Sempre gentile con tutti, non permetteva a nessuno, oltre la mamma, di toccarla. Un giorno rimandò a più tardi, l’iniezione perché in camera c’era una persona estranea.

Tutti erano impressionati dalla serenità di questa bambina. Alcuni andavano a farle visita per il semplice gusto di sentirla parlare. Emma non negava mai il suo sorriso e la sua parola, ma se chi le si presentava non fosse stato vestito decentemente, non otteneva alcuna risposta. Così, una volta, davanti ad una persona distinta, ma truccata e scollacciata, non si riuscì a farle aprire bocca, nonostante che avesse parlato fino a quel momento, cosa che continuò a fare dopo che la signora si allontanò.

I giorni passavano lenti e le notti sembravano interminabili. Emma volle fare la sua confessione generale. – La mia anima è bianca come dopo il Battesimo – disse allora. Non temeva la morte e non voleva che altri si rattristassero per lei.

Non piangere, – diceva alla mamma – se muoio vado in Paradiso. Lassù pregherò tanto il Signore che mandi qualcuno a consolarti.

Presto andrò in Paradiso. – disse un giorno – Quando sarò morta mi metterai il vestito bianco della prima Comunione, le calze bianche, il velo ed anche i guanti… e mi scioglierai i capelli, come santa Agnese. Perché, Emma, non chiedi a Gesù di farti soffrire di meno? – domandò, per provarla, un sacerdotePotresti andare in Paradiso camminando sulla strada coperta di rose… No, no, padre. Io voglio andare in paradiso per la via piena di spine.

Un giorno, dopo la santa Comunione, Emma dice alla mamma che vuole lasciare questa terra. E dove vuoi andare? In Paradiso, sì, in Paradiso.

La notte del sabato 4 aprile, Emma dice di vedere Gesù, la Madonna, l’Angelo Custode, poi la sofferenza si fa ancora più atroce. Lei stessa invita a pregare, suggerisce giaculatorie, mentre ansima di dolore. Soffre e si contorce nel suo piccolo corpo martoriato. Ad un tratto si gira leggermente, allarga le braccia e dice:

Mamma, voglio darti l’ultimo bacio. Anche a te, papà, il mio ultimo bacio… soffro tanto… tanto. Vuole che la mamma, e solo lei, gli scaldi i piedi con le sue mani e, dopo, domanda: – Che ora è? – Sono le due e mezzo – risponde la mamma. – Troppo presto, è ancora troppo presto.

E continua a soffrire e a mormorare giaculatorie. Un segno delle labbra ormai esauste avvisa la mamma che le porge il Crocifisso. Emma, con un ultimo sforzo, stringe le labbra e lo bacia. Poi, con debolissima voce, chiama la mamma e il papà: – Ciao mamma, ciao papà! Gesù mio, misericordia! Cuore di Gesù, venga il tuo re…gnoL’ultima sillaba le muore sulle labbra. Lentamente china la testa sul braccio della mamma e non si muove più. Erano le tre del mattino della Domenica delle Palme. Emma era andata a cantare il suo “Osanna a Colui che viene nel nome del Signore”.

Autore: Maria Cecilia Calabresi

Fonte: Come fiori per Gesù su http://www.santiebeati.it/dettaglio/94376

 

Meditazioni sui Messaggi di Gesù a Suor Josefa Menendez

Meditazioni sui Messaggi di Gesù a Suor Josefa Menendez

Dalle parole di Gesù: Chiedo alle anime tre cose: RIPARAZIONE – AMORE – CONFIDENZA. […] Quando ti mando dei dolori non credere ch’io ti ami meno… Ho bisogno di medicine per curare le piaghe del mondo.

Suor Josefa Menendez, umile suora coadiutrice delle Religiose del Sacro Cuore, morì il 29.12.1923 all’età di 33 anni. I primi 15 anni dopo la morte sono trascorsi nel silenzio, ma i favori ottenuti per sua intercessione, appena fu reso noto il reale valore del “Messaggio” da lei ricevuto, hanno determinato l’Autorità Ecclesiastica a farlo conoscere a tutti.

I° GIORNO

Dalle parole di Gesù: “”Chiedo alle anime tre cose: RIPARAZIONE – AMORE – CONFIDENZA. Vengo a riposarmi in te, anima cara … Sono tanto poco amato dagli uomini…! Cerco sempre amore, e non trovo che ingratitudine!… Sono così poche le anime che mi amano veramente!… Io da te desidero che tu sia disposta a consolare il mio Cuore, quando te lo chiederò; perchè il conforto che mi dà un anima fedele compensa l’amarezza che mi cagionano tante anime fredde e indifferenti…

(Suor Josefa Menendez, Invito all’Amore)

Quanta malizia! Come si perdono le anime!… L’ostentazione di un’anima colpevole ferisce profondamente il mio Cuore, ma la tenerezza di un’anima fedele non solo ne rimargina le piaghe, ma arresta la giustizia del Padre mio! Quando ti mando dei dolori non credere ch’io ti ami meno… Ho bisogno di medicine per curare le piaghe del mondo. Io m’incarico di riparare per te; tu ripara per le anime. Oggi mi consolerai: entra molto addentro nel mio Amore. Presentati al Padre mio con tutti i meriti del tuo Sposo. Chiedigli perdono per tante anime ingrate. Digli che sei disposta, nella tua piccolezza a riparare le offese che riceve. Digli che sei una vittima molto misera, ma che ti presenti coperta del Sangue del mio Cuore. Così passerai il giorno, implorando perdono e riparando

II° GIORNO

Dalle parole di Gesù:

Santa Caterina beve il Sangue di Cristo opera di Francesco Vanni

Guarda le mie piaghe aperte sulla croce, per riscattare il mondo dalla morte eterna e per dargli la vita… sono esse che ottengono misericordia e perdono a tante anime che provocano la collera del Padre. Queste piaghe daranno d’ora in poi luce, forza, amore a tutte le anime. Questa piaga, quella del Cuore, è un vulcano divino dove vorrei che si accendessero le anime da me elette; tutte le grazie che il mio Cuore racchiude sono per esse, affinchè le spargano sul mondo, su tante anime che non sanno cercarle, ed anche su quelle che le disprezzano. Io darò loro luce necessaria perchè sappiano approfittare di tale tesoro e perchè non solo si facciano conoscere ed amare, ma anche perchè riparino le offese che io ricevo dai peccatori. Sì, il mondo mi offende… ma si salverà con la riparazione della anime a me consacrate. Ama, perchè l’amore è riparazione e la riparazione è amore.  Contempla il mio cuore… studialo, e da esso imparerai ad amare. Il vero amore è disinteressato, umile, generoso. Se tu dunque vuoi ch’io t’insegni ad amarmi incomincia a dimenticare te stessa; non contare i sacrifici, non guardare ciò che ti costano… non tener conto se è o non è di tuo gusto… ama ed avrai forza“.

III° GIORNO

Dalle parole di Gesù:

“Voglio che tu mi ami così: soavemente, sempre e in tutto, nel lavoro e nel riposo, nella preghiera e nella gioia, nel dolore e nell’umiliazione; sempre insomma, devi provarmi con le opere il tuo amore. Questo è amore! Se le anime lo capissero, quanto avanzerebbero nella perfezione! Quanto consolerebbero il mio Cuore! Dimmi che mi ami: è ciò che più mi consola, perchè sono affamato d’amore! Voglio che tu arda dal desiderio di vedermi amato e che il tuo cuore non si alimenti che di questo desiderio. Guarda il mio Cuore e la fiamma che lo consuma: è l’amore mio per le anime e specialmente per le anime prescelte. Ad esse il mio Cuore riserva un posto di preferenza… ma quante lo ignorano! Entra nel mio Cuore, gustane la dolcezza, inebriati della sua pace: lascia che il tuo cuore si accenda al contatto della fiamma divina… Partecipa alle mie pene, alla mia tristezza, alle mie ore di solitudine; tienimi compagnia. Amami per tante anime che mi abbandonano e mi disprezzano“.

IV° GIORNO

Dalle parole di Gesù:

L’amore rende tutto facile. L’anima che ama desidera soffrire; il patimento alimenta l’amore. L’amore e il patimento uniscono l’anima intimamente a Dio e la identificano con Lui. Molte anime mi ricevono bene quando le visito in tempo di consolazione. Molte mi ricevono con piacere nella Comunione. Ma poche sono quelle che mi fanno un accoglienza quando busso alla porta con la mia croce. L’anima che trovandosi stesa sulla croce ad essa si abbandona, mi glorifica, mi consola e mi sta vicino. E’ vero che molte anime non mi conoscono, però maggiore è il numero di quelle che, conoscendomi, mi abbandonano per seguire una vita di piacere… vi sono tante anime sensuali… tante che vogliono solo godere… perciò si perdono; perchè la mai vita è dolore e croce. Per questo cerco Amore; perchè solo l’Amore dà forza per seguirmi“.

V° GIORNO

Dalle parole di Gesù:

Santa Faustina Kowalska in adorazione al S.Cuore

Quando due persone si amano, la più piccola mancanza di delicatezza dell’una ferisce il cuore dell’altra. Così accade col mio Cuore. Se sei fedele ad osservare le delicatezze dell’amore, non mi lascerò vincere in generosità e inonderò di pace l’anima tua. Non ti lascerò sola; nella tua piccolezza sarai grande, perchè sarò io che vivrò in te. Il mio Cuore non può raffrenare il desiderio di darsi, di offrirsi, di rimanere sempre nelle anime. Attendo che m’aprano il loro cuore e in esso mi rinchiudano, affinchè il fuoco che divora il mio le conforti e le avvampi. Allora mi offro alle anime e sono per loro tutto ciò che esse vogliono che io sia. Se mi vogliono Padre, sarò Padre: se mi vogliono Sposo sarò tale; se hanno bisogno di forza le fortificherò, e se desiderano consolarmi, mi lascerò consolare. Il mio desiderio è di dare tutto me stesso alle anime e di spargere su di loro tutte le grazie che il mio Cuore ha per loro in serbo”.

