Afra Martinelli

AFRA MARTINELLI

Missionaria – 27 settembre 2013

È morta a Ogwashi-Ukwu, nel Delta del Niger, dopo essere stata lasciata in fin di vita da banditi che volevano rapinarla. Per 30 anni ha operato a servizio degli ultimi, in uno dei luoghi più difficili del mondo.

Una missionaria laica italiana, originaria di Ciliverghe in provincia di Brescia, vienne uccisa la notte tra il 26 e il 27 settembre 2013 a colpi di macete da sconosciuti nella sua camera, nel centro Regina Mundi da lei fondato a Ogwashi-Ukwu, una cittadina di 30 mila abitanti sul Delta del Niger, a 400 chilometri da Lagos, in Nigeria. L’istituto era una vera e propria scuola di informatica con annesso collegio per ragazzi e ragazze. Per trent’anni Afra aveva lavorato al servizio della Chiesa locale di questa zona nel Sud della Nigeria.

Trovata in fin di vita con la nuca fracassata dai colpi di un macete e riversa in una pozza di sangue all’età di 78 anni la povera Afra non ce l’ha fatta.

Questa spietata violenza è stata scatenata dal desiderio dei malviventi di impossessarsi delle chiavi della struttura per portar via computer e materiale didattico; le cure nei giorni successivi in ospedale non sono bastate a migliorare le sue condizioni ed è morta dopo due settimane di agonia.

Aveva telefonato al fratello Enrico Martinelli, che vive ancora nel bresciano, proprio due giorni prima dell’aggressione: «Le avevo chiesto quando pensasse di tornare in Italia, dato che l’età avanzava. Mi ha risposto: “Questo è l’ultimo dei miei pensieri”».

La missionaria aveva già subito un tentativo di rapina, quando un ragazzo l’aveva avvicinata in strada e le aveva intimato di darle le chiavi della macchina. Lei però si era difesa e il giovane si era allontanato: «Non aveva paura», racconta Enrico, «ma solo tanta voglia di condividere; con i cristiani, che nel Delta del Niger sono maggioranza, con gli animisti e i fedeli di altre religioni tradizionali, dei quali al telefono mi parlava spesso».

«Volevano attribuirle la cittadinanza onoraria ma lei era contraria, diceva di non aver fatto nulla», racconta sempre il fratello. In realtà, Afra era partita per la Nigeria su richiesta del vescovo di Ibadan, conosciuto al Congresso eucaristico di Los Angeles; all’inizio, aveva insegnato nella scuola per gli italiani che lavoravano nella zona e operava nel Centro di evangelizzazione.

Poi si era spostata a Ogwashi-Ukwu, dove aveva fondato il Centro Regina Mundi con la scuola di informatica e il collegio. Negli ultimi anni, il Centro, dove lavoravano 18 collaboratori, si era ingrandito, diventando un riferimento essenziale per gli studenti della città e dei villaggi vicini, anche grazie al sostegno economico che arrivava dalla Fondazione Cuore Amico di Brescia, come il recente acquisto di un generatore.

Verso i ragazzi, la missionaria aveva un’attenzione particolare: «Aveva dato vita», spiega il fratello, «anche al Catholic Servant of Christ, un gruppo di animazione per i giovani. La sua spiritualità era quella del servizio al Cristo povero». Enrico ricorda poi come nel 1998, per i cento anni del loro padre, la sorella non volesse tornare a Ciliverghe per non togliere soldi ai più poveri. Così, a dimostrazione dell’affetto che aveva attorno a sé, furono i suoi amici africani assistiti nella missione a pagarle il biglietto d’aereo.

Fontehttp://www.santiebeati.it/dettaglio/96431

Andrea Zambianchi

ANDREA ZAMBIANCHI

Seminarista (1966-1996) 23 settembre

Non vedente dall’occhio destro a causa di un’operazione venne colpito da un tumore al fegato, al pancreas e al polmone, sopportato con fede e forza d’animo. Morì prima di compiere trent’anni.

Andrea Zambianchi nacque a Forlimpopoli il 13 ottobre 1966, da Angioletto, insegnante di matematica, ed Eleonora Campri (due anni dopo, sarebbe stato seguito dal fratello Enrico). Tre giorni dopo, venne battezzato nell’Ospedale Civile di Forlimpopoli da don Arnaldo Lodi. Considerò davvero la sua famiglia come il primo luogo dove fu educato alla fede: la madre fu la sua prima catechista, non solo tra le mura domestiche, ma anche tra quelle parrocchiali. […]

Fu proprio don Roberto a chiedere al giovane Andrea, che nel frattempo si era iscritto all’Istituto Magistrale e frequentava il secondo anno, di impegnarsi come catechista per i bambini delle elementari. A quell’impegno si aggiunse, nel 1985, l’anno dopo aver conseguito il diploma, l’attività di volontariato presso una casa delle Figlie della Carità di San Vincenzo De Paoli.

Il contatto col carisma vincenziano fece sorgere in lui una decisa scelta per le persone disagiate ed emarginate a vario titolo, che confermò contribuendo alla fondazione, in parrocchia, di un gruppo della Gioventù Mariana Vincenziana.

Nel 1986, dopo aver frequentato l’anno integrativo alle Magistrali, s’iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, laureandosi nel maggio di quattro anni dopo, con una tesi sul diritto d’autore.

Ma una prova di ben altro spessore lo attendeva: nel giugno 1988, Andrea subì il distacco della retina dell’occhio destro. Ricoverato dapprima all’ospedale di Forlì, poi al San Raffaele di Milano, fu operato, ma da allora poté vedere solo con l’occhio sinistro e dovette portare gli occhiali. In quel periodo, che non esitò a definire “calvario”, il solo aiuto gli veniva dalla madre, la quale, ogni sera, gli leggeva qualche pagina di Vangelo.

La sofferenza vissuta in prima persona contribuì a farlo maturare, insegnandogli a relativizzare i piccoli problemi quotidiani ma, ancora di più, ad «adeguarsi e portare la croce senza sentimentalismi», per usare le sue stesse parole.

Dopo la laurea, il giovane prese a collaborare a varie testate giornalistiche, […] Non esitava a scagliarsi contro l’aborto, che paragonava alle stragi di Stato; invitava i lettori a responsabilizzarsi di fronte alla fame dei paesi poveri; ricordava ai giovani gli ideali a cui dovevano mirare, ma allo stesso tempo indicava loro vie concrete per viverli.

Lui per primo aveva compreso quali fossero, grazie alla guida del suo parroco, ai campi estivi e a un ritiro svolto a Cuneo, nella comunità animata da padre Andrea Gasparino (+ 2010, fondatore del Movimento Contemplativo Missionario Padre de Foucauld). Aveva gli strumenti, ma, come scrisse, «Dopo la laurea il mio cuore sapeva già che avrei iniziato un cammino di consacrazione, ma la mia mente non aveva voluto capirlo subito».

[…] nel 1992, entrò al Collegio Alberoni di Piacenza, per intraprendere gli studi teologici ed entrare tra i Preti della Missione, ossia i Padri Vincenziani. Con la sua abituale schiettezza, si espresse in questo modo sulle pagine di «Vieni e Seguimi»: «È Dio che mi ha afferrato, mi ha inserito nei suoi progetti, è stato fedele: sono in cammino per diventare suo servo».

Quel cammino, però, non fu privo di dubbi. Preso da quelli che definiva “strani pensieri”, si confidò per lettera ad un sacerdote amico, don Emanuele, chiedendogli consiglio per meglio discernere la volontà di Dio su di sé. La passione per i poveri lo coinvolgeva, ma, allo stesso tempo, non voleva dimenticare le sue radici e l’impegno parrocchiale. Infine comprese: non era tra i Vincenziani che Dio lo voleva, bensì nel clero diocesano.

Dall’anno 1993/’94, quindi, Andrea visse nel Pontificio Seminario Regionale di Bologna, venendo ammesso direttamente alla II Teologia. I giudizi sulla sua condotta indicavano dapprima una certa difficoltà nel confronto con gli altri, ma, gradatamente, si aprì allo scambio e al confronto. Il suo ideale sacerdotale era concretizzato nella figura di don Lorenzo Milani, […].

[…] Inaspettatamente, proprio nel 1995, fu colpito da un tumore, che l’aggredì al fegato, al pancreas e al polmone. Dovette affrontare una pesante chemioterapia ed era assalito da febbri altissime, dolori surrenali e intercostali.

Chiamato a dare la sua testimonianza nella Cattedrale di Forlì, in occasione della Giornata Mondiale del Malato 1996, espresse con tono vibrante sia il tipo di prete che avrebbe voluto essere, sia la sua particolare chiamata al dolore; giunse perfino ad invocare una maggiore preparazione in Seminario verso la conoscenza e il contatto con gli ammalati. «Se il prete non cura quel minimo di preparazione per sapersi accostare al dialogo vero, autentico, fecondo con chi soffre veramente a livello fisico e psicologico», chiese, «come potrà sentirsi in pace la sera prima di coricarsi?». Con la sua stessa presenza sperava di poter aiutare in tal senso i suoi compagni di studi.

[…]Il 26 giugno 1996, insieme a un amico seminarista, si recò a Barbiana, per chiedere forza al suo modello don Milani […] , ma sapeva che non sarebbe riuscito in nulla senza l’aiuto divino: «Che Dio mi assista. Che il male si fermi, che la Madonna interceda. Che la pace, quella di Cristo, mi avvolga», lasciò scritto.

Ad inizio settembre, manifestò a don Castellucci un nuovo desiderio: frequentare la Facoltà di Psicologia a Cesena, presso la quale si era iscritto all’esame di selezione, per capire meglio i giovani e i malati mentali. Tutto, però, in spirito di piena disponibilità: «Se il Signore mi vuole, io sono pronto», ripeté più di una volta.

Nella notte tra il 22 e il 23 settembre 1996, venti giorni prima del suo trentesimo compleanno, in casa sua, Andrea partì per incontrare definitivamente il Signore, come sperava. Nella Messa esequiale, celebrata nella chiesa di San Rufillo a Forlimpopoli, monsignor Zarri non esitò a definire il giovane, il cui corpo era stato rivestito della veste da lettore, “sacerdote nel cuore”.

A un anno dalla sua morte, venne pubblicata una selezione dei suoi articoli e appunti personali, intitolata «Togliete la pietra». La sua tesi, invece, è uscita postuma nel 1997, col titolo che lui stesso le aveva dato, prendendolo da una frase di don Milani: «Io non lascio la Chiesa per nessun prezzo al mondo perché mi ricordo cos’era vivere al di fuori di essa». Nel 2008, infine, per interessamento di don Castellucci e di Filippo d’Elia, insegnante di religione in una scuola media di Taranto, è stata pubblicata dall’Editrice Missionaria Italiana come «La Chiesa di Don Milani – Profeta del rinnovamento». […]

 

Autore: Emilia Flocchini

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/96219

 

Padre Gabriele Amorth

PADRE GABRIELE AMORTH

Sacerdote esorcista (1925 – 2016) 16 settembre

Ormai tutti conoscono anche solo di fama questo grande combattente di Cristo che con la croce e il rosario in mano ha fatto guerra a Satana e alle sue legioni. Tra chi ha sentito una sua testimonianza, chi lo ha contestato e chi lo ha osannato, pochi sanno la sua storia per questo ve la voglio raccontare.

«Io paura di Satana? È lui che deve avere paura di me: io opero in nome del Signore del mondo. E lui è solo la scimmia di Dio. » Questo era Padre Amorth… in una delle sue celebri affermazioni si avvince quanto la sua forza venisse tutta dal Signore.

Nato a Modena il 1° maggio 1925, da una famiglia profondamente legata al cattolicesimo e all’Azione Cattolica, fu membro della FUCI. A soli 18 anni entrò a far parte dei partigiani cattolici della Brigata Italia di Ermanno Gorrieri, col soprannome “Alberto”, e divenne presto vice comandante di piazza a Modena e comandante del 3º Battaglione della 2ª Bgt Italia.

A 20 anni, concluso il conflitto, gli fu conferita la Croce di guerra al valor militare e a 22 anni, nel 1947, fu nominato vice delegato nazionale dell’allora presidente dei Movimenti giovanili della Democrazia Cristiana, Giulio Andreotti. Allora era legato al gruppo politico di Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani e Giuseppe Lazzati.

«Si votava fin dall’inizio alla lotta clandestina di resistenza dimostrandosi sagace organizzatore, intelligente informatore, ardito combattente. Tre volte catturato, riusciva con grande abilità a riconquistare la libertà e, benché minacciato di morte, persisteva impavidamente nella sua attività, contribuendo efficacemente alla vittoria. – Pianura Modenese, 8 settembre 1943 – 30 aprile 1945.»