VI° GIORNO

Dalle parole di Gesù:

Lascia che io mi dilati in te, perchè la mia grandezza farà sparire la tua piccolezza. Lavoreremo sempre uniti. Io vivrò in te e tu vivrai per le anime. Il mio Cuore farà tutto; la mia misericordia opererà, il mio Amore annienterò il tuo essere. Quanto più tu sparirai e tanto più io sarò la tua vita e tu un cielo di riposo per me. Parlami, perchè sto con te; non credere di essere sola perchè non mi vedi… Io ti vedo, ti odo… parlami, sorridimi, poichè sono il tuo compagno inseparabile. Mi piaci per la tua piccolezza. Non ti chiedo che due sole cose: amore e abbandono Voglio che tu sia come un recipiente vuoto, che io m’incaricherò di riempiere. In quanto a te non aver misura nell’amore… ama e lascia che il tuo Creatore si occupi della sua creatura. Se sei povera, io sono ricco; se sei debole, io sono la medesima forza. Solo ti chiedo di non negarmi nulla; ti difenderò… ti rialzerò… tu abbandonati, io farò tutto… Voglio che tutto, anche la più piccola cosa, tu me la offra per consolare il mio Cuore di tutto ciò che soffre, e specialmente da parte delle anime a me consacrate”.    

VII° GIORNO

Dalle parole di Gesù:

“Voglio che tu riposi senza paura nel mio Cuore. Guardalo bene e vedrai fino a che punto la sua fiamma è capace di consumare tutto ciò che hai in te di imperfetto. Voglio che tu ti abbandoni al mio Cuore e non ti occupi d’altro che di compiacermi. Ricordati che sono tuo Padre, tuo Salvatore e tuo Dio. Entra in questo Cuore che è un abisso d’amore e non temere. Non ti chiedo di meritare le grazie che ti faccio; voglio solo che tu le riceva. Lasciami operare in te. Ho lo sguardo fisso su di te; fissa il tuo in me. Non m’importa la tua nullità, e neppure le tue cadute… il mio Sangue cancella tutto… ti basti sapere che ti amo… tu abbandonati a me… L’anima che veramente si abbandona a me, mi riesce tanto gradita che nonostante le sue miserie e le sue imperfezioni, ne faccio il mio cielo e mi compiaccio d’abitare in essa. Se abbandoni tutto per me, tutto ritroverai nel mio Cuore.“.

VIII° GIORNO

Dalle parole di Gesù:

Ho bisogno di cuori che amino… di anime che riparino… e di vittime che si immolino… ma soprattutto di anime che a me si abbandonino. Lasciati condurre ad occhi chiusi, perchè io sono il Padre tuo e li tengo aperti per condurti e guidarti. Quando mi chiami Padre, attiri il mio sguardo di compiacenza e il mio Cuore si sente costretto ad aver cura di te. Non sai quanto gioiscano i genitori quando il bambino incomincia a parlare e pronunciare e il nome così tenero di “Padre”, all’udirlo gli aprono le braccia, lo stringono al cuore con immensa tenerezza e provano una gioia maggiore di tutti i piaceri del mondo per quanto dolci e soavi si presentino. Ora, se un padre e una madre della terra fanno così, che farà Colui che contemporaneamente è Padre, Madre, Creatore, Salvatore, Sposo? Qual cuore potrà eguagliare il mio nella tenerezza dell’amore? Si, anima cara, quando sei oppressa e angustiata, vieni, accorri a me, chiamami “Padre” e riposa nel mio Cuore! Se, durante il lavoro, non puoi prostrarti ai miei piedi come vorresti, ripeti questa parola: “Padre”, e io t’aiuterò, ti sosterrò, ti guiderò e ti consolerò“.

IX° GIORNO

Dalle parole di Gesù:

Guarda il mio Cuore: è il libro sul quale devi meditare. T’insegnerò tutte le virtù e specialmente lo zelo della mia gloria e della salvezza delle anime. Guarda bene il mio cuore. Esso è l’asilo dei miseri e quindi il tuo; perchè chi è più misero di te? Guarda il fondo del mio Cuore e vedrai che è il crogiolo dove si purificano i cuori più macchiati e dove poi s’infiammano d’amore. Vieni, avvicinati a questa fornace ardente, lascia le tue miserie e i tuoi peccati. Abbi fiducia e credi in me, che sono il tuo Salvatore. Guarda ancora il mio Cuore. Esso è fonte d’acqua viva. Tuffati in esso e bevi fino a saziare la tua sete. Desidero, voglio che tutte le anime vengano a questa sorgente e trovino in essa il loro refrigerio. Quanto a te ti ho collocata molto addentro nel mio Cuore, perchè, siccome sei piccola, da sola non avresti potuto venire. Approfittane, e bevi le grazie che ti do. Lascia che il mio amore lavori in te e continua a rimanere piccola. Sì, dici bene, che sono buono. Affinchè le anime lo comprendano è necessaria una cosa sola: unione e vita interiore. Quando le anime si uniscono a me, conoscono i miei sentimenti e sanno quanto sono offeso, mi consolano, riparano…. e, piene di fiducia nella mia bontà, chiedono perdono e ottengono grazie per il mondo. Tu mi ami perchè sono buono. Io ti amo, perchè sei piccola e perchè mi ha dato la tua piccolezza”.      

X° GIORNO

Dalle parole di Gesù:

I tuoi peccati io li cancello; le tue miserie io le consumo; la tua debolezza io la sostengo. Quanto più grande sarà la tua miseria, più ti sosterrà la mia potenza. Ti arricchirò dei miei doni. Se mi sei fedele farò della tua anima la mia dimora, dove io mi rifugerò quando le anime mi scacciano col peccato. Riposerò in te e tu vivrai in me. Se tu sei un abisso di miseria, io sono un abisso di Bontà e di Misericordia. Il mio Cuore è il tuo rifugio. Vieni a cercare in esso quanto ti occorre, ed anche quello che io stesso ti chiedo. Non guardare alla tua piccolezza, guarda alla potenza del mio Cuore. Non temere, sono la tua forza e il riparatore della tua miseria. Se sei nelle mie mani, che puoi temere? Non dubitare della bontà del mio Cuore, nè dell’amore che ti porto. La tua miseria mi attira... Che saresti senza di me? Non dimenticare che più sarai piccola e più ti starò vicino. Non ti affliggere esageratamente per le tue cadute; non mi manca nulla per fare di te una santa; ciò che io esigo è che tu non mi neghi nulla di quanto io ti chiedo... Ti cercherò nel tuo nulla per unirti a me. La tua piccolezza e la tua miseria sono calamita che attira il mio sguardo. Non ti scoraggiare, perchè nella tua fragilità risplende meglio la mia misericordia.”   

XI° GIORNO

Dalle parole di Gesù:

” Voglio imprigionarti nel mio Cuore, perchè ti amo infinitamente e, nonostante tutti i tuoi difetti e le tue miserie, mi servirò di te per far conoscere a molte anime la mia misericordia e il mio amore. Sono molte quelle che non conoscono ancora la bontà del mio Cuore. Il mio unico desiderio è che tutte queste anime s’immergano e quasi si smarriscano per sempre nell’abisso senza fondo del mio cuore. Sono il tuo Salvatore! Sono il tuo Sposo! Quando le anime capiscono poco il valore di questi due nomi!… Questa è l’opera che voglio compiere per mezzo tuo. Il più ardente sospiro del mio Cuore è la salvezza delle anime, e voglio che quelle che mi sono consacrate sappiano con quanta facilità possono darmi altre anime. Io farò loro conoscere il tesoro che spesso lasciano disperdere, perchè non approfondiscono questi due titoli di Salvatore e di Sposo. Il mio Cuore ti ama e non si stanca della tua piccolezza; essa è ciò che ha attirato su di te il mio sguardo, essa fa che io ti ami con ebbrezza divina, Sono il Sole divino che ti scopre la tua miseria. Quanto più la vedi grande, tanto più deve aumentare la tenerezza e l’amore tuo per me.

Se l’anima tua è terra difettosa, che non può dar frutto, io sono il giardiniere che la coltiva; manderò un raggio di sole che la purifichi, poi la mia mano seminerà. Il mio Cuore si consola perdonando… non ho desiderio maggiore, nè gioia più grande di questa: perdonare. E’ così grande il conforto che mi procura un’anima quando torna a me dopo una caduta, che questa quasi le torna di guadagno , perchè allora io la guardo con infinito amore. Poco m’importa la sua miseria, purchè suo unico desiderio sia il glorificarmi. Nonostante la sua pochezza quest’anima ottiene grazie per molte altre. Quando un’anima desidera ardentemente essere fedele, io la sostengo nella sua debolezza, e le sue cadute mettono maggiormente in opera la mia bontà e la mia misericordia. Solo chiedo che, dimenticando se stessa, riconosca la sua debolezza, sia umile e faccia ogni sforzo per cercare non la propria soddisfazione, ma la mia gloria. Non puoi capire quanto il mio Cuore goda nel perdonare gli errori e le cadute dovute a sola fragilità. Dunque non affannarti: ho fissato in te i miei sguardi perchè sei fragile e debole.

Fonte: Il libro delle novene ed. Ancilla

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SUOR JOSEFA MENENDEZ

 

MARC CHAGALL

MARC CHAGALL

Pittore (1887 – 1985) 28 marzo

Nel ventesimo secolo nessun artista ha dedicato tanta attenzione agli angeli quanto Marc Chagall. Egli racconta che un angelo gli apparve, a Pietroburgo, e ne descrive l’esperienza nelle sue memorie.

Moshe Zacharovix Sagal (questo il suo vero nome) nasce a Vitebsk (Bielorussia) nel 1887, da una modesta famiglia di cultura hassidico-ebraica, cioè appartenente al movimento mistico che privilegia il rapporto diretto con Dio e la meraviglia contemplativa per i benefici della vita terrena. Studiò a San Pietroburgo con Bakst che gli fece conoscere la pittura di Cèzanne, Gauguin e Van Gogh.

Nel 1910 recatosi a Parigi, si legò con gli intellettuali d’avanguardia ed incontrò Lenin e Lunacarskij che in seguito divenne ministro della cultura sovietica. Nel 1914 ritornò in Russia ed espose i suoi dipinti che riecheggiavano una mitica vita di villaggio e il rituale ebraico nelle mostre d’avanguardia. Nel 1917 aderì con entusiasmo alla rivoluzione e l’anno seguente fu nominato commissario di belle arti nella sua città natale dove fondò un’accademia invitandovi pittori costruttivisti e suprematisti che però finirono per prevaricarlo costringendolo a ritirarsi a Mosca dove fra il 1919 e il 1921 eseguì pitture murali e il sipario del Teatro d’Arte ebraico.

March Chagall con il suo grande amore Belle e la loro figlia
March Chagall con il suo grande amore Belle e la loro figlia

Tornato a Parigi nel 1922 dipinse nature morte con fiori e figure, eseguendo pure una serie di mirabili incisioni per la Bibbia. Nel 1933 alcune sue opere furono bruciate dai nazisti su ordine di Goebbels. In questo periodo prevale nella sua pittura il tema simbolico della crocifissione. Nel 1945 curò l’allestimento dell’uccello di fuoco di Stravinskij e due anni dopo terminò la caduta dell’Angelo che è un vero repertorio dei suoi temi pittorici prediletti. Rientrato dagli Stati Uniti si stabilì in Provenza dove si dedicò alla ceramica e alla scultura iniziando grandi opere monumentali integrate con lo spazio architettonico. Morì nel 1985 a Saint-Paul-de-Vence.

Pittore atipico, a suo modo slegato dalle impetuose correnti dell’epoca, Chagall è portavoce fino in fondo di una sua personale sensibilità interiore. In un momento storico in cui tutto doveva essere appartenenza, fortemente relazionata ad idee e movimenti (che fossero artistici, politici o culturali), egli riesce a rimanere ancorato alle realtà profonde dell’animo umano, legato fino alla fine al semplice mondo contadino dei villaggi ebrei dell’Europa dell’est, quel mondo che, ormai cancellato, annientato e spazzato via dalla criminale follia nazista, l’artista ci restituisce attraverso le sue tele.

[…] Nelle sue opere, pertanto, si accordano cultura ebraica e avanguardie internazionali. I temi del suo bagaglio simbolico, però, nascono dalla sua esperienza interiore, dal suo fantasticare che unisce pittura e poesia, mentre l’allungarsi delle figure, liberate dalla gravità newtoniana, e il rifiuto della prospettiva si ricollegano alla tradizione bizantina delle icone russe. Chagall, fin dalla sua prima giovinezza, ha avvertito una forte attrazione nei confronti delle Sacre Scritture: “Mi è sembrato e mi sembra tuttora – afferma, riferendosi alla Bibbia – che questa sia la principale fonte di poesia di tutti i tempi. Da allora, ho sempre cercato questo riflesso nella vita e nell’arte”.

Il discorso sull’opera religiosa di Chagall è alquanto complesso. Egli racconta che un angelo gli apparve, a Pietroburgo, e ne descrive l’esperienza nelle sue memorie. Questo episodio, fondamentale nella sua formazione poetica, è riprodotto, sulla traccia iconografica dell’Annunciazione, nella grande tela dell’Apparizione, dove egli si raffigura seduto al lavoro, con la testa girata per guardare ispirato verso un angelo, maestoso e quasi invisibile, che riempie la parte destra della composizione. L’angelo si fonde, in una raffigurazione quasi cubista, con il mondo fenomenale del pittore; il contorno del corpo è assorbito dalla grande nuvola, di cui la creatura e la stanza sembrano una parte. […]

Chagall doveva avere quest’immagine ben ancorata in testa, dipingendola come l’ha presente nella memoria, perché il lavoro preparatorio dell’opera non comporta nessun abbozzo per la parte destra del quadro riguardante lo spirito celeste. In un altro grande quadro, “La caduta dell’angelo”, al quale l’artista lavora per più di un ventennio, dal 1923 al 1947, un angelo rosso sta cadendo sulla terra dove gli uomini continuano a commettere i loro orrori indisturbati. […] “Il martirio di Gesù è il martirio del mio popolo in questi anni”, risponde a quanti accusarono di aver inserito simboli cristiani all’interno della sua opera. […]

Tra il 1935 e il 1956, Chagall realizza il ciclo del “Messaggio Biblico” raccolto nel moderno museo di Nizza: 17 grandi tele, 194 incisioni e guazzi che rappresentano scene della Genesi, l’Esodo e il Cantico dei Cantici, e poi sculture, mosaici, arazzi, una sala per concerti con grandi vetrate. L’artista avvicina la Bibbia con un atteggiamento molto poetico, vedendola come una grande storia, un racconto pieno di episodi stupefacenti, di figure mitiche e di eventi sovrannaturali.

Più che illustrare, come ha fatto Doré, egli reinventa il testo con il criterio della sua fantasia e sceglie le figure e gli episodi sulla base delle emozioni che sono in grado di trasmettergli. Egli scriveva: “La Bibbia è come una risonanza della natura e io ho cercato di trasmettere questo segreto. Questi quadri, nel mio pensiero, non rappresentano il sogno di un solo popolo, ma quello dell’umanità”. […] Ogni opera del ciclo è organizzata intorno all’incontro fra un uomo profeta, patriarca Dio e trasmette il messaggio che sta alla base dell’opera di Chagall: “Ho voluto lasciare in questa casa i miei dipinti perché gli uomini vi possano cercare e trovare una certa pace, una certa spiritualità, un senso della vita…”.

[…] Le opere del “Messaggio Biblico” sono state donate dall’artista alla Francia con questa dedica: “Ho voluto dipingere il sogno di pace dell’umanità…Forse in questa casa verranno giovani e meno giovani a cercare un ideale di fraternità e d’amore come i miei colori l’hanno sognato. Forse non ci saranno più nemici… e tutti, qualunque sia la loro religione, potranno venire qui e parlare di questo sogno, lontano dalla malvagità e dalla violenza. Sarà possibile questo? Credo di si, tutto è possibile se si comincia dall’amore”.

Lavorare è pregare” affermava Chagall. E dalla preghiera emergevano meravigliose immagini di un sogno tutto spirituale.

Autore: Don Marcello Stanzione

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/95443

 

 

Lia Varesio

LIA VARESIO

Volontaria laica (1945-2008) 11 marzo

Conosciuta come l’ “Angelo dei barboni” a cui ha dedicato la vita, alla fine degli anni Settanta aveva iniziato ad assistere i senza fissa dimora e proprio dopo la morte nel 1980 di uno di essi, Bartolomeo C., aveva fondato l’associazione con il suo nome che continua ad aiutare barboni, scappati di casa, dimessi da ospedali psichiatrici, tossicodipendenti, ex carcerati e altri.

Lia Varesio nasce a Torino nel 1945 da una famiglia di forti tradizioni cattoliche. Il padre, allora presidente della San Vincenzo de’ Paoli, la coinvolge ancora bambina nelle attività di aiuto ai più bisognosi. Di quei momenti d’infanzia Lia mantiene un ricordo vivissimo:

Ricordo che nella nostra cucina mia madre aveva una macchina da cucire che usava tutto il giorno per fare rudimentali sacchetti di stoffa. Quando mio padre tornava a casa, portava spesso con sé enormi sacchi di riso, che venivano divisi in tanti sacchetti più piccoli da portare alle famiglie bisognose nelle soffitte. Ricordo una sera in cui siamo andati a portare il riso in una famiglia in cui c’era una marea di bambini. Un bimbo piccolissimo dormiva in un cassetto del guardaroba; mio padre aveva posato il suo cappello su una specie di mobile. Quando e’ stata l’ora di uscire non l’abbiamo più trovato. Il papà dei bambini ha chiesto: «Chi ha preso il cappello al signore?». Si è fatto avanti uno e ha detto: «L’ho preso io perché tu non ce l’hai!». Mio padre lasciò il cappello in quella soffitta”.

Durante la giovinezza la sua attenzione agli altri viene esercitata in parrocchia, dove dà una mano alla mensa per i poveri, segue gli ammalati e gli anziani, collabora con una missione di Capoverde. Nel frattempo trova lavoro in Fiat, come impiegata, nell’assistenza sociale: si occupa dei poveri che scrivono alla Fondazione Agnelli, cercando di rispondere al meglio alle loro richieste.