Laureato in giurisprudenza un giorno chiede al fondatore della società San Paolo don Giacomo Alberione che cosa possa volere Dio da lui: “Io volevo che Dio mi dicesse cosa fare, invece grazie a lui ho capito che dovevo decidere io. Però Dio è intervenuto e un giorno don Alberione mi ha detto: «Celebrerò la Messa per te domani mattina». E dopo la Messa mi ha comunicato: «Che entri in San Paolo!». Entrò quindi a far parte della congregazione nel 1947, ordinato presbitero il 24 gennaio 1954 a Roma dall’allora vescovo di Norcia Ilario Roatta.

Pubblicò molti articoli sulla rivista cattolica Famiglia Cristiana. Appassionato di mariologia, assunse la direzione del mensile Madre di Dio. È stato un membro della Pontificia accademia mariana internazionale.

Dal 1986 divenne sacerdote esorcista nella diocesi di Roma, per mandato del cardinale vicario Ugo Poletti. Si è formato alla scuola di padre Candido Amantini, il quale per molti anni era stato il più autorevole esorcista della Scala Santa a Roma. Collaborava con diversi medici e psichiatri italiani. Vista la grande scarsità di esorcisti comincia a riunirli fino a fondare l’Associazione degli esorcisti la cui opera ritiene sia merito della Madonna che pare gli abbia aperto anche le porte dei vescovi più ostinati e reticenti.

Mi sono raccomandato alla Madonna: «Proteggimi sotto il tuo manto e lì sto al sicuro!». E più volte il demonio mi ha detto: «A te non possiamo fare niente perché sei troppo protetto!».”

Il quotidiano comunista Liberazione riferisce che don Amorth avrebbe effettuato circa 70.000 esorcismi dal 1986 al 2007. Lo stesso padre Amorth in un’intervista al giornale britannico Sunday Telegraph del 2000 riferisce di oltre 50.000 interventi effettuati. Nella stessa intervista Amorth afferma che molti di essi hanno richiesto solo pochi minuti, altri invece diverse ore.

Nel 1990 fondò l’Associazione internazionale degli esorcisti, di cui è stato presidente fino al 2000, sebbene sia rimasto presidente onorario fino alla morte. Conduceva la trasmissione radiofonica Racconti di un esorcista – il titolo riprendeva un suo noto libro – su Radio Maria.

Riguardo gli esorcismi disse: “…a volte ci sono delle liberazioni provvisorie: il demonio se ne va temporaneamente, sperando che la persona un po’ per volta torni ad allontanarsi dalla Chiesa e, magari, si dia a una vita di peccato per poi riacciuffarla. E in questo caso è peggio di prima!

https://www.youtube.com/watch?v=SRjL3dvhAKw

“…Padre Candido me l’ha sempre detto: «Non si aspetti di vedere che alla fine dell’esorcismo il demonio se ne va via e così tutti contenti: non se lo aspetti! Va via solo quando ha stabilito il Signore! È Lui che ha i suoi piani, è Lui che fa!».”

Nel 2013 il regista Giacomo Franciosa ha realizzato un documentario dedicato alle attività di Gabriele Amorth, intitolato Amorth, l’esorcista.

Ricoverato per alcune settimane per complicazioni polmonari presso l’ospedale della Fondazione Santa Lucia a Roma, si spegne il 16 settembre del 2016 all’età di 91 anni.

Vi farò la benedizione che io chiamo di padre Candido, perché ce la scambiavamo sempre io e lui: «Che il Signore Gesù sia sempre con te. Cammini davanti a te per guidarti, stia dietro di te per proteggerti, dimori dentro di te per custodirti, sia sopra di te per illuminarti. Amen».”

https://www.youtube.com/watch?v=dXh_lHEToJg

Fonti varie

ARTICOLI COLLEGATI

Padre Amorth e il Cuore Immacolato di Maria
DOSSIER HALLOWEEN
Padre Ernetti e Satana
IL DIAVOLO

Donata Dell’Orto

DONATA DELL’ORTO

Adolescente (1967 – 1978) 31 agosto

Rimasta su questa terra per soli undici anni e mezzo, maturata forse troppo in fretta a causa della sofferenza ha dato grande testimonianza di fede e sensibilità.

Mentre alcune compagne di classe la ricordano “senza difetti”, la sorella Cristina, di un anno più giovane, ricorda bene il caratteraccio che aveva prima della malattia: “Qualche volta tornava da scuola che era arrabbiata; ma non le si poteva chiedere niente altrimenti si arrabbiava ancora di più!”. E la sorella Carla, avanti di quattro anni, aggiunge: “Quando aveva la luna di traverso, era scontrosa e non parlava con nessuno”. E Donata stessa, molto espressiva nei suoi scritti più che con le parole, riconosce talvolta di essere una “brontolona” o una “fifona”, di “aver litigato” o di “aver disobbedito o fatto arrabbiare la mamma”.

Figlia di Ferruccio e Caterina Ferrante, Donata era la quarta di sei fratelli, e passò tutta la sua breve esistenza a Carate Brianza, un grosso centro a nord di Milano, da cui dista 27 km.

Tutti coloro che l’hanno conosciuta parlano del suo carattere timido e anche lei, sempre sincera nella sua coscienza, non ha problemi a riconoscerlo come scrive in un tema: “Il mio comportamento con le altre persone, come diceva la maestra sulla pagella, è un po’ timido e so anch’io di essere timida…”. Ma la stessa maestra precisa che il suo silenzio non era assenza o distrazione, perché Donata si rivelava sempre attenta a tutto e a tutti, e ascoltava tutto quello che avveniva intorno a lei, partecipe di tutto, sempre.

Nel Bollettino della parrocchia di Carate, in occasione della sua morte si trova scritto: “In lei non si affievolì mai (se non nei giorni dell’agonia) la grande passione per la vita”.

La sorella Carla ci parla di lei così: “Non so se chiamarlo pregio o difetto, ma Donata aveva il vezzo di raccogliere e tenere tutto. Mi spiego: se mangiava una caramella e scopriva sulla carta un disegno grazioso, quella carta non la gettava, ma la metteva nel suo cassetto e la teneva. Faceva altrettanto con molte altre piccole cose, le più semplici e comuni, ma che per lei avevano un grande valore… guai, infatti, a chi gliele toccava!”.

Grazie proprio a questa caratteristica abbiamo di lei un prezioso libro-ricordo della sua prima Comunione e della Cresima ricevute rispettivamente il 30 maggio 1976 e il primo maggio 1978. Alla dedica della mamma che scriveva: “La tua vita sia sempre come questo giorno vicina a Gesù che è la vita”, Donata risponde con il suo proposito: “Sarò più brava ogni giorno, aiuterò la mamma e le sorelle e dirò sempre le preghiere”. E poi, invece di elencare i molti doni ricevuti a cui accenna, annota: “I genitori mi hanno regalato questo libro e si sono accostati con me a ricevere Gesù”. E ancora: “Col pensiero mi erano vicini tutti i miei cari e ho pregato Gesù per tutti loro”.

La Cresima la ricevette quando era già gravemente ammalata, addirittura con la febbre a 38.2 (per non essere diversa dalle sue compagne), ma lo stile schietto e di fede delle sue note è inconfondibile: “Oggi ho ricevuto lo Spirito Santo… Sono contenta”. E pur cosciente del suo preoccupante stato di salute, ecco il proposito: “Ti prometto, o Gesù: parteciperò sempre alla Messa, perdonerò chi mi offende e sarò brava con la forza dello Spirito Santo che mi hai dato”.

E’ Donata stessa a raccontarci lo sviluppo della sua malattia:

Ho cominciato a sentire i dolori alla tibia il mese di ottobre (1976), ma erano pochi dolori che mi duravano qualche giorno e così non ci ho fatto caso. Poi una volta al mese mi ritornavano sempre più forti. Il medico pensava che fossero dolori reumatici; feci tutti gli esami e le radiografie e nelle radiografie risultò che avevo una periostite. Il medico mi disse di mettere una pomata e il ghiaccio, ma invece di guarire peggioravo. Quando il 22 aprile stetti male a scuola, il medico si decise di mandarmi dall’ortopedico”.

In realtà da giorni Donata non si sentiva bene, e il suo pensiero è subito rivolto a Gesù: “Oggi, martedì (19 aprile), a scuola mi è venuto il mal di testa e quasi quasi stavo male. O Signore, guariscimi dal dolore alla gamba!”.

Il 6 maggio è ricoverata per la prima volta in ospedale nel suo paese di Carate e già il 17 i genitori apprendono la tremenda sentenza: tumore osseo maligno alla tibia della gamba sinistra. Il 27 dello stesso mese iniziano le cure a Milano con la terapia al cobaldo, sperando di fermare il male e Donata nel suo diario prega: “Oggi, venerdì, ho iniziato ad andare a Milano a fare la cura. O Signore, dammi tu la pazienza di sopportare il mio dolore”.

E’ ammirevole la forza di volontà che la guidò a sostenere gli esami di licenza elementare nel suo letto. Volontà e malattia fanno guerra in lei: “Nell’intervallo della scuola non posso correre come gli altri bambini, perché devo stare attenta a non farmi male alla gamba!”. “…E non vado nemmeno al doposcuola, però mi piacerebbe tanto andarci…”.

Nel diario il suo segreto: “Oggi e domani c’è la supplente a scuola. A me è antipatica”. Ma poi aggiunge: “Signore, per te la mia supplente è simpatica. Aiutami ad amarla!”.

Con la maestra usa una parola grossa e si corregge: “O Signore, quando la maestra mi dà troppi compiti io la odio, ma mi accorgo che faccio male”. Con i compagni non solo è contenta di starci insieme, ma per loro prega! “O Signore, ti ringrazio delle compagne e compagni che mi dai”.

In una lettera a Padre Ampelio: “Io non mi sento molto bella; però so che Gesù mi ama lo stesso, e cerco di mantenere la mia anima bella come piace a Gesù”.

Più di dieci volte rinnova spontaneamente nel diario la sua preghiera-proposito di “fare la brava”: “O Gesù, aiutami a fare la brava!”, “O Signore, aiutami a fare la brava con tutti!”, “Devo fare la brava!”, “O mio Angelo Custode, aiutami a fare la brava!”. E nei suoi amabili colloqui con il suo buon amico Gesù: “O Gesù, perdona tutti i miei peccati”, “O Signore, perdonami se non sono stata buona”, “Oggi, venerdì, mi sono confessata… O Signore, ti ringrazio del perdono dei peccati”. È commovente sfogliare il piccolo diario di Donata e scoprire l’importanza quotidiana che avesse per lei, bambina, la preghiera.

Sembra incredibile che una bambina alla sua prima esperienza in ospedale possa pensare agli altri: “Oggi, martedì: primo giorno che sono all’ospedale. Ci sono tanti bambini, di tutti gli anni, ammalati più di me. O Signore, aiutaci a guarire, ti prego”.

Si fa amica di un’altra bambina di nome Keria in ospedale e prega subito: “Il mio male mi sembra niente al confronto di quello che hanno gli altri. O Signore, aiuta la Keria!”.

Nel suo diario troviamo anche qualche slancio missionario, il desiderio di farsi suora e di “…andare in Africa e in India, per aiutare tutti i lebbrosi, gli affamati e gli assetati. Però non ci andrei da sola, perché a me piace fare le cose insieme a qualcuno”. E continua la sua vita di piccola martire offrendo le sue sofferenze per la conversione dei peccatori, non tralasciando di fare anche qualche fioretto.

È difficile capire il perché dobbiamo soffrire tanti mali e nello stesso tempo pensare che Gesù ci vuole bene; ma anche Gesù ha sofferto ed è morto per noi, lui che era il Figlio di Dio. Tutto questo mi spiega i nostri mali…”.

I dolori non le lasciavano tregua, ma il riferimento a Gesù era costante: “…delle volte ho dei forti dolori, come venerdì, sabato e domenica scorsa, quando mi sono venuti dei forti dolori alla testa e alle gambe; ho anche pianto molto, ma penso che Gesù mi voglia bene anche se piango”; “I dolori che ho sono tanti, e se Gesù me ne togliesse un pochino… Ma so che Gesù mi vuole bene sempre, anche quando ho i dolori”; “O Signore, ti dono tutti i miei mali; tu stammi sempre vicino, ti prego!”.

Le forti terapie, le degenze in ospedale, la terribile esperienza della caduta dei capelli, il caldo e la persecuzione quasi giornaliera del vomito nell’ultima estate avrebbe debilitato chiunque, e anche Donata, a momenti, subisce l’eccesso delle cure e diventa nervosa e inquieta.