È proprio una mattina andando al lavoro che accade un episodio capace di cambiarle la vita: “Mentre camminavo per strada mi sono imbattuta in una donna scalza, scarmigliata, con mani e piedi laccati di rosso, che urlava. Sono rimasta sconvolta, non tanto perché lei urlava ma perché la gente scappava via terrorizzata. Mi sono chiesta «Scappi anche tu?» e mi sono data la risposta. Mi sono avvicinata e le ho chiesto «Perché gridi cosi?». La risposta e’ stata «Grido al mondo la mia disperazione ma nessuno si ferma». La salutai: «Sono Lia»; mi disse che si chiamava Ester, era uscita dal manicomio e nessuno si era presa cura di lei; erano tre giorni che non mangiava. Vicino c’era un bar che conoscevo perché ci andavo ogni tanto, invece di andare al lavoro ho telefonato in Fiat e mi sono presa un giorno di ferie. Quando ci siamo sedute al tavolo del bar la donna ha cominciato a mangiare cornetti e cappuccini, intanto mi ha raccontato la sua storia. Era stata in manicomio, adesso era per strada, andava a mangiare al Cottolengo e dormiva alla stazione. Io l’accompagnai al Cottolengo e poi a Porta Nuova dove mi fece incontrare gli altri, i suoi amici, gli abitanti della stazione”.

Da quel giorno nasce ancora più forte in Lia il desiderio di conoscere queste persone, di parlare con loro, di capire, di aiutare. Ne parla al fratello e a un gruppo di amici e con loro prende l’abitudine di andare a trovare questa gente, portando bevande calde, cibo, coperte, all’inizio solo a Porta Nuova, poi anche nelle altre stazioni, infine le “ronde” in giro per la città. Una sera d’inverno del 1980 manca all’appello uno dei soliti, Bartolomeo, lo cercano nei posti consueti, non lo trovano. Decidono di andare a vedere nel centro storico, fra i ruderi di una vecchia casa. Non lo trovano neanche lì, stanno per andarsene quando Lia inciampa in un mucchio di stracci, quando si rialza si accorge che da quel mucchio di stracci spuntano un piede ed una gamba. E’ Bartolomeo, morto di freddo e di stenti nel cuore della città. Si fortifica quella sera la necessità di continuare il cammino intrapreso e viene così fondata dopo breve tempo l’associazione “Bartolomeo & C.”

In quegli anni sindaco della città è Diego Novelli. Lia lo convince ad accompagnarla nei suoi giri notturni, lui, conquistato da tanta determinazione, la chiama a lavorare in comune, all’ufficio dei senza fissa dimora. Dal 1986 al 1990 lavora anche nelle carceri di Corso Vittorio e delle Vallette come assistente volontaria penitenziaria. In quegli anni frequenta la Scuola di Cultura religiosa diocesana, è anche componente della Commissione diocesana per la sanità e l’assistenza. “Sono laica, ma credente, il mio impegno è un atto di fede in Dio in favore degli uomini”.

Nel 1994 va in pensione e inizia a dedicarsi a tempo pieno alle attività della Bartolomeo & C. Negli anni viene aperto un dormitorio, la sede si allarga, il numero degli utenti cresce. Così come cresce anche la fama di Lia. Nel 1994 le viene assegnato il “Lion d’oro” dai Lions Club di Torino «per l’attività di soccorso materiale e spirituale che da 14 anni sviluppa in Torino, operando per le strade a favore di un’umanità emarginata, porgendo a barboni, alcolisti, tossicodipendenti l’ultima speranza per riemergere da una vita disperata», nel 1996 il “Premio Bruno Caccia” del Rotary International «per la dedizione dimostrata con pluriennale opera, faticosa e pericolosa, di assistenza verso barboni, tossicodipendenti, alcolisti, malati psichici ed emarginati in genere», il 1997 è l’anno del “Premio Bogianen” del Centro Congressi della Camera di commercio «per la generosità e l’entusiasmo ampiamente manifestati nel realizzare interventi di sostegno per particolari categorie di persone in difficoltà», fino all’onorificenza più prestigiosa, quella di Cavaliere della Repubblica Italiana, conferitale nel 2005 dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi, per l’opera sociale di aiuto ai poveri.

Negli ultimi anni, nonostante i problemi di salute e i frequenti ricoveri, la sua attenzione resta sempre rivolta agli altri. Dei momenti passati in ospedale ricorda: “Soprattutto la sera, quando tutto era in silenzio, le mie emozioni erano tutte rivolte all’ascolto dei malati che telefonavano ai loro cari, a qualche persona amica…quanto bisogno di contatti umani! Si raccontavano, ed è proprio questo che a volte manca. Non siamo più capaci di raccontarci, abbiamo troppa fretta e non riusciamo a sentire i gemiti di chi soffre. Passiamo accanto alla gente e non ci accorgiamo di loro, dei loro bisogni. Devo dire che ho trovato tanta solidarietà attorno a me, ma ho scoperto anche tanta solitudine e disperazione. A volte è sufficiente una parola, un gesto, un sorriso e le persone possono guarire psicologicamente e uscire dal loro autismo. Ed è proprio questo che mi stimola ad andare avanti e continuare a lavorare per uomini e donne della città che non hanno ancora trovato spazio, cure, dignità, attenzione, giustizia e solidarietà”.

L’undici marzo 2008, circondata dall’affetto del fratello e degli amici, Lia muore, all’Ospedale Mauriziano, mentre risuonano nelle orecchie di tutti le parole che tante volte aveva pronunciato: “Non dobbiamo fare da spettatori ma chiederci cosa stiamo facendo concretamente per gli altri. Se il nostro fratello non ce la fa da solo a portare la croce noi abbiamo il dovere di aiutarlo. E’ ora di smetterla di essere spettatori. Occorre diventare protagonisti attraverso il nostro impegno concreto e quotidiano”.

Fonti: www.liavaresio.it, http://www.santiebeati.it/dettaglio/94020

 

 

 

QUARESIMA

QUARESIMA

La Quaresima è un periodo di 40 giorni di preparazione alla Pasqua, tale periodo ha una ricchissima storia nella liturgia. In un primo momento costituiva il tempo della definitiva preparazione dei candidati al Battesimo (catecumeni), amministrato la Vigilia di Pasqua.

I riti legati a questa preparazione venivano chiamati «scrutini»; alla preparazione dei catecumeni , prendeva parte la comunità dei credenti e, in questa maniera, la preparazione al Battesimo degli uni diventava per gli altri l’occasione per meditare sul proprio battesimo.

Il periodo di preparazione di quaranta giorni era un periodo di penitenza, che, col tempo, fu ridotta principalmente al digiuno. Completavano il digiuno, la preghiera e l’elemosina.

Come ci si preparava allora?
  • Non si celebravano matrimoni
  • Non si consumava carne il venerdì
  • Non si organizzava nessuna festa pubblica
  • Ci si impegnava a pregare più intensamente
  • Ci si dedicava amaggiormente alla carità per i poveri
  • Non ci si concedeva alcuna distrazione che distogliesse dall’ascolto della parola di Dio
L’idea di fare penitenza

Un giorno i discepoli di Giovanni s’avvicinarono a Gesù e gli dissero:

Per qual motivo, mentre noi e i Farisei digiuniamo spesso, i tuoi discepoli non digiunano? E Gesù rispose loro: Com’è possibile che gli amici dello sposo possano fare lutto finché lo sposo è con loro? Verranno poi i giorni in cui lo sposo sarà loro tolto, ed allora digiuneranno” (Mt. 9, 14-15).

I primi cristiani si ricordarono di quelle parole di Gesù, e cominciarono molto presto a passare nel digiuno assoluto i tre giorni del mistero della Redenzione, cioè dal Giovedì Santo al mattino di Pasqua.

Fin dal II e III secolo abbiamo la prova che in parecchie Chiese si digiunava il Venerdì e il Sabato Santo. S. Ireneo, nella Lettera al Papa S. Vittore, afferma che molte Chiese d’Oriente facevano la stessa cosa durante l’intera Settimana Santa. Il digiuno pasquale si estese poi nel IV secolo, fino a che la preparazione alla festa di Pasqua, attraverso un periodo che divenne sempre più lungo fino a durare quaranta giorni, cioè Quadragesima o Quaresima.

Perchè i giorni sono quaranta?

Alcuni numeri, nella Bibbia, acquistano un significato per gli avvenimenti del popolo di Dio ai quali sono connessi. Per questo diventano dei “segni”, e sono a loro volta veicoli di particolari messaggi.

  • Genesi 7,12 : Nel racconto del diluvio universale la Genesi dice: Cadde la pioggia sulla terra per 40 giorni e 40 notti.
  • Esodo 24,18: Quando Il Signore stabilì l’Alleanza con il popolo di Israele sul monte Sinai la Bibbia dice: Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte 40 giorni e 40 notti.
  • Numeri 14,33: Il viaggio di 40 anni nel deserto del popolo ebreo: I vostri figli saranno nomadi nel deserto per 40 anni e porteranno il peso delle vostre infedeltà, finché i vostri cadaveri siano tutti quanti nel deserto.
  • 1 Samuele 17,16: Golia sfida per 40 giorni gli Israeliti fino all’arrivo di Davide: Il Filisteo avanzava mattina e sera; continuò per 40 giorni a presentarsi.
  • 1 Re 19,8: Elia proseguì nel deserto per 40 giorni con la forza del pane dato da Dio: Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per 40 giorni e 40 notti fino al monte di Dio, l’Oreb.
  • Matteo 4,1-11: Gesù trascorse quaranta giorni nel deserto, digiunando, pregando, e resistendo alle tentazioni: Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato 40 giorni e 40 notti, ebbe fame.

Il numero 40 nella Bibbia misura un periodo di tempo durante il quale il popolo ebreo o un rappresentante del popolo ebreo viene messo alla prova (la tentazione). Questa prova da una parte saggia la sua fede dall’altra manifesta che solo in Dio vi è salvezza.

La Chiesa ci chiede di vivere la Quaresima dedicando particolare attenzione queste cose:

  • Austerità e vigilanza
  • Ascolto e preghiera
  • Digiuno e conversione
  • Memoria del Battesimo
  • Carità e condivisione
In Chiesa

I paramenti del sacerdote sono di colore viola, il colore della penitenza. L’altare è senza decorazioni floreali. Durante la Messa non si canta il Gloria, né l’Alleluja.

La Quaresima oggi

La Quaresima inizia il mercoledì detto “delle Ceneri”, giorno in cui ci rechiamo in chiesa e accettando l’imposizione delle ceneri, riconosciamo di essere peccatori: è questa una tacita confessione.

Il sacerdote mettendoci un po’ di cenere sulla testa dice:Ricordati che polvere sei e in polvere ritornerai“. In pratica, riconoscendo la nostra condizione di peccatori, noi accettiamo anche il nostro castigo: la morte temporale.

Intanto, siccome Dio “non vuole la morte del peccatore”, dobbiamo confidare nella sua misericordia per salvarci dalla morte eterna, e prendere all’inizio della Quaresima, la risoluzione di lottare contro il peccato. La Quaresima termina la sera del Giovedì Santo prima della Messa “In coena Domini”.

Il Tempo di Quaresima è segnato anzitutto
  • dal ricordo dei quaranta giorni di Gesù nel deserto,
  • dalla sua lotta con il demonio,
  • dalla sua vittoria sul tentatore.

Nel deserto Gesù viene nutrito della Parola di Dio, e così supera ogni suggestione diabolica, scegliendo decisamente il cammino segnatogli dal Padre: la redenzione mediante l’umiltà della croce. Durante questo tempo, attraverso un ascolto più attento e volonteroso, dobbiamo accostarci anche noi alla Parola di Dio, per attingervi la forza di metterci in cammino sulla strada di Gesù Cristo.

FONTE: La voce cristiana

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MARISA MORINI

MARISA MORINI

Martire della purezza (1951-1964) 1 marzo

Adolescente della Diocesi di Ferrara e Comacchio. I Giornali alla sua morte scrissero di lei: “è martire… è santa… un’altra Maria Goretti”. Non è però ancora stata avviata la causa di canonizzazione.

I Giornali han detto di Lei: “è Martire… è Santa… un’altra Maria Goretti” L’Osservatore Romano il 15 marzo nel 1964 ha raccontato: nata in una famiglia numerosa era la penultima degli otto fratelli e sorelle.

I genitori coltivavano un terreno nella bassa ferrarese, a Fossanova S. Biagio, una frazione a 8 Km. da Ferrara. La Cascina dove abitavano era distante mezzo chilometro dal Centro della piccola borgata. La fanciulla, ormai tredicenne, aveva fatto la prima comunione da due anni e frequentava l’ultima classe delle elementari; vivace ed intelligente, tanto che la maestra consigliò la mamma a farle continuare gli studi.

Cosa che fu giudicata impossibile per mancanza di mezzi. A 13 anni Marisa Morini dimostrava più della sua età. Si era sviluppata precocemente, ma non aveva grilli per la testa. La sua famiglia era numerosa e soprattutto povera: il mestiere di salariato agricolo che facevano suo padre e i suoi fratelli bastava appena a comprare il pane tutti i giorni e il vino la domenica. Una vita magra ma Marisa non si lamentava, aiutava volentieri la mamma nel faticosissimo lavoro di accudire alle necessità di tanti uomini.

Era brava e buona e cantava sempre. Questo amore per il canto affiora proprio l’ultima sera della sua vita, domenica 1 marzo 1964.

Nel pomeriggio la TV trasmetteva lo “zecchino d’oro”. Una vera attrattiva per la fanciulla. Ma a casa non avevano la televisione, ma c’era nel Bar della borgata a mezzo chilometro da casa. La mamma, anche con apprensione, le concedeva il permesso, d’altronde la fanciulla tante volte aveva fatto quella strada. Si può immaginare quanta gioia abbia provato Marisa nel sentire cantare tutti quei Bambini, come faceva lei in casa e a scuola.

Alle 18,30 la trasmissione era fìnita. E lei svelta, riprende la sua bicicletta, appoggiata li fuori e via verso casa. Sarebbero bastati pochi minuti, invece a casa non arrivava mai.

Passano le ore ma inutilmente, nonostante che tutti anche i carabinieri, avvertiti dal padre, si siano messi alla sua ricerca. Soltanto sul far del giorno, il fratello Mario s’imbatte nelle scarpe della sorella e nella bicicletta, là per terra. Chiama il carabiniere più vicino e insieme scoprono il mucchio di rami e di fascine là davanti. Il corpo della fanciulla, orrendamente massacrato al volto e piagate le mani, era lì sotto. Che era successo? Lo racconta l’assassino reo confesso. L’aveva vista al bar quando usciva; l’aveva rincorsa con la bicicletta, urtata e gettata a terra, tentando di violentarla. Marisa cominciò a gridare, a divincolarsi, a sferrare calci.

Egli cercò inutilmente di immobilizzarla afferandola per i polsi. Ma essa continuò a urlare e sforare calci; perdette le scarpe. Per farla smettere le affondò la testa nel fango, ma inutilmente, allora la trascinò giù dall’argine… e l’assassino inferocito, trovò un grosso bastone e lo batte con tutta la forza sul viso della fanciulla fracassandolo orribilmente e causandole la morte. Compiuto il delitto, l’omicida nascose il corpo della martire sotto quel mucchio di frasche.

La fortezza della fanciulla aveva vinto. La perizia necoscropica ha accertato che Marisa ha salvato la sua purezza.È morta come una Santa“, dicono gli abitanti della campagna ferrarese . E una scritta a lettere d’oro, sulla porta della Cappella dell’ospedale di Ferrara, dove era esposto il corpo della fanciulla in attesa del rito funebre, diceva: “S. Maria Goretti, protettrice dell’innocenza, accogli Marisa che ha sopportato il tuo stesso martirio”.

Marisa Morini, un’altra Maria Goretti! Un Fiore candido, imporporato di sangue,nel tempo dell’ateismo e della “noia” Ecco le pagine di grandezza, delle umili vite, ed ecco la testimonianza perenne del costume morale cristiano anche nell’epoca dello scetticismo e del nichilismo morale.

Fonti: www.santamariagoretti.it; http://www.santiebeati.it/dettaglio/93603

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Laura Rossi

Laura Rossi

Adolescente ( 1950 – 1962) 28 febbraio

Una bambina di 11 anni che chiede a Dio 1 anno di sofferenze per la Chiesa, per i missionari e per il ritorno dei Cristiani separati dalla Chiesa Cattolica. La sua richiesta verrà esaudita e suo fratello Orazio divenne sacerdote e missionario.

Una bambina dolce e gentile, di singolare coraggio… Vive la fede in semplicità nella sua famiglia. A 11 anni, compie uno speciale patto con Dio. Patto accettato.

Lui, Giuseppe Rossi, giovane mite e sereno, che ha sofferto molto per la guerra e la prigione in Africa, di professione muratore; lei, Luigina Manzoni, tutta buon senso, fiducia in Dio e carità. Si sono sposati e hanno dato vita alla loro famiglia a Pedrengo (Bergamo) in un ambiente semplice e ricco di fede. Il 1° marzo 1950, nasce una bambina minuta, che al bat­tesimo chiamano Laura.

Per molto tempo la piccola ha bisogno di cure, poi trova le sue energie per partire per la vita, ma rimane sempre delicata di salute. A tre anni, comincia a fre­quentare la scuola materna del paese, tenuta dalle Suore dell’Istituto Palazzolo. Suor Miralisa che sarà poi la sua confidente, la ricorda così: “Anche se qual­che bambino le faceva un dispetto, Laura cedeva subi­to; gli andava vicino, gli parlava, anche se era stata offesa: convinta, non perché avesse paura“. Dai genito­ri, dalle suore, dal parroco, don Casari, riceve una buona educazione cristiana.

Alla scuola elementare, tutti i bambini e le bam­bine diventano suoi amici. Laura si trova bene con lo­ro e con la maestra e impara in fretta, dimostrando presto una sua maturità ben oltre gli anni verdi e te­neri che ha… A otto anni, la prima Comunione: una grande festa “perché oggi è venuto da me Gesù in persona“. Intanto in casa, sono nati Maria-Rosa, Ester e infine anche un fratellino, Orazio, che ella sembra voler prendere sotto la sua protezione.