Per questo la fa sembrare davvero eroica la testimonianza della mamma: “Donata è brava. È capace di sacrifici e rinunce, qualche volta più grandi di lei. Quando ha i dolori lei sa sopportare fino agli estremi; piange quando proprio non ne può più…”; e ancor più quella della sorella Chiara del 1° giugno 1978: “… Posso dire soltanto che ho una sorella meravigliosa! Quello che mi colpisce di più nel suo carattere è la forza di volontà che, a essere sincera, non ho mai trovato in nessuna altra persona. Poi la sua capacità di riuscire a non far pesare la sua malattia e le sue crisi, così dolorose, sulle persone che le stanno accanto. Molto spesso capita che di notte piange per i dolori che le vengono, ma lei, la maggior parte delle volte cerca di trattenersi per non svegliare noi che dormiamo nella stessa stanza, o di chiamar la mamma…”.

Va avanti così con tanto coraggio e fede fino al termine di agosto. Morì quando il 31 era appena iniziato.

Le ultime due paginette del diario, quelle del 27 e 28 agosto, sono stese dalla mamma a nome di Donata: “Oggi sono stata veramente male. Continua il vomito e vomito sangue. È venuto don Sandro a portarmi Gesù…”; “Questa sera don Roberto mi ha portato l’Olio santo. Sono contenta e pronta per Gesù”.

Donata fece anche il testamento, che non ha davvero bisogno di commenti.

“Carate Brianza, 9 agosto 1978

So di dover morire e voglio che si facciano queste cose: tutti i miei vestiti ai bambini poveri; i miei giocattoli e le bambole all’Istituto dei tumori – VI piano – perché i bambini ricoverati possano avere da giocare.

Un ricordo anche ai medici che mi hanno curata, con un grazie per tutto quello che mi hanno fatto e che faranno per gli altri bambini. Io pregherò perché li possano guarire tutti.

La mia catenina alla mia mamma, con le immaginette. Allo zio la penna di alpino, alla nonna quello che vuole. Alle mie sorelle e fratelli, soprattutto di amare Gesù con tutta la loro vita e di essere sempre bravi; poi si dividano quello che rimane.

Al mio funerale non voglio corone di fiori, ma i soldi che si dovrebbero usare per i fiori, si diano alle Missioni dei Missionari Comboniani di Verona, perché possano aiutare i bambini poveri e ammalati.

La penna d’argento a mio papà, per dirgli grazie di avermi voluto bene. La mia coroncina a padre Ampelio, perché la Madonna lo aiuti sempre”.

Per approfondire: Ampelio Valentini, Donata, editrice italia letteraria

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/95909

 

Paolo Sempreboni

PAOLO SEMPREBONI

Adolescente (1958-1971) 25 agosto

In un tema durante la prima media, unisce con candore pregi e difetti della sua persona. “Sono un tipo nervoso e nello stesso tempo timido, ma sono un bravo ragazzo e questo è l’importante”.

Paolo era nato a Negrar, paese della Valpolicella in provincia di Verona, il 17 settembre 1958, da papà Tarcisio e mamma Ida, di cui era il terzo figlio. La sua sembra una vita spezzata come quella di altri ragazzi colpiti senza pietà da mali incurabili. Ma i suoi tredici anni non compiuti ci testimoniano che neppure la crudele malattia ha saputo scalfire nel cuore del piccolo eroe uno straordinario impegno di bontà e di fede, ma al contrario lo esalta.

Accanto al letto del figlio, papà Tarcisio cerca le parole più giuste di conforto e promette: “Quando ritornerai a casa, faremo una grande festa e inviteremo tanta gente”. Il buon genitore sapeva che quella promessa non poteva realizzarsi, perché il male stava facendo inesorabilmente il suo corso, ma quelle parole, in modo diverso, si sarebbero davvero realizzate il giorno del funerale del piccolo martire.

La bontà naturale di Paolo potrebbe far pensare che la sua crescita umana e di fede sia stata facile, ma ciò sarebbe errato. Lo prova il suo costante sforzo di correggersi.

In un tema, l’episodio più indicativo. “Un ragazzo, precisamente uno zingaro, di circa cinque o sei anni, veniva preso in giro da un gruppo di miei amici, che mi avevano chiamato per vedere il piccoletto. Quando fui lì, mi accorsi che il bambino veniva preso a schiaffi e a pedate. Trovandoci gusto in questo tipo di gioco, mi ci misi anch’io. Ad un tratto arrivò un uomo… e prese il bimbetto che piangeva. Ci guardò tutti e poi ci parlò con parole che non scorderò mai:Vergognatevi! Ragazzi che studiano si comportano così!”. Io a queste parole piansi; io, il coraggioso, il prepotente… Mi feci avanti e chiesi all’uomo di darmi uno schiaffo. L’uomo mi guardò e sorrise: Bravo! Vedo che sei in fondo un bravo ragazzo””. E Paolo conclude il suo tema: “Da allora non fui più il carogna, il prepotente, ma diventai un ragazzo generoso”.

Nei suoi temi, piacevoli da leggere sia per la bella capacità di descrizione, sia per le sue ‘mature’ riflessioni personali, si trova spesso il racconto delle sue avventure e dei suoi giochi.

Già alle elementari scriveva: “A me dispiace molto separarmi dai miei amici perché con loro sono più allegro e buono”. Quanta sofferenza nel suo cuore quando la mamma per ragioni di salute non gli permetteva di uscire di casa, e quale gioia quando poteva giocare con gli amici!

Sebbene spensierato come tutti i ragazzi della sua età, Paolo tuttavia dimostrava una capacità riflessiva veramente notevole. Leggiamo da un tema: “In genere gli adulti ridono se noi bambini diciamo loro che abbiamo dei problemi. Ho anch’io i miei problemi. I problemi più difficili che ho sono: il comunicare un brutto voto e giocare…”. Dunque: “Non bisogna che i genitori pensino solo ai loro problemi, ma anche a quelli dei figli, perché a volte sono problemi veramente seri”.

Spesso in famiglia Paolo ascolta con interesse i discorsi ‘adulti’ dei genitori, anche se i suoi fratelli più grandi non ne sono coinvolti. E poi matura da solo conclusioni insospettate anche sugli argomenti più attuali. Un suo tema sulla droga così termina: “Lo scopritore della droga, quando saprà quante vittime ci sono per colpa sua, sentirà il rimorso di come ha usato male il grande dono come l’intelligenza”.

Un giorno Paolo torna a casa scosso e pensieroso; a scuola qualcosa non è andato per il verso giusto e lui ha preso una decisione irremovibile: “Mamma, io a scuola non ci vado più!”. Alla domanda meravigliata della mamma che gli chiede il motivo, pensando forse ad un brutto voto o ad un litigio, risponde altrettanto deciso: “Sono stanco di certi discorsi o di certi modi di fare di qualche mio compagno. Ho provato a dir loro qualcosa ma è inutile”.

Lo guidava quel senso di peccato che lo faceva rifuggire subito anche dal sospetto di offendere il Signore.

Se un ragazzo non frequenta cattive compagnie – medita sul diario – o se è ben educato non compera certi giornaletti sporchi; la stampa può essere educativa, ma può essere anche dannosa; in questo caso essa non pensa a rovinare migliaia di bambini, ma pensa soltanto a fare soldi”. E conclude: “Io credo che un’anima valga di più di centomila lire…”.

Testimonia papà Tarcisio: “Non mancava occasione, il nostro Paolo, di aiutare chi si trovasse in difficoltà, dal compagno di scuola all’anziano del paese”.

Quanto zelo poi metteva per le iniziative parrocchiali! Non mancava mai al catechismo; faceva parte del coro nel quale cantava talvolta da solista;  era particolarmente fiero di essere chierichetto, rendendosi disponibile al servizio della Messa per il suo turno e in qualsiasi giorno od ora.

La sua carità diventò squisita quando cominciò a recarsi in ospedale, spontaneamente, a trovare gli ammalati: dalla suora dell’asilo ai suoi amici. Passò delle ore accanto al letto dell’amico Giancarlo, anch’egli colpito da un male che non perdona, per distrarlo, farlo sorridere e portargli i Topolini da leggere. E quando morì fu visto piangere.

Una mattina al termine della Messa Paolo ferma il viceparroco e gli improvvisa una domanda che gli sta a cuore: “Mi spieghi, signor curato: coma si fa a farsi santi?”. Don Francesco colto un po’ di sorpresa ci pensa un attimo e risponde: “Per farsi santi non occorre far miracoli o cose straordinarie, basta compiere straordinariamente bene le cose ordinarie, come lo studio, la scuola, il gioco, il servizio all’altare…”.

La lezione gli venne ripetuta quando il curato gli fece visita in ospedale: “Ecco qui come si diventa santi: accetta nella luce del Padre questa situazione fatta di solitudine, di immobilità, di sofferenza e di martirio, certo che Dio ti ama… e io ti assicuro che sei sulla strada giusta, quella che conduce alla santità”.

Non era solo un sogno il suo, ma un ideale di vita. Per questo alla sorella, che un giorno accarezzandolo gli disse: “Sei un santo!”, rispose: “Io non voglio tanti complimenti!”.

Stava guardando la televisione Paolo la sera del 25 gennaio 1968 quando si sentì male. Fu ricoverato d’urgenza all’ospedale e si riprese dopo tre ore senza ricordare nulla. Il responso fu quello di una sospetta crisi epilettica.

Il controllo encefalografico fatto ogni sei mesi non rilevò nulla fino al 27 marzo 1971, quando la situazione si presentò improvvisamente peggiorata. Il giorno prima Paolo era stato di nuovo male con crisi di nausea, vomito e svenimenti; la sentenza del suo calvario fu pronunciata: tumore alla testa.

I tre giorni di intensi esami all’ospedale rivelarono subito in Paolo una pazienza e una sopportazione straordinarie, tanto da meravigliare i medici: “Non ho mai visto tanta bontà sotto quella tortura!”. E pensare che solo pochi mesi prima, in sala d’attesa dal dentista, appena si era sentito chiamare per il suo turno, era fuggito verso la porta d’ingresso dalla paura, finendo in braccio alla persona che entrava!

Due giorni ancora e Paolo è completamente rasato e pronto per l’intervento. Versa lacrime, ma le nasconde. Soprattutto prega e chiede di poter ricevere la Comunione. Quando cominciano le terapie Paolo spiega come fa a sopportare: “In quei pochi minuti guardo in alto, mi raffiguro il cielo e prego, così il tempo passa in fretta”; ogni volta che gli si chiedeva se soffriva, era pronto a rispondere: “No, no, ora mi è passato, sto già meglio”.

Preoccupato di non dar eccessivo disturbo neppure ai genitori si rivolge a papà Tarcisio: “Tu riposati, sdraiati qui vicino al letto e dammi la mano; se ho bisogno di qualcosa ti stringo la mano, così mi senti”. A mamma e papà che gli stavano sempre accanto diceva: “È bello sentirvi pregare… siete bravi a pregare, ma io non sempre riesco a seguirvi”. Esce esausto da un doloroso esame, ma è contento: “Papà, mi sono ricordato, sai, di quelle preghiere…”.

Dovette subire un secondo intervento il 12 giugno, ma la situazione non migliorò. Lui si rendeva perfettamente conto della situazione: “Non so, papà, se verrò ancora a casa… Forse il Signore mi vuol martire...”. Lo portarono nell’ospedale del paese unicamente per essere più vicino a casa, ma con nessuna speranza se non nel miracolo. L’unica cosa a cui Paolo era ancora attaccato era la fede. Quanti rosari recitò in quei mesi a letto! Alla sorella che, sconfortata, gli insinuò: “Tu stai sempre peggio… Allora, a che cosa servono tante preghiere?”, lui ribatté: “Che dici? Taci! Tu non capisci niente!”.

Ad un prete amico che lo avvicinò la sera del 29 giugno uscì con un’espressione singolare: “Me ne vado… vado a casa!”. Non poteva assolutamente muoversi, per cui spiegò: “Vede, don Guido, io ho due case: una è qui a Negrar, e l’altra…” e così dicendo puntò il dito verso il cielo. Aveva sognato di donarsi al Signore diventando prete: “In futuro conto di andare in seminario per poter essere un giorno sacerdote; questo è il mio sogno che più desidero che si avveri”; “Come sapete, il mio sogno è di farmi sacerdote. È una decisione che ho meditato per molti anni…”. La malattia alla fine gli rubò anche la parola e la vista, ma il suo dono al Signore fu ugualmente completo.