A Pedrengo è assai viva l’Azione Cattolica con le diverse sezioni per età e categorie. Laura vi entra co­me “beniamina” – come si dice – tra le più piccole, continua come “aspirante” frequentando assiduamen­te gli incontri formativi, in cui impara a conoscere Gesù, Uomo-Dio, il Salvatore, l’Amico, Colui che rende bella, grande e santa la vita, e ci porta in Paradiso. Sa dove e come incontrarlo – nei Sacramenti e nella preghiera – e prende a confessarsi molto spes­so e a andare alla Messa ogni mattina, insieme al nu­meroso gruppo di persone che ci vanno quotidiana­mente. Cerca di non mancare mai, anche se deve al­zarsi prestissimo, poi va a scuola, lieta con il sorriso in volto, anche quando la salute non risponde troppo. Si affida alla Madonna, con le sue gioie e con le sue difficoltà. Si ricorda sempre di pregare per il Papa Pio XII, poi Giovanni XXIII, bergamasco come lei.

La mamma, quando ha bisogno di aiuto, si rivol­ge a Maria-Rosa, che è più robusta, ma Laura vuole fare la sua parte a tutti i costi, collaborando con i ge­nitori, in casa, nell’orto, a far la spesa, a curare galli­ne e conigli… Molto diligente a scuola, al pomeriggio, appena può, ritorna all’asilo dalle suore, per imparare a cucire, a ricamare, attirata soprattutto da suor Miralisa, che intesse tra lei e Gesù un singolare rap­porto d’amore.

Lì, inoltre c’è la possibilità di giocare, di chiac­chierare con le amiche, di apprendere un mondo di co­se interessanti e utili per la vita. Le suore tengono le loro alunne attente alla vita della Chiesa e del mondo e le invitano a pregare per molte intenzioni. Laura sgrana ogni giorno alcune decine del Rosario alla Madonna.

Vuol bene a tutte ed è riamata. Il colloquio fre­quente con il parroco in confessione o fuori, la Comunione che diventa quotidiana, la rendono davve­ro “un tesoro” di bambina. Nel 1961 finisce le ele­mentari. Sottovoce, più volte, ha confidato a suor Miralisa: “Io… mi farò suora… Sarò missionaria“. Per il momento, viene iscritta all’Avviamento profes­sionale di Bergamo. Poi, si vedrà.

Il 2 giugno 1961, mentre aiuta i suoi a caricare della legna, sente un forte dolore alla spalla. La mam­ma la mette a letto, affinché riposi tranquilla. Appena è sola nella stanzetta, Laura si alza, si inginocchia sul pavimento e dice al Signore Gesù, come se fosse la cosa più naturale del mondo: “Fammi ammalare per un anno, poi, se vuoi, fammi guarire o morire, sia fatta la tua volontà. Offro le sofferenza di questo anno per la Chiesa, per il ri­torno dei cristiani separati alla Chiesa Cattolica, per i missionari “.

Si rimette a letto e, fino ad addormentarsi, prega, prega… Ha soltanto undici anni, ma già sa che la Chiesa vive un momento particolare, che può essere carico di speranze, ma denso di difficoltà. Dei mis­sionari, Laura è affascinata perché ha uno zio missio­nario. Le sembra quindi naturale la sua “offerta”, che nessuno, per il momento, viene a sapere: solo Gesù deve saperlo.

Le prime cure le danno qualche sollievo, ma “il male” resta. In ottobre inizia a frequentare la nuova scuola e le sue amiche, vedendo che fatica a portare la cartella, si offrono per aiutarla. È evidente che soffre, anche se vuole nasconderlo più che può.

Ricoverata in clinica a Bergamo, la diagnosi è “fibroma ascellare” per cui occorrerà un intervento. Laura scrive allo zio missionario: “Sopporterò volen­tieri l’operazione secondo le tue intenzioni e per i tan­ti sacrifici dei missionari, per quelli che sono separa­ti dalla Chiesa Cattolica, affinché possano un giorno ritornare ad essa“.

Fatto l’intervento, tutto sembra risolto, ma il 6 di­cembre 1961, dev’essere di nuovo ricoverata al “Bolognini” di Seriate: è tumore maligno che ormai si espande verso il braccio e al torace e non si può più operare tanto è diffuso. Accetta, serena, di restare, per 40 giorni in ospedale. Non vuole calmanti, nonostan­te i dolori atroci. Non si ribella, non piange. Se ha vo­glia di gridare, morde nel lenzuolo e raddoppia le pre­ghiere. Non vuole essere coccolata né ammirata.

Come Gesù in croce, soffre e basta. Il primario è meravigliato di questa bambina che gli appare straordi­naria. Ella offre le sue sofferenze a Dio e prega, fedele al patto stretto con Gesù, il 2 giugno precedente. Però ogni giorno, vuole la Comunione. “Mangia, Laura” – le raccomanda la mamma. Risponde: “Prima voglio rice­vere Gesù. Quando faccio la Comunione, Lui mi dà tan­ta forza e io mi sento sazia per tutta la giornata“.

Un giorno, la suora infermiera le dice: “Qui in ospedale c’è un uomo ormai morente che non vuole ricevere i Sacramenti, è lontano da Dio. Offri tu per lui“. Durante la notte i dolori di Laura sono laceranti, ma all’indomani, quello si confessa, riceve la Comunione, muore in pace con Dio. Gli altri infermi spesso si radunano attorno al letto di Laura a trovare consolazione, a pregare con lei.

Il 16 gennaio 1962, Laura torna a casa: non c’è più nulla da fare. Il suo letto diventa un altare. Vengono in molti a chiederle di pregare. Il vice-par­roco don Locatelli, le affida i giovani che sta per ra­dunare in “ritiro”. Quando torna a dirle “com’è anda­ta”, dichiara: “Laura, da anni, quelli non venivano più a Messa, adesso sono venuti in tantissimi, si sono con­fessati, hanno ricevuto Gesù… Grazie, Laura!“.

A suor Miralisa, ella confida: “Lascio andare a letto i miei genitori, poi mi alzo e mi inginocchio ac­canto al mio lettino, anche quando ho tanto male, e prego…“. “Per chi?“. “Per tutti“. Sovente, incredibile a dirsi, ma vero, parte delle sue notti le passa così. Quando la medesima suora vorrebbe farle le iniezioni di calmante, Laura rifiuta: “Non devo portare solo la mia anima in Paradiso, devo portarne tante di più“. A chi le manifesta le proprie necessità, Laura risponde che intercederà presso Dio: le grazie avvengono anche nei casi più disperati.

Scrive al Papa Giovanni XXIII per raccontargli la sua offerta per la Chiesa… Il Papa le risponde: “Ho co­nosciuto la tua pietà e bontà. Prego per te. Ti benedi­co con i tuoi cari“. Verso la fine di febbraio 1962, Laura apre il cuore a suor Miralisa: “Quando ho sen­tito per la prima volta il dolore al braccio, ho offerto la mia vita per la Chiesa… È un segreto, il mio segre­to. Non lo dica alla mamma“. Ma all’indomani, alla mamma che le è vicino, ella stessa rivela il segreto.

La mamma le dice: “Abbiamo fatto tutto per te… Ora andrai a trovare i nonni, lo zio, in Paradiso“. Senza affannarsi, Laura risponde: “Allora, se devo morire, lasciatemi sola con Dio, perchè devo racco­mandargli la mia anima“. Serena e forte, riceve l’Unzione degli infermi e lo comunica al papà con gioia: “Ora sto bene, sono così forte che posso anda­re anche a comprarti le sigarette  “.

Si fa dare il suo Crocifisso, lo stringe tra le mani, si copre il volto con il lenzuolo e fa la sua ultima of­ferta. Alla suora sua confidente, raccomanda: “Dica ai miei genitori di non piangere per me. Vado in Paradiso“. Ai suoi cari: “Pregherà molto per voi, so­prattutto per Orazio“. “Voglio essere vestita con l’a­bito bianco della mia prima Comunione. Grazie, mamma, perché me lo hai già fatto allungare “.

È il 28 febbraio 1962: al mattino sta assai male, ma rassicura tutti: “Non muoio adesso. Sarà per sta­sera alle sette. Portatemi nel letto grande della mam­ma“. Non vuole che nessuno le parli, che tutti i pre­senti veglino e preghino con lei: è Gesù che viene a prendere la sua piccola amica. Quando dal campanile suonano le sette, mentre il cielo si gremisce di stelle e attorno c’è una grande pace, Laura alza il capo, si fa sorridente, fissa un punto preciso davanti a sé ed esclama:Che bella strada luminosa!“. E ancora: “Che bello, che bello! “.

Che cosa vedi Laura?“- le domanda suor Miralisa. Il suo volto si distende nella pace: vede Dio, la Luce, la Bellezza eterna, venirle incontro, il suo Paradiso per sempre.

Dodici anni appena, offerti in olocausto per la Chiesa, per i missionari. Il fratello minore, Orazio, a suo tempo, diventerà prete e missionario. Altri giova­ni e ragazze di Pedrengo si consacreranno a Dio… Se nella Chiesa, domani sboccerà una nuova primavera, più che degli intelligenti e dei loquaci, sarà il frutto di piccole sante creature così, simili al Crocifisso, dal Quale soltanto discende la redenzione del mondo.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/93912

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IL PARADISO PER DAVVERO

 

Gilles Bouhours

Gilles Bouhours

Fanciullo, veggente (1944 – 1960) 26 febbraio

Gilles Bouhours non aveva ancora tre anni quando la Madonna gli apparve per la prima volta. Da questo incontro nacque tra Lei e lui un legame indissolubile di amore materno e filiale che durò per gli undici anni che seguirono.

Gilles è nato il 27 novembre 1944, festa della Medaglia Miracolosa in una famiglia del dipartimento di Mayenne. Cinque bambini sono nati dall’unione di Bouhours Gabriel, nato nel 1913, idraulico ferramenta, e Madeleine, nata nel 1911 a Cornilleau: Teresa (1937), Jean-Claude (1939), Gilles (1944), Marc (1947) e Michel (1951).