Per approfondire: Don Guido Todeschini, C’è qui un ragazzo di nome Paolo, e i manoscritti

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/95913

 

Roderick Flores

RODERICK FLORES

Adolescente (1969-1984) 18 agosto

Roderick Flores, giovane scout a 15 anni muore per salvare dei compagni che stavano per affogare.

Nacque a Mandaluyong (Filippine) nel 1969, gli piaceva fare sport, danzare, passeggiare con i coetanei, a scuola era premiato per la buona condotta, frequentava l’Istituto Salesiano come studente e una delle sue abitudini era una visita al SS Sacramento nella piccola Cappella dell’Istituto, prima di iniziare le lezioni.

Ragazzo serio e di bella presenza, intelligente, frequentava la sezione Elettronica e apparteneva ad un gruppo che si era dato il nome “430 SLC” come la macchina superlusso della Mercedes; che nella psicologia della loro adolescenza, voleva indicare che erano ragazzi che nella vita volevano puntare alla qualità super.

Roderick per gli amici Erick, aveva 15 anni ed era iscritto anche negli scout del Collegio Salesiano e come scout partecipò con gli altri ad un accampamento di tre giorni in un’isola dell’arcipelago, organizzato dal “Don Bosco Technical College” di Mandaluyong.

Nel primo pomeriggio del 18 agosto 1984, i ‘senior’ Roderick e Benedicto si accorgono che due ‘junior’ mentre stavano nuotando vengono colpiti da crampi e sono in difficoltà.

Si tuffano ma una forte ondata spinge tutto il gruppo verso il largo, a questo punto anche Erick sente il morso dei crampi, allora Benedicto lo spinge a riva insieme ad uno dei ragazzi, poi torna dall’altro che impaurito si aggrappa disperatamente alle sue spalle, facendo così affondare tutti e due.

Dalla riva Erick se ne accorge e nonostante sia in preda ancora dei crampi, in un impeto di generosità si rituffa nel mare agitato, li raggiunge e li salva proprio quando una grossa ondata lo trascina via al largo sommergendolo.

Il suo corpo fu recuperato dopo tante ricerche il 25 agosto, sette giorni dopo; ai funerali del ragazzo parteciparono tutti gli studenti del collegio e gli oratoriani con le loro famiglie e pur in tanto dolore, tutti ebbero la percezione che il suo comportamento altruista ed eroico, era frutto dei migliori aspetti della comunità educativo-pastorale del collegio Don Bosco.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/92311

 

 

 

Gabriel Garcia Moreno

Gabriel Garcia Moreno

Presidente dell’Ecuador, martire (1821-1875) 6 agosto

Firmò col Vaticano un Concordato che prevedeva l’insegnamento alle Congregazioni religiose specie ai Gesuiti, l’amministrazione della giustizia alle autorità ecclesiastiche e infine consacrò l’Ecuador al Sacro Cuore di Gesù; atto che venne rinnovato da Giovanni Paolo II il 30 gennaio 1985.

Nato nel 1821 da un gentiluomo della vecchia Castiglia emigrato in America a cercar fortuna, Gabriel dimostra precoce attitudine per gli studi di ogni tipo, da giovane subisce per un certo periodo l’attrattiva della vita sacerdotale. Ma dopo qualche anno comprende che non è questa la sua vocazione e, dovendo guadagnarsi di che vivere, si avvia agli studi giurisprudenziali. Conseguita la laurea, comincia ad esercitare la professione di avvocato e si sposa, ma non abbandona la naturale curiosità per le scienze, che lo porta a pericolose spedizioni all’interno del vulcano Pichincha, a quel tempo attivo.

L’attività di avvocato non gli risulta molto redditizia, in quanto don Gabriel rifiuta di assumere il patrocinio di clienti della cui innocenza non sia assolutamente sicuro. Né, del resto, ha molto tempo da dedicare alla professione, data la sua fiera opposizione al regime. Nel 1845 si trova a prender parte a un’insurrezione armata contro il dispotico governo di Florés. Il colpo di mano riesce, costringendo Florés all’esilio. Tuttavia il successore, Roca, apre subito un periodo di malgoverno anche peggiore del precedente. Contro di lui Garcia prende la penna e fonda un foglio satirico antigovernativo, “La frusta”.

Comandante Flores

In breve tempo attorno al giornale si stringe tutta l’opposizione del paese, cosa che costringe Roca a scendere a patti. A ciò si aggiunge anche la notizia che il deposto dittatore sta tramando in Europa per tornare in Ecuador “manu militari” con l’appoggio straniero. Garcia Moreno accetta la tregua proposta da Roca e parte, provvisto di un incarico diplomatico, per un giro nei paesi confinanti, ove intavola trattative con i sostenitori di Florés. Costui però non riesce a trovare i fondi necessari per la progettata spedizione a causa dell’opposizione di Palmerston, più interessato al mantenimento dello “status quo” nella zona.

Cessato il pericolo di un’invasione straniera, Garcia Moreno rompe la tregua con Roca pubblicando un altro giornale, “El diablo”.

Non passa però molto tempo che la terra comincia a scottargli sotto i piedi, essendo Roca deciso a farla finita una volta per tutte col giovane polemista. Prima di fuggire in Europa riesce, grazie ad una infiammata campagna che trova il sostegno dell’opinione pubblica, ad ottenere il permesso d’asilo in Ecuador per i Gesuiti espulsi dalla Nuova Granada.

Sta via pochi mesi. Al suo ritorno trova che un ennesimo “golpe” ha portato al potere il massone Urbina. Questi, come primo atto del suo governo, espelle la Compagnia di Gesù dall’Ecuador.

Ancora Garcia Moreno fonda un giornale, “La Nacion”. Ma Urbina non ha la pazienza di Roca e Garcia Moreno viene immediatamente arrestato.

In prigione ci resta tuttavia poco tempo: riesce ad evadere nottetempo e a darsi alla latitanza. Durante la sua assenza, l’opposizione lo candida senatore e riesce a farlo eleggere quasi a furor di popolo. Urbina finge di arrendersi al fatto compiuto solo per potergli mettere ancora le mani addosso. Questa volta è l’esilio in Perù.

Da Lima Garcia Moreno si imbarca per Parigi. Ci resterà due anni, dal 1854 al 1856. A Parigi, la “vasta fabbrica di anticristi e di idoli”, come la definisce Louis Veuillot, entra in contatto coi circoli “ultramontani” e si familiarizza col pensiero politico cattolico che troverà di lì a poco espressione nel “Sillabo”.

Nel frattempo in Ecuador Urbina rinnova con maggior virulenza la politica anticattolica. Requisisce conventi col pretesto che le caserme sono insufficienti, si serve del diritto di “exequatur” per disfarsi dei pastori d’anime a lui molesti, incoraggia i libelli che intrattengono i lettori sulla presunta corruzione del clero. Con una legge, poi, che chiama “della libertà degli studi” autorizza gli studenti universitari a conseguire la laurea senza obbligo di frequenza (cosa a cui oggi siamo abituati, ma che allora era semplicemente scandalosa).

Infine, la necessità – tipica di ogni capo militare – di compensare i “fedelissimi”, ricade in nuovi e più pesanti tributi su un popolo già poverissimo e prostrato da anni di lotte. E a ciò si aggiunga la vendita per un tozzo di pane delle isole Galapagos agli Stati Uniti. Questo però è il colpo di grazia. Il malcontento montante fa intuire all’astuto Urbina che è giunto il momento di uscire temporaneamente di scena, infatti nel 1856 fa eleggere al suo posto il debole Roblez. Per pacificare gli animi viene concessa un’ampia amnistia. Così Garcia Moreno può tornare in patria.

Le elezioni del 1857 lo vedono senatore e – naturalmente – capo dell’opposizione. Ancora una volta fonda un giornale, “L’Unione Nazionale”, sul quale vengono quotidianamente pubblicati gli atti parlamentari, in modo che il popolo possa sapere quel che viene deciso sulla sua testa. Accetta anche la carica di Rettore dell’Università Centrale di Quito (conferitagli ad onta dell’opposizione liberale), ma non riesce a far passare una proposta di legge sulla riorganizzazione degli studi. Esponendosi come sempre, arriva a proporre in Parlamento la chiusura delle logge massoniche, anche qui vanamente. L’unico successo lo ottiene nel far abolire l’imposta di capitazione che gravava sugli indios locali, imposta odiosa e ingiusta che stremava quella gente (che perdi più viveva in condizioni di estrema indigenza ed era esclusa da ogni impiego pubblico).

La tranquillità “legale” ancora una volta non dura molto. Prendendo spunto da una disputa territoriale col vicino Perù, Urbina trova il modo di far imporre la legge marziale. Ma adesso c’è Garcia Moreno in patria ed è subito rivolta. Per qualche mese don Gabriel vive fra battaglie, agguati, fughe rocambolesche, assedi. La sorte tuttavia è sfavorevole agli insorti e una volta in più Garcia Moreno deve fuggire.

Rimasti padroni della situazione, i liberali cominciano ad azzannarsi fra loro e dalla riaccesa lotta delle fazioni emerge un “uomo nuovo”, Franco, che riesce a prendere in pugno la situazione grazie all’appoggio militare del Perù (cui ha promesso generosi compensi territoriali).

Questo da nuovo slancio alla resistenza conservatrice che reclama Garcia Moreno alla sua testa. Con un incredibile attraversamento della jungla – da solo – questi giunge in Ecuador e riorganizza l’opposizione. Catturato ancora una volta, ancora una volta riesce a fuggire e a rientrare subito dopo (altra marcia romanzesca, adesso attraverso le Ande). E’ la guerra civile. Da una parte è Garcia Moreno, coi conservatori e il popolo; dall’altra, Franco, i liberali e l’esercito, con l’appoggio del Perù.

Per far cessare lo sterminio fratricida invano Garcia Moreno propone a Franco l’esilio per entrambi; la lotta continua, ma alla fine la vittoria arride definitivamente agli insorti. Il 24 settembre 1860 (mentre nell’altro emisfero Garibaldi prosegue la sua opera in Sicilia) Franco è battuto a Guayaquil. Viene approvata a furor di popolo la richiesta di Garcia Moreno di consacrare l’esercito a Nostra Signora della Mercede e la costituzione di un governo provvisorio eletto a suffragio universale.

Nel “fatale” 1860 l’Ecuador si dà un Presidente della Repubblica cattolico “intransigente”.

La sua azione immediata prevede un taglio drastico delle spese, licenziamento in tronco dei funzionari disonesti o incapaci, verifica sistematica di tutti i debiti pubblici con eliminazione di quelli fraudolentemente contratti. La creazione di una Corte dei Conti davanti alla quale far comparire periodicamente gli agenti del fisco, dichiarati personalmente responsabili, completa l’opera.

Del suo assegno presidenziale Garcia Moreno fa il seguente uso: metà lo versa nelle casse dello Stato, l’altra metà va al Fondo per le Opere Caritative.

Permette la costituzione di un’armata professionale agile e ben pagata; diffusione delle scuole libere e affidate a ordini religiosi, cosa che toglie allo Stato il peso dell’educazione pubblica; altro disgravio per le finanze statali è ottenuto con l’affidamento ad altri ordini religiosi degli ospedali e delle carceri. Lo Stato si riserva naturalmente il compito dell’alta supervisione e dell’eventuale sostegno, secondo il principio di sussidiarietà.

Nel 1862 Garcia Moreno chiude per l’Ecuador quattro secoli di supremazia dello Stato sulla Chiesa col proporre a Pio IX un Concordato. Questo Concordato sarà il più favorevole al cattolicesimo che la Chiesa avrà mai avuto. Con esso si ridà semplicemente al Papa la giurisdizione totale sul clero dell’Ecuador, cosa che contribuisce non poco al ritorno dell’ordine nel paese. Il clero locale, infatti, da sempre “selezionato” di fatto dallo Stato era largamente imbevuto di idee liberali. Questo, oltre a screditarlo agli occhi del popolo, lo rendeva praticamente prono ai voleri del padrone del momento.

Lo stesso anno un incidente di frontiera, causato dalla guerra civile che insanguina la vicina Nuova Granada (Colombia), porta Garcia Moreno alla testa delle truppe. Ne nasce una breve guerra che gli costa una ferita alla gamba.

Ma nello Stato confinante va al potere la fazione massonica, la quale scatena contro l’Ecuador un’offensiva che ricorda molto il sistema usato dai Piemontesi per impadronirsi della penisola italiana.

Nessun “perdonismo“: la pietà vada indirizzata dove deve andare. “Vi scongiuro di aver pietà per gli innocenti che perirebbero per causa vostra, perché se io risparmio questi criminali, domani il sangue correrà in qualche nuova rivoluzione“.