I genitori saranno costretti a spostarsi più volte a Bergerac (Dordogne, dove nacque Gilles) ad Arcachon, di Bouilhe-Preuil (Alti Pirenei) a Moissac (Tarn-et-Garonne) nel momento in cui alla madre di Gilles viene diagnosticata la poliomielite, in quanto le consigliano diversi trattamenti tra i quali bagni di sabbia calda. Dal 1953, la famiglia vive in Seilhan (Haute-Garonne), nella casa chiamata la “castagna”.

All’età di nove mesi, gli viene diagnosticata la meningite. I medici sono categorici: solo la preghiera può salvare il bambino.

Santa Teresa di Lisieux
Santa Teresa di Lisieux

Una suora dell’ordine delle Piccole sorelle dei poveri, grande amica di famiglia, chiede ai suoi genitori di mettere sotto il cuscino di Gilles due immagini, una di Santa Teresa del Bambino Gesù, accompagnato da una piccola reliquia (un pezzo di stoffa bianco) e padre Daniel Brottier (1876-1936), dei Santi Padri dello Spirito, un ex missionario in Africa e direttore degli orfani Apprendisti di Auteuil a Parigi.

Per tre notti non si ebbe alcun miglioramento e la quarta i genitori stavano sonnecchiando quando il respiro di Gilles sembrò normalizzarsi. La febbre era diminuita senza alcuna spiegazione e persino il pallore era svanito lasciando spazio ad sano rossore sulle guance.

Un particolare però attira l’attenzione dei genitori: mentre l’immagine del missionario era rimasta intatta, quella di Santa Teresina si era sgretolata, mentre la reliquia risultava ora libera dal suo involucro rosso che era letteralmente scomparso. Come ringraziamento decidono di andare in pellegrinaggio a Lisieux.”

Il 30 settembre 1947 la famiglia si trova a Bouhours Arcachon. Gilles ha due anni e dieci mesi, ed è un bambino apparentemente come tutti gli altri, eppure per la prima volta ebbe l’apparizione della Vergine Maria, nella quale gli chiede di andare ad Espis dove altri l’avevano vista. Il padre fa ricerche e trova questa località nei pressi di Moissac e decide di portarvi subito Gilles.

In effetti il 22 agosto 1946, Claudine e Nadine Combalbert mentre accudivano le oche nel bosco vicino ad Espis, avevano visto comparire all’improvviso una “signora vestita di nero” con un “abito con le margherite”. Il giorno successivo, anche un’altro bambino dice di averla vista. Mentre dal 31 agosto, un uomo sulla quarantina sosterrà anch’egli di avere visioni della Vergine: “Io sono l’Immacolata Concezione.

Iniziano i pellegrinaggi anche se il vescovo locale non crede alle apparizioni definendole illusioni. Il 4 maggio 1947, il prelato pubblica un ufficiale giudizio negativo, ed emette un provvedimento di sospensione a divinis per qualsiasi prete si rechi a Espis. Con il cambio del vescovo viene istituita una commissione d’inchiesta il 1 ° febbraio 1950 nella quale si definiscono le presunte apparizioni come allucinazioni.

Gabriel Bouhours, una volta raggiunto Espis, cominciò a fare domande per capire se le parole di suo figlio erano esatte e ne ebbe conferma la sera del 30 settembre 1947, quando tutti i bambini Gilles compreso, videro la Santa Vergine nelle sembianze della Madonna di Lourdes nel giardino di casa. “La Beata Vergine è in acqua. Taglia l’acqua con un bastone. Vedo due bastoni in aria.

Egli descrive Maria con un “tetto” a significare che Lei indossa un velo sul capo. Alla domanda sul significato dei “bastoni”: “Questo è il bastone”, ha ribattuto con il suo vocabolario di bambino, cercando di spiegare che in realtà si trattava di una croce! Poi si passa a descrivere un terribile “fumo giallo” che alzandosi nel cielo fa piangere la Vergine. E nella sua estrema semplicità Le offre il suo fazzolettino.

La freschezza e la semplicità dei dialoghi sono toccanti per tutti coloro che assistono alle apparizioni. In una di queste la Santa Vergine promette una fonte e chiede di pregare una decina del rosario per il Sacro Cuore.

In dicembre, vede una “grande croce” nel cielo e due giorni più tardi anche Santa Teresa di Lisieux gli appare mentre getta i suoi fiori. Seguirà un pellegrinaggio da parte di tutta la famiglia Bouhours a Lourdes. Il piccolo Gilles afferma che la sua Madonna è più bella di come appare nelle rappresentazioni a Lourdes e quando la Vergine gli appare versa lacrime di sangue e due giorni dopo lo bacia.  

Visto il parere contrario delle autorità su Espis la famiglia decide di rimanerne lontana, ma le apparizioni continuano anche nella loro casa, nella sua stanza e nel giardino. Egli descriverà una pioggia di croci.

Il 24 giugno 1949 , riferisce ai suoi genitori con singolare semplicità: “La Santa Vergine verrà a vedermi in giardino dopo la Domenica. Non oggi, non ha tempo!”  – Che cosa deve fare? –  Non la minestra, naturalmente! Lei mette fiori nel cielo. “

Con altrettanta semplicità il 13 ottobre, “rivela” la “lotta” condotta da Michele per il bene delle anime, descrivendo il male come una specie di lucertolone e l’acangelo come un uomo con le ali.

Il 13 dicembre, Maria affida un “segreto” a Gilles per il Papa.  Il 12 giugno fa la sua prima comunione in un clima di semplicità e di interiorità spirituale. Durante l’estate, Gilles continua a mietere apparizioni e locuzioni il 13 di ogni mese, con altri due visioni il 15 agosto.

Il 13 novembre 1949, la Vergine, dopo aver chiesto di pregare per tutti i malati, invita, “il piccolo Gilles”, a recarsi a Roma per vedere il Papa. A dicembre va da lui, ma non essendo solo non può fare come gli ha chiesto la Madonna. Le autorità però non sono a favore di queste apparizioni e gli viene negata l’udienza. La Madonna insiste e miracolosamente si aprono le porte del Vaticano per il piccolo messaggero.

Il 1° maggio 1950 il piccolo Gilles Bouhours affidò a Papa Pio XII il messaggio che la Vergine Maria gli aveva affidato: “La Sainte Vierge n’est pas morte, Elle est montée au Ciel en corps et en âme“. Sei mesi dopo il Pontefice proclamò infallibilmente il dogma dell’Assunzione al Cielo in anima e corpo della Beata Vergine Maria.

Dopo essere rimasto solo con il papa e liberato dal suo vincolo potè riferire a tutti il suo segreto.” La Santa Vergine non è morta; lei è salita al cielo con il suo corpo e la sua anima.

A quanto pare Pio XII, avrebbe chiesto a Dio durante l’Anno Santo del 1950 un “segno” che potesse illuminarlo sul dogma dell’Assunzione della Vergine. Non solo al papa ma a tutto il suo immediato entourage, fu chiaro che quello era il segno atteso, la rivelazione di un bambino.

Dal 1950 al 1958, Gilles continuerà a vedere la Madonna a intervalli regolari. Il 13 maggio 1950, disse: “il 13 giugno, devo avere un abito bianco. Camminerò a piedi nudi, come il bambino Gesù per la conversione dei peccatori. “Le immagini fotografiche hanno immortalato il momento.

Il 15 agosto 1958, la Vergine apparve per l’ultima volta. Il piccolo Gilles ritornò alla casa del Padre il 26 febbraio 1960.

Da allora, le testimonianze di grazie si sono moltiplicate. Tantissimi i casi di conversione.

Estratti da “Magazine cristiana”

Fonte: http://trinite.1.free.fr/enseignements/petit_gilles.htm

 

Maria Gabriella Taurel

Maria Gabriella Taurel

Fanciulla (1905- 1912) 25 febbraio 

Voglio andare a vedere Gesù“, aveva detto un giorno Maria Gabriella. Aveva desiderato tanto riceverlo nel suo piccolo cuore, ma non gli era stato possibile. A sei anni, cinque mesi e sei giorni, dopo aver ripetuto il suo deside­rio, andava a vederlo e a goderlo, per sempre, in Cielo.

Era nata a Tolone il 19 settembre 1905 e poiché si fe­steggiava l’anniversario dell’apparizione di Nostra Signo­ra a La Salette, Maria Gabriella o “Rirì“, come la chiama­vano in famiglia, si considererà come la “figliuola della Santa Vergine“.

In casa aveva trovato un fratello, Giuseppe, che contava nove anni più di lei. Dopo Giuseppe i genitori non aveva­no potuto avere altri figli a cui donare il loro amore e al­lora avevano deciso di adottare una bambina. Ma questo Maria Gabriella non lo saprà mai. I due fratelli si amaro­no tanto e giocavano tanto volentieri insieme.

In casa, Maria Gabriella era coccolata da tutti: dal bab­bo che, essendo ufficiale di marina, passava lunghi pe­riodi in mare, lontano da casa e perciò vedeva raramente la sua bambina, dalla mamma che le insegnava ad unire le manine e a mandare i bacetti a Gesù e a Maria, dalle zie Luisa e Manetta che abitavano nella stessa casa e da Giuseppe che era impaziente di vederla crescere per cor­rere con lei in giardino e sulla riva del mare.