Naturalmente, alla data della scadenza del mandato presidenziale, il numero dei nemici interni ed esterni di Garcia Moreno è incalcolabile. Tutti i funzionari destituiti, tutto il clero liberale, tutti i generali mandati a spasso o in esilio, tutti gli sfruttatori che si sono visti chiudere il rubinetto degli affari, hanno una sole voce: “Morte al tiranno!”.

La Presidenza passa al moderato Carrion, brava persona, ma più preoccupato di apparire al di sopra delle parti che d’altro. Durante il suo mandato Garcia Moreno rimane ferito nel primo di quegli attentati di cui sarà d’ora in poi quasi ininterrottamente oggetto.

Benché ferito da tre colpi di rivoltella, riesce ad uccidere il suo assalitore, ma si guadagna un’imputazione per omicidio da parte dei giudici liberali che il debole Carrion ha nel frattempo reintegrato. Viene assolto, ma perde ogni incarico pubblico e deve ritirarsi a vita privata.

Jerónimo Carrión

Non ci vuol molto perché Carrion diventi (in assoluta buona fede, quella che per eccesso di democratismo diventa dabbenaggine) lo zimbello dei liberali. Nel giro di pochi mesi tutto è come prima e peggio di prima: il Concordato è abolito, le vecchie leggi ripristinate, i religiosi espulsi.

Convinto dagli amici Garcia Moreno si ricandida senatore e viene eletto a schiacciante maggioranza. Ma la giunta per le Elezioni convalida tutte le nomine, tranne la sua.

Il 13 agosto 1868 un terremoto di inaudite proporzioni, accompagnato da eruzioni vulcaniche, fa strage nella provincia di Ibarra, tagliandola fuori dal resto del paese. Subito bande di predoni e di indios confinanti calano sulla preda, mettendo a sacco quel che ne resta. Espinosa nomina Garcia Moreno capo militare e civile della provincia, con pieni poteri. Questi immediatamente interviene e, operando con la solita energia, in breve tempo riesce a mettere le cose a posto, cosa che accresce la sua già grande popolarità.

Garcia Moreno viene eletto per la seconda volta il 1869. Reso più accorto dalle precedenti esperienze, questa volta Garcia Moreno non ha esitazioni: la sua prima misura è quella di chiudere senz’altro l’Università di Quito, vero e proprio “cervello” della rivoluzione radicale. Il suo secondo atto è quello di ristabilire il Concordato. Terzo atto: fa votare (e ottiene all’unanimità) una Costituzione tratta di peso dal “Sillabo”. Questo il preambolo: “Nel nome di Dio, Uno e trino, autore, conservatore e legislatore dell’Universo, la Convenzione Nazionale ha decretato la presente Costituzione“.

All’articolo primo si dichiara “la Religione Cattolica Apostolica Romana religione dello Stato ad esclusione di ogni altra” e che lo Stato “la mantiene nel possesso inalienabile dei diritti e delle prerogative di cui le leggi di Dio e le prescrizioni canoniche l’hanno investita con l’obbligo per i pubblici poteri di proteggerla e farla rispettare“. E in uno degli articoli successivi si enuncia il principio “che non si può essere elettore o eleggibile, o funzionario di qualunque categoria senza professare la Religione Cattolica“.

Introduce nel codice penale sanzioni contro i bestemmiatori e gli ubriaconi. Per gli alcolizzati cronici inaugura un vero e proprio servizio sociale di affidamento e di assistenza. Ai concubinari viene imposto il matrimonio o la separazione in alternativa. Ben distinguendo tra “moralismo” protestante e “moralità” cattolica, procura di far presente a costoro che sono liberissimi di perdersi, ma non di dare pubblico scandalo.

Questa volta passa anche il suo vecchio progetto di riforma degli studi. Scuole gratuite e libere obbligatorie per tutti fino a dodici anni. Gli adulti che si rifiutano di seguire un corso di istruzione vengono pesantemente multati. Corsi speciali sono istituiti per i carcerati e i militari di truppa. Con insegnanti importati dagli Stati Uniti nascono le prime scuole professionali e l’Osservatorio Astronomico internazionale di Qito.

Nascono orfanotrofi e case di accoglienza per ragazze, in un’epoca in cui miseria e prostituzione vanno di pari passo. (Alla morte di Garcia Moreno le case di accoglienza per fanciulle saranno le prime ad essere smantellate). I vecchi sanatori sono rasi al suolo e sostituiti con moderni ospedali. Per fare fronte a tutte queste spese si economizza su tutto.

Ma l’opera più importante di Garcia Moreno è la costruzione di strade che cambia in breve tempo il volto del paese, avviando uno sviluppo economico che la mancanza di infrastrutture rendeva impensabile.

Garcia Moreno cominciava la sua giornata con l’orazione e non prendeva decisione importante senza aver trascorso qualche tempo in adorazione davanti al Santissimo. Più d’una volta si vide il Presidente dell’Ecuador, rivestito delle insegne del suo grado, caricarsi della croce nelle processioni e precedere il popolo.

Adesso la pelle di Garcia Moreno non vale un soldo, questo è ormai sulla bocca di tutti. A chi gli suggerisce di circondarsi di una scorta, fa notare che non avrebbe modo di proteggersi dalla scorta stessa. Così arriva a quel fatale 6 agosto 1875. Viene letteralmente crivellato di colpi all’uscita della cattedrale. “Dios no muere“, è la sua ultima frase. La folla lincia parte dei congiurati; gli altri se la cavano con condanne miti e con l’esilio.

Comincia per l’Ecuador un lungo e nero periodo contrassegnato dalle persecuzioni religiose, le confische di beni ecclesiastici, gli avvelenamenti di vescovi, i “golpe” continui.

I lavori pubblici restano al punto in cui Garcia Moreno li ha lasciati.

Pochi giorni prima della sua morte, nel salutare un amico che partiva non riuscì a trattenere le lacrime: “Addio, non ci rivedremo mai più. Sto per essere assassinato“.

 

 

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/92097

 

 

Fernando Calò

Fernando Calò

Adolescente (1941-1956) 26 luglio

Figlio di una ragazza madre e piuttosto irrequieto, una volta entrato in un istituto salesiano cambia completamente riavvicinandosi alla Chiesa, facendo riavvicinare anche la mamma e diventando apostolo fra i suoi compagni. Morì per un incidente durante una partita a pallone.

L’essere santi non è un privilegio di pochi, ma una meta per tutti, senza limiti di età o condizione sociale; i giovani in particolare, seguiti dagli adolescenti e dai ragazzi, non sono mai mancati nella storia della Santità Cristiana; anche se per un lungo periodo, la Chiesa non ha preferito proclamare santi o beati dei fanciulli o adolescenti.

Poi questa preclusione è venuta meno e tanti giovani e ragazzi sono saliti o stanno per salire all’onore degli altari, inoltre le cause in corso hanno subito un’accelerazione; ne citiamo alcuni:

Servi di Dio: Silvio Dissegna 12 anni di Moncalieri (TO); Aldo Blundo 15 anni di Napoli; Angela Iacobellis 13 anni di Napoli; Girolamo Tiraboschi, novizio camilliano di Cremona; Giuseppe Ottone 13 anni di Torre Annunziata (NA); venerabili Maggiorino Vigolungo 14 anni, aspirante Paolino di Benevello (Cuneo); Mari Carmen Gonzalez-Valerio 9 anni spagnola; i beati Giacinta Marto 10 anni e Francesco Marto 11 anni, veggenti di Fatima in Portogallo; beato Nunzio Sulprizio 19 anni di Napoli; beato Pedro Calungsod di 18 anni, martire filippino; beati David Okelo 16 anni e Gildo Irwa 12 anni, martiri ugandesi; beata Laura Vicuña 13 anni cilena; san Domenico Savio 15 anni, oratoriano di don Bosco; santa Maria Goretti 12 anni di Nettuno (Latina), ecc.

Velocemente accenniamo anche ai santi adolescenti e martiri dei primi tempi cristiani, come s. Tarcisio, s. Vito, s. Pancrazio, s. Agata, s. Agnese; a questo incompleto elenco, si aggiunge la miriade di ragazzi e fanciulle volati al cielo prematuramente e che hanno lasciato una scia luminosa di virtù ed esempio, tanto da meritare di essere additati come ‘Testimoni della fede del nostro tempo”.

 

A questo gruppo appartiene il portoghese Fernando Calò di 17 anni, il quale nacque in piena guerra Mondiale nel 1941, probabilmente ad Estoril in Portogallo; fu uno dei tanti bambini nati da un rapporto fugace, specie in tempo di guerra, quando il domani era privo di ogni certezza.

Non conobbe mai il padre, il calore di una casa e l’affetto di una famiglia; la mamma Giuseppina Perreira, ragazza-madre, faceva la domestica e trascorreva poco tempo con lui.

Fu affidato ad un orfanotrofio, da dove non si sa perché, passò in un ospizio per vecchi, dove patì la fame e povertà e naturalmente la mancanza di svago e la serenità necessaria per ogni bambino.

Trascorse presso una zia qualche mese, ma la sua vivacità repressa per tanto tempo, non era sopportata, perciò la zia lo collocò nell’Istituto Salesiano di Estoril, tornando ogni sera nella poverissima casa con la mamma.

Fernando scoprì così un nuovo mondo, poteva correre e giocare al calcio, sua grande passione nel vasto cortile dell’Istituto senza essere rimproverato continuamente; ma con i Salesiani questo bambino di otto anni, conobbe anche la gioia della preghiera e la devozione alla Madonna (era stato battezzato quasi per caso ad un anno e mezzo) e a sera quando tornava dalla mamma pregava con lei prima di addormentarsi.

Purtroppo la madre, resa dura dalla vita stentata, da anni non frequentava più la chiesa e quando Fernando la domenica l’invitava ad andare a Messa con lui, trovava sempre una scusa per non andarci.

Terminate le scuole elementari, passò alla scuola professionale, sempre dei Salesiani a Lisbona. Profondeva molto impegno nello studio riuscendo anche bene nel profitto, ma non sempre riusciva a tenere a bada il suo temperamento focoso, scattava ad ogni rimprovero o contrasto con i compagni, riuscendo a stento a trattenersi; sempre incline a buttar fuori tutta la rabbia che aveva in sé; irruente, vivace e ribelle, frequentava fra i compagni, alcuni poco raccomandabili.

Con questo quadro era logico che stesse sempre sotto il controllo degli assistenti, ma il direttore dell’Istituto aveva ben compreso la parte nascosta della sua personalità e delle sue qualità e un giorno lo chiamò e gli fece una proposta abbastanza singolare, essere apostolo proprio tra quei compagni più difficili e recalcitranti.

Fernando capì la fiducia del direttore nei suoi riguardi e quindi accettò; formò un gruppetto di quattro amici con carattere difficile e con loro iniziò un lavoro di apostolato, basato prima di tutto sul suo cambiamento interiore, migliorava ogni giorno diventando paziente e docile, acquistando un maggiore equilibrio nel dominare i suoi scatti e la sua passione, il gioco del calcio.

Verso la fine del 1954 iniziò a scrivere un diario, che è rimasto il testimone del suo impegno a migliorare; il 20 febbraio 1955 scriveva: “Primo giorno di Carnevale. Per riparare le offese che Gesù riceve sono andato in cerca di alcuni compagni per pregare insieme. Ho chiesto a Gesù di avere compassione di tutti quelli che lo offendono con divertimenti cattivi”; “Un ragazzo mi ha chiesto la merenda. Mangiavo di gusto. Ma offrii il piccolo sacrificio per la conversione di mia madre”.

Nel marzo 1956 le sue preghiere furono esaudite, la mamma decise di confessarsi, fra la gioia di Fernando; negli Esercizi Spirituali tenuti nell’aprile 1956 prese tre impegni:

1 – Voglio soggiogare la mia curiosità; voglio mortificare la mia vista.

2 – Voglio essere un apostolo della Vergine Immacolata.

3 – Voglio essere sacerdote.

Ma il Signore chiedeva a Fernando molto di più. Il 20 aprile 1956 durante una partita di calcio nel cortile, andò a sbattere con violenza con la testa contro una colonna del porticato.

L’impatto fu tremendo e rimase stordito per un po’ di tempo, passò qualche giorno in infermeria, ritornato a giocare con i compagni ebbe uno scontro con un avversario di gioco, la classica zuccata, subentrarono fortissimi dolori di testa, sproporzionati all’accaduto.

Fu ricoverato nell’ospedale di Lisbona e lentamente perse l’udito, i medici non capivano cosa poteva essere successo nella testa di quel ragazzo che peggiorava ogni giorno.