Era bionda e paffuta, con gli occhi color castano scuro. I suoi capelli color oro erano straordinariamente abbon­danti. Sembrava che le pesassero perchè Gabriella chi­nava la testina verso una parte. Era tanto bella in quella sua semplice mossa di timidezza!

Tutte le mattine, da quando seppe balbettare le prime parole, si inginocchiava a terra e, in compagnia della mamma, diceva le sue preghiere e invocava la Madonna per il papà lontano: “Stella del mare, proteggi papà!“.

La tormentavano mille perché e faceva continuamente domande alla mamma, ai parenti e ai conoscenti:

Perché i bimbi si bagnano quando piove? Che cos’è l’acqua? Perché Gesù non si fa vedere? Perché si na­sconde? Mamma, – domandò un giorno – ci saranno i confetti in Paradiso? Sicuro! Ce ne saranno tanti! Allora li mangerò anch’io e non mi faranno male, ve­ro? Gabriella soffriva quasi sempre di una noiosa enterite, perciò non poteva mangiare roba dolce. Era un vero sa­crificio per lei, ma si consolava pensando che in Paradiso si sarebbe rifatta di ogni privazione.

Amava ed era riamata. Spesso interrompeva il gioco e mettendo la sua testina sul grembo della mamma, le gri­dava affettuosamente: – Mamma, ti voglio tanto bene! Quando il babbo tornava, Maria Gabriella gli andava incontro festante, gli si arrampicava sulle ginocchia e le sussurrava mille tenere ed affettuose parole. – Sai papà, Rirì ha imparato bene il catechismo, ha ob­bedito alla mamma, non ha mangiato cioccolatini… Poi, abbassando la voce fissandolo con gli occhi lucidi: – Che cosa mi hai portato, papà? […]

Come tutti i bambini Maria Gabriella aspetta il Natale più che ogni altra festa, perché Gesù Bambino è il suo amico più caro. Per lui prepara dei piccoli fioretti, per lui impara la poesia che reciterà davanti al presepio e da lui si aspetta qualche dono. – Ma che Gesù Bambino! – le dice un Natale un’altra bambina – Non è lui che porta i doni! […] La mamma l’accoglie teneramente e la consola: – Dì a quella bambina che i doni di Natale sono i doni di Gesù Bambino, perché è lui che dà ai parenti il modo di procurare le tante cose belle e ghiotte che trovate nelle scarpine. Maria Gabriella è consolata e ringrazia ancora il piccolo Gesù che le ha inviato tanti doni.

Le piace tanto giocare, ma. trova un vero diletto nel di­vertirsi con le sue bambole. Ne ha quattro, una delle quali si chiama Natalina, perché l’ha ricevuta a Natale. Le altre si chiamano: Maria, Alice e Rosita. […]

Insieme con i genitori e la madrina, nel dicembre del 1910, Maria Gabriella si recò ad Aiaccio, in Corsica, mentre Giuseppe restava a casa per proseguire gli studi presso i padri Maristi. Il viaggio in mare fu terribile, perché le onde tempestose, per un certo tratto di mare, sembravano dovessero travolgere la nave, ma poi era tor­nata la calma e si era potuto approdare nell’isola. Appe­na sbarcata ad Aiaccio, Maria Gabriella, che era rimasta fino ad allora in silenzio, confidò alla mamma di aver fat­to una promessa: Sai, mamma, – le disse – ho avuto tanta paura, ma ho pregato e promesso alla Madonna la mia bambola Alice se fossimo arrivati salvi in porto. E la promessa fu man­tenuta.

[…] Nella villa dei signori Taurel ad Aiaccio c’era una cap­pella dedicata a Nostra Signora di Loreto. Così, insieme alla mamma e alla madrina, Maria Gabriella assisteva tutti i giorni alla santa Messa. Alla domenica sì ritrovavano per la Messa gli abitanti dei dintorni, perciò il sabato era la giornata in cui la cap­pella veniva pulita. Maria Gabriella, anche se era piccola, riservava per sé parte del lavoro: prendeva la scopa e non la lasciava fin­ché non vedeva tutto il pavimento ben pulito.  Il sabato è la domenica della Santa Vergine — diceva con gli occhi che brillavano di gioia.

Amava tanto la Santa Vergine, la chiamava “la buona Madre” e la invocava in ogni occasione. Quante volte le offriva le sue preghiere, i suoi fioretti e le confidava le sue pene quando vedeva il mare in burrasca! Il babbo era in mare e Rirì lo diceva alla Madonna. Era sicura che “la buona Madre” l’avrebbe esaudita.

Anche nel gioco Maria Gabriella onorava la Santa Ver­gine. Prendeva una statuina che la raffigurava, la collo­cava in una nicchia sul terrazzo di casa e poi pregava e cantava inni e lodi, ordinando alle sue bambole di fare altrettanto.

Qualche volta, invece delle bambole invitava le amichet­te e, ad un certo punto, intonava il Rosario. Alcune avrebbero preferito continuare a giocare, ma Maria Ga­briella sapeva convincerle così bene che cedevano tutte, perché sapevano che se ne sarebbero ritornate a casa più buone. […]

Quando il sacerdote darà Gesù anche a me? Quando sarai pronta. Bisogna sapere bene il catechi­smo. Maria Gabriella si mise subito a studiare il catechismo con tutto l’ardore di cui era capace. Le piaceva tanto sen­tir parlare di Gesù. Ciò che proprio non poteva capire era perché gli uomini cattivi avessero fatto soffrire tanto Ge­sù. […]

Che cos’è Dio? – le domandò un giorno la mamma. – Dio, – rispose sicura la bambina – è un purissimo spi­rito che non ha né forma né colore, infinitamente perfet­to, creatore del cielo e della terra, padrone assoluto di tutte le cose. La risposta è esatta, ma Maria Gabriella, dopo alcuni momenti di riflessione, domandò: – Ma come si può essere, mamma, se non si ha né for­ma né colore? La signora Taurel spiegò: – Ci sono tante cose che non si sapranno mai qui sulla terra. Crediamo nell’insegnamento del catechismo e un giorno, in Cielo, saremo illuminati. – Ebbene, sì, voglio fare come te, mamma, Voglio crede­re, senza ben capire, certe cose che si chiamano “miste­ro”.

[…] L’unica ghiottoneria che le era permessa era qualche zolletta di zucchero nel caffèlatte, ma durante la Quare­sima del 1911 volle privarsene per fare penitenza. […]

Nel dicembre del 1911, la famiglia Taurel lasciava Aiaccio e tornava a Tolone. A Tolone era scoppiata un’epidemia di ipertosse e Maria Gabriella ne fu subito colpita. Il medico le ordinò di cambiare aria, ma la piccola insisteva che prima di partire le si desse Gesù. Perciò si decise di farle fare la prima Co­munione. Superato l’esame di catechismo, si fissò la data della cerimonia per il 2 di febbraio, festa della Purificazione di Maria Santissima. Maria Gabriella contava i giorni nell’attesa del “gran giorno”.

Ma intanto l’ipertosse non le dava tregua. In più il 2 febbraio 1912 fu una pessima giornata: freddo, pioggia, vento… La signora Taurel temette per la piccola e non la sve­gliò. […] – Non è nulla, caro angelo! – cercava di consolarla la mammaQuesta brutta tosse passerà. Non piangere co­sì… E per quel giorno fece la sua più ardente Comunione spirituale.

Passarono alcuni giorni e Maria Gabriella fu portata in una località dove avrebbe potuto respirare aria buona. Lì si sperò di poterle far ricevere il sospirato Gesù, ma, quando sembrava che stesse meglio, sopravvenne una complicazione: la tosse era accompagnata dal vomito che la faceva tanto soffrire.

Datemi il buon Gesù!supplicava. Ma come era possibile, in quello stato? Dopo le terribili crisi si addormentava, ma al risveglio si metteva subito a pregare. Chiedi a Gesù di guarirti? – domandò una volta la mamma. – Oh, no, mamma: io gli dono il mio piccolo cuore. Gli voglio tanto bene e desidero vederlo.[…] – Soffro molto, – diceva – ma anche il buon Gesù ha sofferto tanto.

[…] Il 24 febbraio all’ipertosse si aggiunsero altre complica­zioni. Si trattava di polmonite. […] Venne il parroco che gli diede la benedizione. La morte si avvicinava. Poco prima i presenti avevano visto Maria Gabriella attorniata da una insolita luce. No, non era il miracolo della guarigione, come aveva chiesto lungamen­te la mamma nella preghiera. No, Gesù veniva a prender­si la sua piccola innamorata.

Maria Gabriella agitò le sue piccole mani. Era tutta su­data e non tossiva più. Guardava tutto intorno. – Perché piangete? Quando avrò il buon Gesù? Addio, mamma! Addio, madrina!… Ho tanto sonno! Datemi il buon Gesù, perché io lo abbracci! E anche la “buona Madre”, anche…

Abbracciò il Crocifìsso, strinse al petto una statuetta dell’Immacolata di Lourdes e tacque per sempre.

Rirì, – supplicò la mamma – il Signore ti chiama… la Vergine viene a cercarti. La vedi? – Maria Gabriella si voltò, spalancò i suoi occhioni scuri, trasse un profondo sospiro e… si addormentò. Il suo pic­colo cuore aveva cessato di battere. La “figliolina della Santissima Vergine” poteva finalmente godere Gesù in Cielo, dove vanno tutti i bambini buoni.

Era la domenica 25 febbraio 1912, anniversario della dodicesima Apparizione di Nostra Signora di Lourdes.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/94437