Si decise di operarlo, nel frattempo un compagno preoccupato gli domandò: “Fernando e se morissi?”, rispose “Sono pronto!… Si gioca a calcio anche in Paradiso, no?”.

Il 26 luglio 1956 entrò in sala operatoria, da dove purtroppo non uscì vivo, aveva quasi 17 anni.

Autore: Antonio Borrelli

Fontehttp://www.santiebeati.it/dettaglio/92262

Padre Aldo Giachi

Padre Aldo Giachi

Gesuita (1927 -1989) 21 luglio

Rimasto senza genitori comincia a parlare di quel Gesù che lui ama come il primo Amico, ripromettendosi di diventare predicatore e nonostante una pesante disabilità darà prova di grande fede, coraggio e amore.  

Padre Aldo è nato l’11 aprile 1927, un Venerdì Santo, in una piccola città, chiamata Stia, vicino a Firenze. Il padre era pastore di greggi mentre la madre era una casalinga. Bambino buono, sempre allegro, socievole nei giochi con compagni e amici. A 5 anni perse la madre in un incidente (un colpo di fucile). Il piccolo rivela un coraggio singolare. Tra i compagni appare come un leader e spesso sale su una sedia e comincia a predicare su quel Gesù che lui ama come il primo Amico. Anzi dice che da grande desidera diventare predicatore.

Anni dopo, la sua famiglia andò a Roma e suo padre si risposò; da questo matrimonio nacque un’altra sorella. Più tardi, il padre malato di cancro morì e la famiglia venne divisa. Aldo ormai solo vuole consacrarsi a Dio e rimane a finire la scuola elementare con una zia e uno zio a Roma, una sorella rimane con la madre e l’altra con altri zii in Toscana.

A 18 anni, decide di entrare nella Compagnia di Gesù per diventare prete, a causa di un’ulcera gastrica deve lasciare momentaneamente gli studi. Guarito in seguito ad un dolorosissimo intervento, subìto quasi tutto da sveglio e offrendo le sue sofferenze con Gesù Crocifisso per la sua vocazione, rientra in noviziato nel ‘46, a Galloro.

Nel maggio ‘48, i tre voti, semplici ma perpetui, che per la sua gioia lo rendono gesuita per sempre. Il suo modello è P. Agostino Pro, gesuita, fucilato a Città del Messico, il 23 novembre 1927, in odio alla fede, dai segugi di Calles. Anche Aldo vuole morire martire per Gesù.

Nel 1949, all’età di 22 anni durante una vacanza in montagna, si accorge di avere problemi a piegare il ginocchio, mentre suonando il pianoforte ha difficoltà a muovere il pollice della mano destra.

Dopo alcune indagini scoprono che si tratta di tumore spinale cervicale. Lo attendeva un lento declino fino alla morte nel giro di sei mesi. Ma padre Aldo categoricamente si rifiuta di morire. Inizia così la sua battaglia. Quando è ormai incapace di muoversi, studia sul suo letto, con l’aiuto degli amici per realizzare il suo sogno di diventare un sacerdote e dedicare la sua vita a Dio e al servizio degli altri.

Studia con ottimo profitto. È sereno e forte. La sua preghiera si fa sempre più intensa. Ma come ordinarlo sacerdote in quelle condizioni? Come avrebbe svolto il suo ministero, immobilizzato su una sedia a rotelle? Aldo non si perde di coraggio: scrive al Santo Padre Pio XII, il quale da vero padre e “pastore angelico” qual è, gli concede il sacerdozio. Il 5 gennaio 1957, Aldo Giachi è ordinato sacerdote nella cappella di Villa Vecchia a Mondragone, dal Vescovo di Frascati, Mons. Budelacci.

Si dedica subito al ministero delle confessioni e della direzione spirituale ai ragazzi del Collegio di Mondragone e ad esterni che accorrono a lui, sempre più numerosi per la stima di santità che emana dal suo costante sorriso.

Lavora come sacerdote in un movimento religioso di disabili, partecipa alle proteste nel centro di Roma per chiedere leggi più giuste per i pensionati e per i lavoratori disabili.

Per questo, nel ‘64, riesce a farsi trasferire al Centro riservato ai grandi invalidi di guerra sulla Via Ardeatina, dove trova il suo secondo fruttuoso campo di lavoro. Per anni, gira per le corsie in carrozzella, spesso fischiettando. Ma P. Aldo Giachi non si ferma lì: vuole partire come missionario e presenta la domanda, tra lo stupore dei superiori.

Il 12 aprile 1968, incredibile ma vero, pur essendo “un prete a 4 ruote”, come ama definirsi, parte dall’aereoporto di Fiumicino con due infermieri, per il Cile, per rimanerci per sempre. È il venerdì santo, quel giorno, e P. Aldo porta al collo il Crocifisso dei missionari. Per 21 anni di permanenza in missione, compirà veri e propri miracoli, facendo da malato assai più di molti sani, diventando un faro di luce per il Cile e oltre il Cile, dovunque riuscirà a far giungere la sua testimonianza.

Per 13 anni, P. Aldo è cappellano dell’Ospedale del Salvador. Contemporaneamente, fonda il Centro Esperanza Nuestra a Maipù con un servizio particolare verso i malati cronici.

Al centro di tutto, pone la Santa Messa: “Il sacerdote – annota nel suo diario spirituale – è l’uomo del sacrificio. Oggi l’unico sacrificio è quello della Messa. È da molto tempo che la grande gioia della mia giornata è la mia Messa. Il poter dare la vita, il poter rendere presente in Corpo, Sangue, Anima e Divinità Gesù stesso in forma di vittima nelle mani di un sacerdote vittima; il poter parlare con Dio, il poter adorarlo e visitarlo nel SS.mo Sacramento, il poter chiedere direttamente forza, coraggio, sorriso, il poter chiedere consiglio a Lui con semplicità, questa è la grande gioia della mia giornata“.

Scrive: “Darsi all’apostolato è darsi alla Croce. Darsi a Dio è darsi alla Croce. Darsi alle anime è darsi alla Croce. Le anime si pagano di persona“.

Ho il desiderio di essere preso. Prendimi, Gesù, schiacciami, strizzami, straziami, dammi tutto: per la Chiesa, per le vocazioni, i malati, prendi ciò che vuoi. Moltiplica il mio amore, prendimi tutto per sempre. Tu solo, Gesù, mi basti… conquistami… sì“.

Accanto a lui, fin dall’inizio ci sono uomini e donne che, attratti dal suo esempio e dal suo coraggio eroico, chiedono di dedicarsi alle sue attività. Alcuni di loro si trasformano quasi in sue mani in suoi piedi per sviluppare il possibile le sue attività. Sono volontari cileni, missionarie italiane che offrono la vita e le mani colme di amore, collaborando, con P. Aldo, crocifisso vivente.

Avrebbe dovuto, secondo i medici, morire nel 1951. Invece, incanta coloro che incontra con il fascino di una vita straordinariamente ricca e donata, in 38 anni di infermità, fiorente di configurazione a Gesù in croce e di amore ai fratelli più sofferenti, moltiplicando all’inverosimile talenti e iniziative. Sino all’ultimo.

Il 21 luglio 1989, dopo 24 ore appena di lucida agonia, va incontro a Dio, “avendo amato i suoi sino al culmine, come Gesù” (Gv 13,I). Aveva pensato nella sua continua meditazione-preghiera anche alla sua ultima ora, scrivendo nel suo diario: “Che bello poter morire senza lasciare moglie e figli, senza che nessuno pianga, morire solo ed essere dimenticato da tutti, ma andare da Dio, casto, povero, obbediente e innamorato di Cristo!“.

Fonti: http://www.santiebeati.it/dettaglio/95064; http://www.esperanzanuestra.cl/sitio/?page_id=118

 

Luca Greco

LUCA GRECO

Adolescente (1982-1995) 10 luglio

Era un ragazzo che sprigionava allegria da tutti i pori della pelle, un’esplosione di vita, a volte incontrollabile; ma sotto l’aspetto simpatico e sornione, si nascondevano tutti i sentimenti, gioie e delusioni, incertezze, piccoli innamoramenti tipici dell’età adolescenziale.

Luca Greco nacque a Nociglia (Lecce) il 10 luglio 1982; figlio di Giovanni Greco maresciallo dell’Aeronautica Militare, la mamma si chiama Venturina casalinga; aveva due fratelli Daniele e Chiara più piccoli di lui.

Dotato di bellissimi occhi azzurri, fin da piccolo dimostrò un vivo interesse per le meraviglie della natura, e il cielo, il mare, le nuvole, gli animali, i fiori, erano per lui oggetto di continua osservazione.

Amava disegnare e dipingere, ma soprattutto andare in bicicletta, nuotare e tuffarsi sott’acqua a mare. L’amore per la natura e per gli spazi aperti, gli fecero scrivere su un foglio: “Cosa farò da grande? Mi piacerebbe soprattutto fare il pilota per volare nel cielo. Volerei ogni giorno per divertirmi e vedere il panorama. A me è sempre piaciuto volare e vedere il mondo dall’alto al di sopra di tutto e osservare le nuvole”.

La sua vivacità gli faceva sfiorare pericoli in più occasioni, provocando punizioni dai genitori; ma in fondo al suo cuore non era superficiale, anzi le frasi, i temi in classe, i propositi, da lui scritti, rivelano una profondità d’animo e una consapevolezza dei gravi problemi della gioventù, cita i bambini poveri, i drogati, i piccoli defunti, gli affamati e senza casa.

Per Luca Greco gli amici erano importanti, li prendeva in giro ma non li tradiva mai, frequentava l’Azione Cattolica della sua parrocchia, andava a Messa con il padre ogni domenica.

Amava profondamente la vita, cosciente che è un dono di Dio e scriveva per questo:

La vita è una cosa bella, un dono di Dio. La vita è come una continua esplorazione perché ogni giorno si scoprono cose nuove. Essa è come una lunga strada che ha un termine. La vita è piena di cose belle e non belle così l’uomo ha sempre voglia di vivere e di non morire mai. E bisogna ancora una volta sperare che la vita sia lunga”. (Luca Greco)

Ma la vita tanto desiderata e programmata, stava per finire per lui e in un modo opposto a quello del volare nei cieli aperti dei suoi sogni. Proprio nel giorno del suo 13° compleanno, il 10 luglio 1995, mentre in casa lo attendevano con gli amici per festeggiarlo, una frenetica bussata di porta di un suo compagno, annunciò che Luca era caduto nel pozzo dell’asilo.

Tutto il paese di Nociglia accorse al pozzo, profondo 130 metri e largo 46 cm., non si sapeva se il ragazzo era ancora vivo, solo che era incastrato verso i 64 metri, circa a metà pozzo.

Incidente di Vermicino

A tutti venne in mente che si stava ripetendo la tragedia di Vermicino vicino Roma, quando il 10 giugno 1981 il piccolo Alfredino Rampi di sei anni, perse la vita in fondo ad un pozzo, dopo lunga agonia e nonostante i tentativi fatti per salvarlo.

E la tragedia si ripeté; verso mezzanotte uno speleologo di 19 anni Luigi Valiani, si calò nel pozzo per un ultimo disperato tentativo, raggiungendo Luca incastrato, ma che purtroppo era già morto, riuscì solo ad imbracarlo e così fu tirato fuori, fra la folla che applaudiva ignara della morte già avvenuta.

Dopo i funerali, celebrati nella Chiesa di S. Nicola a cui partecipò tutto il paese, in coda al corteo funebre si misero tutti gli amici di Luca con le loro biciclette, per accompagnare il loro amico di pedalate al cimitero.

Autore: Antonio Borrelli

FONTE:  http://www.santiebeati.it/dettaglio/92267

 

Bianca Chilovi

BIANCA CHILOVI

Laica (1909-1934) 8 luglio

Nata il 5 agosto, la mamma la consacra subito alla Madonna della Neve nel giorno della Sua festa, crescendo con una devozione mariana tutta speciale, che diventa ancor più convinta dopo la lettura del celebre “Trattato” di San Luigi Grignion di Monfort.

Bianca Chilovi nacque il 5 agosto 1909 a Taio comune della famosa Val di Non (l’antica Anaunia) in provincia di Trento; in questa Valle che insieme alla Val di Sole è attraversata dal fiume Noce, con immensi frutteti di pregiate mele e con tante località d’attrazione religiosa o turistica, come il santuario di S. Romedio o la diga di S. Giustina, essa nacque, visse e morì.

Quinta dei quindici figli di Arcangelo Chilovi e Anna Chini, una coppia di modesti ma onesti e pii valligiani; il padre artigiano frustaio, di cui era un accurato e premiato lavoratore dei manici. Il papà, ha sempre sognato una famiglia che fosse cristiana sul serio e per non sbagliare a scegliere moglie ha fatto anche una novena alla Madonna: riterrà sempre una grazia di quest’ultima il colpo di fulmine che lo fece innamorare di Anna Chini con la quale darà vita alla famiglia dei suoi sogni.

Nella loro casa si viveva nella gioia e nei dolori dell’esistenza familiare, ma sempre alla presenza di Dio, con la preghiera giornaliera e con la frequenza dei riti nella parrocchia del loro Comune di Taio.

In questo ambiente patriarcale e di sani costumi, cresce Bianca in allegria con i numerosi fratelli e sorelle, anche se offuscata da una malattia agli occhi, che la colpisce verso i sei anni e poi dal mutato clima generale, diventato pesante per la guerra fra l’Italia e l’Austria nell’ambito del Primo Conflitto Mondiale e che vedrà la sua regione, il Trentino coinvolto nelle battaglie.

Frequenta dal 1915 la scuola popolare (elementare) a Taio, nel contempo, con serietà frequenta il catechismo, sul testo da poco in vigore di papa Pio X; a sette anni riceve la Prima Comunione, instaurando sin da allora un rapporto con Gesù sacramentato, che lei sente vivo nel Tabernacolo e che desidera conoscerlo per maggiormente seguirlo.

Non è forte in salute, sta spesso malata, i primi due anni di scuola sono abbastanza stentati; fortunatamente la salute migliora e gli anni dalla terza alla quinta classe, trascorrono pieni di vitalità, amicizia, compartecipazione al mondo che la circonda, dimostrando una maturità di vita e di fede, superiore alla sua età, per questo è indicata come un modello, spesso è invidiata.

Passata la bufera della guerra, gli animi cominciano a rasserenarsi e Bianca si prepara a ricevere la Cresima dal vescovo di Trento, la cerimonia avverrà il 27 giugno 1919 nella parrocchia di Sanzeno, la cui chiesa era la più importante della Val di Non, perché custodiva le reliquie dei santi evangelizzatori dell’Anaunia, Sisinio diacono, Martirio lettore e Alessandro ostiario, martirizzati nel 397.

Verso gli undici anni inquadra la sua vita ad un impegno attivo cristiano, si iscrive nelle “Figlie di Maria” la benemerita associazione parrocchiale che tanto bene fece alle ragazze italiane; frequenta con impegno le riunioni dell’Azione Cattolica per crescere nella fede, dedicandosi alle missioni ed alle vocazioni. Intanto si rende utile in casa, alla sua numerosa famiglia ed aiuta nel lavoro dei campi; crescendo, ormai signorina, continua a raccogliere offerte per le Missioni, per il seminario, per aiutare i sacerdoti poveri; si interessa delle bambine dell’Azione Cattolica, sulle quali ha un grande ascendente.

Tra il 1924-25 passa a lavorare come commessa in un negozio di calzature, dalla padrona dell’esercizio commerciale, originaria di Vienna, impara un po’ di tedesco che le viene utile, specie con i bambini, figli dei proprietari.

Ha 19 anni quando cede all’impeto del suo cuore, traboccante d’amore per Gesù, e così con il consiglio del parroco di Taio, che la conosce da bambina, del viceparroco suo confessore e con il consenso dei frastornati genitori, il 26 dicembre 1928 Bianca Chilovi parte per Trento, accompagnata dalla mamma Anna ed entra come postulante fra le “Suore di Maria Bambina”, fondate nel 1837 da santa Vincenza Gerosa.

Ma vi rimarrà poco più di tre mesi, perché presa dalla nostalgia della famiglia, nel contempo ha constatato che non era una vita fatta per lei, lascia l’Istituzione fra il rammarico della superiora e della maestra delle novizie.

Ritornata in famiglia diventerà ‘monaca nel mondo’ dicendo ad una zia: “Nel mondo posso acquistare più meriti; ci sono più sacrifici da fare”. Superato l’iniziale senso di disagio, per la sua uscita dal convento, si rituffa nelle attività della parrocchia di Taio, dove il 14 febbraio 1929 era stato fondato il Circolo di Azione Cattolica, che sarà il principale luogo del suo apostolato e del suo impegno.

Legge e medita il bel “Trattato della vera devozione a Maria” di s. Luigi Grignion de Monfort” (1683-1716), l’innamorato della Madonna, il quale afferma che si raggiunge la vetta della ‘vita a due’ con il Signore, affidando tutto se stessi alla Madonna; Bianca colpita da questa convinzione il 31 maggio 1930, fa la sua ‘consacrazione’ alla Madonna.

Ma sarà l’Azione Cattolica che la vedrà impegnata in tanti diversi incarichi, come delegata del canto, delegata delle sezioni minori, segretaria dell’Associazione, socia effettiva, delegata delle missioni.

Il 30 settembre 1933 ha la gioia di vedere il fratello Alberto di 13 anni, che parte per Asti per farsi sacerdote tra gli ‘Oblati di s. Giuseppe d’Asti’, fondati da s. Giuseppe Marello nel 1878, Bianca lo accompagna fino al paese vicino, assicurandogli le sue preghiere, affinché la sua vocazione sia tenace fino al raggiungimento della meta.

Del resto questo sarà il suo sogno per il resto della sua esistenza: “La mia vita per i sacerdoti”; comprenderà che oltre tutto il resto, il suo compito maggiore sarà l’immolazione con Gesù per la Chiesa, per le missioni, per le vocazioni, per la santità dei sacerdoti, diventerà dunque ‘l’apostola degli apostoli’, operando tutto in spirito di offerta al Padre.

All’inizio del 1934, per aiutare la famiglia, va a lavorare come commessa alla ‘Cooperativa’ del paese, trasformando il lavoro in apostolato, diffonde attorno a sé gioia e fiducia e chiunque l’incontra ha la sensazione di vedere una persona posseduta da Dio.

Ma il momento della sua immolazione è arrivato, il 10 giugno 1934 pur continuando le sue attività, accusa febbre alta e malore, và in chiesa a pregare dinanzi al Sacro Cuore e dove testimoni asseriscono che prese a piangere a dirotto, forse un presagio per una imminente ed inaspettata fine.

Il martedì è a letto con febbre a 40°, la diagnosi, grave oggi, a quei tempi era mortale, si trattava di tifo addominale; combatté con la malattia per tre settimane, il 2 luglio viene condotta all’ospedale di Cles, centro principale della Val di Non, visto la contagiosità del male, ormai in casa non poteva più restare.

Assistita dalle suore ospedaliere, che oggi non si vedono quasi più per nostra sfortuna, riempì i suoi giorni con la recita del Rosario; il 5 luglio riceve gli ultimi sacramenti, ormai attende in pace la sua ‘ora’ di unirsi al suo Gesù, unico Amore della sua vita; muore l’8 luglio 1934 ad appena 25 anni; i suoi funerali svoltasi a Taio il 10 luglio, furono un trionfo, con la partecipazione di tutti i concittadini che convinti, esclamavano: “Bianca è una santa!”.

Ed ora si auspica, che venga più conosciuta questa splendida figura di laica impegnata, e additata come esempio di eroismo caritativo al pari di tante altre ragazze che come lei hanno vissuto e sofferto per Cristo nella loro casa e nelle associazioni, come la serva di Dio Filomena Genovese di Nocera (SA), s. Gemma Galgani di Lucca, la serva di Dio Concetta Lombardo di Catanzaro, la serva di Dio Anastasia Ilario di Napoli, la serva di Dio Paola Renata Carboni di Fermo, la beata Pierina Morosini di Bergamo.

Autore: Antonio Borrelli

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/91682

Nicolino di Meo

NICOLINO DI MEO

Aspirante Rogazionista (1920 – 1936) 2 luglio 

Il suo desiderio di diventare sacerdote sembrò realizzarsi quando entrò nella Scuola Apostolica dei Padri Rogazionisti, ma venne meno quando il ragazzo si ammalò di tubercolosi, che gli fece lasciare questo mondo all’età di sedici anni.

Nicolino, figlio di Giovanni Di Meo e Maria Antonia Pellegrino, nacque a Trani il 5 marzo 1920. Prima di lui erano venute due gemelle, morte nell’infanzia, e fu seguito da Tonino, il quale scomparve ad appena otto giorni dalla nascita. Venne cresciuto alla fede dalla zia Laura Pellegrino, alla quale chiedeva spesso quando avrebbe fatto la Prima Comunione.

Quel momento tanto importante avvenne il 1 maggio 1927. Poco dopo, chiese alla zia d’iscriverlo nel circolo San Benedetto, per i fanciulli cattolici della parrocchia di Santa Chiara. Da allora, non mancò mai né alle riunioni del Circolo, né alla Messa, che serviva in quanto chierichetto.

In quinta elementare, rispose al maestro, che gli domandò cosa volesse fare da grande, che voleva essere sacerdote, con questa motivazione: «Io voglio lavorare affinché tutti siano buoni». Di lì a poco, manifestò la sua intenzione al parroco don Giovanni Carbone, che acconsentì a raccomandarlo per il Seminario diocesano. Purtroppo, il sacerdote sostenne un altro ragazzino, forse perché era più povero di lui. Nicolino inizialmente si dispiacque, poi intensificò la sua vita spirituale.

Papà Giovanni, uomo pragmatico, pensò che fosse il caso di avviare il figlio ad un’attività lavorativa, in attesa che le cose cambiassero. Così, il 14 dicembre 1931, gli fece iniziare un lavoro come scalpellino: fu il piccolo stesso a sceglierlo, in modo da poter adempiere liberamente ai propri doveri religiosi. L’ambiente di lavoro era duro e caratterizzato da bestemmie e comportamenti scorretti: Nicolino s’impegnava a riprendere chi sbagliava, ottenendo il nomignolo di “zi’ prete” a causa delle sue piccole esortazioni. Il sogno del sacerdozio, però, non venne meno neppure in quelle circostanze.

Il 27 dicembre di quell’anno giunsero a Trani i Padri Rogazionisti del Cuore di Gesù. In quella città erano già presenti le suore Figlie del Divino Zelo, presso la cui cappella Nicolino, un giorno non precisato, aveva incontrato il Fondatore di entrambi gli Istituti, Annibale Maria Di Francia; il santo, prima di entrare a celebrare la Messa, gli posò una mano sul capo. Forse quel segno fu profetico: don Carbone, poco dopo l’arrivo dei Padri, propose a Nicolino di entrare nella loro Scuola Apostolica, la struttura per formare gli aspiranti al sacerdozio. Suo padre inizialmente si dispiacque, ma poi acconsentì; fu più difficile, invece, far capitolare la mamma, che l’avrebbe preferito sacerdote diocesano.

Finalmente, il 16 settembre 1932, Nicolino fu ammesso alla Scuola, ospitata a Villa Santa Maria. Si dimostrò subito pieno di buona volontà, serio e religioso, ma poco adatto agli studi, perciò i superiori decisero di rimandarlo a casa. A causa delle sue insistenze, accettarono di tenerlo come Fratello coadiutore, ma era necessario il permesso dei genitori. Nonostante le resistenze della mamma, alla fine fu deciso di fargli proseguire gli studi per farlo diventare prete. Nicolino, impegnandosi accanitamente negli studi, venne promosso alla quarta ginnasiale; gli altri anni, invece, era stato portato avanti grazie alla sua buona condotta.

Sistemata la faccenda, il piccolo apostolino si diede una regola di vita in otto punti, che coprivano ogni momento del giorno e della notte. In più, intensificò il suo amore per Gesù Eucaristia, che andava a visitare in ogni momento libero, e per la Madonna, compiendo la Consacrazione a lei secondo lo schema di san Luigi Maria Grignion de Montfort.

Sul finire del novembre 1935, il ragazzo cominciò ad avere una strana tosse con sbocchi di sangue. Fu rimandato a casa, ma le radiografie eseguite diedero esito negativo. La prima domenica del marzo 1936 prese parte al consueto ritiro mensile a Villa Santa Maria, ma non poté restarci. Arrivò a casa bagnato a causa di una fitta pioggerella, sudato e con la febbre alta. Il medico diede la sua diagnosi: si trattava di tubercolosi, che non lasciava speranze di guarigione.

Ciò nonostante, Nicolino si sentiva ancora figlio spirituale del Di Francia: portò sempre la divisa da apostolino e, nella festa del Sacro Cuore di quell’anno, ricevette il distintivo dei Rogazionisti, dato che era impossibile anticipare i voti.

A letto, s’intratteneva in colloqui spirituali con zia Laura e offriva le sue sofferenze per i suoi superiori e per i loro confratelli: «Signore, fa’ che tutti i Padri siano dei veri Rogazionisti! E che le loro prediche convertano tante, ma tante anime!». Il 30 giugno, dietro suggerimento di un altro Padre, venuto per conto del Rettore, compì la sua offerta definitiva, in espiazione dei peccati degli uomini.

Il 1 luglio, festa del Preziosissimo Sangue, ricevette il Viatico e la notte successiva entrò in agonia, per calmarsi solo verso l’alba. Le sue ultime parole, «Non c’è male», furono rivolte a suo padre, accorso da fuori città.

Mentre la zia gli suggeriva le preghiere dei moribondi, Nicolino si spense. Era il 2 luglio 1936, all’epoca festa della Visitazione di Maria.

FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/95826

 

Silvio Cirielli

SILVIO CIRIELLI

Fanciullo (1930 –1941) 30 giugno

Solo undici le primavere del piccolo Silvio Cirielli, che si dischiuse completamente alla vita proprio come ogni fiore che sboccia nella stagione del risveglio della natura ringraziando Dio.

Forte come una roccia, Silvio eccelleva in tutti gli sport che praticava (pattinava, nuotava, cavalcava, pedalava…). Rigoglioso come un prato in fiore, la sua intelligenza vivace, brillante, fresca lo rendeva un bambino singolare, decisamente sveglio e attivo. Come tutti i bambini, non mancava di mostrare anche il suo lato più creativo soprattutto nei giochi dei quali era spesso l’ideatore; e come tutti i bambini più vivaci e creativi, era un po’ impulsivo, a volte fino alla prepotenza, per ottenere il meglio. Tuttavia, se redarguito, reagiva senza serbare il minimo rancore verso chi lo aveva richiamato o chi lo aveva infastidito. Sembrava duro e inflessibile come il granito, ma aveva in realtà un animo buono, e sensibile. Tant’è che quando la sua giovane vita incontrò la sofferenza, seppe accettarla fino in fondo, perché Dio stesso l’aveva accettata nel corpo del suo Figlio Gesù. Per una singolarissima coincidenza i momenti più importanti della sua vita hanno in comune lo stesso giorno della settimana: nasce venerdì 3 gennaio 1930; riceve la cresima venerdi 2 maggio 1940; inizia la sua personale via crucis venerdi 4 aprile 1941.

A undici anni, giovane preadolescente, coltivava sogni di futuro e faceva progetti per prepararsi a grandi cose. Ma proprio allora un ciclone di una inaudita violenza si abbatte sulla sua ancor acerba esistenza come, di riflesso su quella dei suoi cari, spazzando via inesorabilmente sogni e progetti. Un improvviso attacco acuto di appendicite lo prostra in breve tempo. Silvio tuttavia lo sopporta da eroe, preparando così corpo, anima e psiche alla sofferenza che sta per arrivare. Il fisico non regge quasi più ma tutto il resto è sempre al massimo. Non si indebolisce la fede, non vacilla nemmeno per un attimo la sua forza morale. Tutt’altro: il dolore lo matura velocemente ed egli è capace di offrirsi come sacrificio. Qualche giorno dopo quel venerdì di passione un altro attacco obbliga i genitori a chiamare d’urgenza i medici: la diagnosi fu di perforazione ed infiammazione peritoneale. Per 36 ore lotta tra la vita e la morte perché le sue precarie condizioni fisiche rendevano impossibile un intervento chirurgico.

Nel letto dell’ospedale non dimentica di recitare tutte le sere le sue preghiere insieme alla mamma che le sta sempre accanto e un volta gli chiede: “ Silvio chi ti è vicino in questi momenti in cui soffri tanto?”. E Silvio con voce sottile ma decisa: “Dio”, rispose. Trascorse quelle ore lunghe e terribili i medici con stupore constatarono buone le condizioni del polso e disposero ogni cosa perché avesse luogo l’intervento. Dopo 35 giorni di degenza, quel “cavallino da pista” come lui stesso si definiva, fece ritorno a casa, ma la sua situazione non migliorò. Il 30 giugno all’ospedale di Bari viene nuovamente operato. A fine intervento ecco l’epilogo: delirio e un’arsura bruciante durate 23 ore, al termine delle quali Silvio lasciò la sofferenza terrena per ricongiungersi al Padre. Aveva accettato quel dolore. Nelle ore in cui lottava tra la vita e la morte diceva alla mamma: “ È proprio il Signore che lo ha voluto, perciò mi ci rassegno”. Nelle sue ultime parole, suggeritegli dalla madre è espressa con fervore la volontà di unirsi a Dio: “Grazie Gesù, ti amo, sono tuo per la vita e per l’eternità”.

Autore: Serena Manoni

Fonti: www.sdb.org; http://www.santiebeati.it/dettaglio/94474

 

 

Guglielmina Marconi

GUGLIELMINA MARCONI

Fanciulla (1898-1909) 22 giugno

Guglielmina è stata chiamata lamammina dei poveri e l’innamorata di Gesù“. Ha passato su questa terra solo undici anni, ma ha sparso a tutti i tesori del suo animo ed è morta mentre adorava Gesù Ostia nel suo cuore.

Il 2 febbraio 1898, festa della Purificazione della Ma­donna, a Pisa, sboccia l’atteso fiore della famiglia Tacchi-Marconi. La battezza lo zio, don Alfredo Marconi e la vezzeggiano tutti i parenti. I genitori sono buoni e si danno tutti all’amore della loro piccola creatura.

Ma presto la piccola Guglielmina non godrà più le tene­re carezze del babbo, né i caldi baci della sua mamma. Guglielmina aveva sedici mesi quando suo babbo morì in seguito ad una caduta dovuta all’urto con un ciclista. Le rimaneva la mamma, ma anche questa, circa un anno dopo, le veniva a mancare. Vi raccomando Guglielmina. – disse ai familiari, la mamma morente – Abbiate la massima cura di lei, allon­tanatela dal male, evitatele ogni contatto pericoloso ed educatela santamente.

E Guglielmina a due anni e cinque mesi rimase con gli zii materni e in particolar modo con la zia Regina che le farà, in tutto, da mamma.

Nella bella villa dei Marconi, Guglielmina è il più bel fiore fra i mille fiori del vasto giardino. Calma e riflessiva per natura, è una bambina serena che piange pochissi­mo. Possiede un cuore d’oro e una volontà che senza por­tarla alla caparbietà, la porta, però, ad essere molto de­cisa. Cullata dalla tenerezza della nonna e delle zie, ride alla vita, ignara della sorte che le è toccata.

In casa saltella felice ed è sempre sorridente. Cerca con premura le immagini di Gesù e della Madonna, special­mente quella della sua bella Addolorata, per coprirla di baci e, in ginocchio, con le manine giunte e gli occhi rivolti al cielo, recitare l’Ave Maria e il Requiem per i suoi genitori. Così dall’età di due anni e mezzo in poi.

Se, andando a passeggio, sente delle brutte parole, di­venta pallida e, scuotendo la testa, fa osservare: – Queste cose non si dicono! Un giorno, a sette anni, è fuori con la zia. Ad un tratto sente un uomo bestemmiare. Senza dire nulla, si stacca dalla zia, va diretta da quell’uomo e con franchezza e dol­cezza insieme gli dice: – Non bestemmiare. Il nome di Dio è fatto per essere lo­dato! Lei loda sempre il nome di Dio e gioisce quando sente gli uccelli cantare.Sentite? – dice – anch’essi lodano il Signore.

Le piace tanto sentire parlare della religione. I suoi oc­chi neri sfavillano di gioia quando lo zio don Alfredo (Be-do come lo chiama lei), parla di Gesù Bambino. A sera, quando i suoi piccoli occhi le si chiudono, si al­lontana dicendo: – Ho sonno, vado a baciare Gesù di zio Bedo e poi vado a dormire. Bussa piano alla porta della camera dello zio, chiede il permesso di entrare e con garbo si avvicina allo scrittoio. Prende in mano il crocifisso, lo ricopre di baci, lo saluta rispettosamente e quindi si reca nella cameretta dove c’è la statua dell’Addolorata. Ai piedi della statua dice le sue preghiere e poi va a letto, con il sorriso sulle labbra e te­nendo la corona del Rosario in mano.

A quattro anni va per la prima volta a scuola nell’Istituto delle Giuseppine. Possiede un’intelligenza vi­va e non fa fatica a studiare, dando spesso delle risposte spiritose che gli attirano l’ammirazione di tutti. È buona con tutte, ma preferisce la compagnia delle più povere ed è lieta quando la domenica la zia Regina, che insegna catechismo in parrocchia, la porta con lei.

Ascoltando le lezioni di catechismo impara tante cose, gli piacciono di più le spiegazioni su Gesù Eucarestia. Desidera tanto che Gesù venga nel suo cuore, ma deve aspettare ancora alcuni anni per poterlo ricevere. A cinque anni chiede di confessarsi e le viene concesso. Delicatissima teme di non dire tutto a allora si confida con la zia Regina, dalla quale riceve le più confortanti rassicurazioni sulla bontà delle sue confessioni.

Nell’agosto del 1913, poco dopo la prima Confessione riceve il Sacramento della Cresima. Da quel momento, progredisce ogni giorno nella pratica delle virtù, perché, non si deve credere che Guglielmina fosse perfetta. In ca­sa, veramente, la ritengono tale ma, invece, deve lottare, specialmente per non assecondare la sua natura. Obbe­dire è quello che le costa di più e proprio per questo chiede sempre tutti i permessi. Come a tutti i bambini la roba buona piace anche a lei, ma dall’età di quattro anni ha imparato a privarsene per amore di Gesù. Soprattutto al venerdì si dimostra di una generosità ammirabile. Osserva l’astinenza anche prima dei sette anni. Ma non vi sei obbligata! – le si fa notare. – Lo zio Bedo dice che bisogna fare penitenza, – rispon­de lei – dunque devo farla anche io.

E per il suo “Padroncino”, cioè per il Sacro Cuore, come lei lo chiama, si priva di tante cose che le farebbero pia­cere. Gli zii non ricordano che abbia mai fatto un capriccio, né detto una bugia. Se hanno dovuto sgridarla qualche volta, è stato solo perché dava via ai poveri con troppa generosità. I poveri sono, dopo Gesù, l’amore più grande di Gu­glielmina.

Il mio Gesù e i miei poveri – diceva spesso per indicare tutta la sua passione. – Me li manda Gesù – dice con gioia. E quando sente suonare il campanello va di corsa alla porta, sperando di vedere qualcuno dei suoi cari poveri. Con essi si intrattiene lungamente, ascolta la storia del­le loro miserie, e chiede, per loro, aiuto ai suoi familiari che, lieti di vederla crescere buona, non glielo negano mai.

Un freddo giorno d’inverno bussò alla porta della villa una povera mamma che invano cercava di scaldare il suo bambino stringendolo al petto.

Perché non le metti le scarpe? – domanda Guglielmina, vedendo il piccolo con i piedini lividi dal freddo. – Signorina, il mio bambino non possiede le scarpe! Guglielmina si tolse immediatamente le sue e porgen­dole alla povera mamma, disse: – Se gli stanno bene, tenetele pure. Sono contenta di dargliele.

[…]Un giorno del dicembre 1908, Guglielmina aveva la feb­bre molto alta. Cos’era successo? Entrando nella stanza dove teneva i giocattoli vi aveva scoperto un uomo che si era introdotto in casa con l’intenzione di rubare. Il ladro vistosi scoperto aveva tentato di imbavagliare la fanciulla per impedirle di chiamare aiuto, ma, fortunatamente, poi era fuggito. Ma la paura per Guglielmina era stata tanta ed il suo cuore non aveva resistito. Fu costretta a mettersi a letto. Il medico che la visitò diagnosticò una lesione al cuore. Passerà sette lunghi mesi tra acuti dolori, ma sempre con pazienza e serenità. Non può dormire, le ripugnano le medicine, il cuore le fa male, ma Guglielmina ripete sempre: – Tutto per Gesù!

Non fa mai un capriccio o un atto di impazienza. Non dice mai una parola sgarbata. Prega spesso e pensa sempre a tre cose: “Al suo Gesù che vuole ricevere nel cuore, ai suoi cari poveri che benefica anche dal letto, a gli amati genitori che andrà presto a trovare e ad abbrac­ciare in Cielo“.

Ma vuoi proprio fare la Comunione a letto? – le do­mandano, con emozione, i familiari. – Sì, così vuole Gesù ed io desidero farla al più presto. Si decise di assecondare questo desiderio di Gesù e suo. – Gesù mio – diceva Guglielmina – non sono degna che tu venga nel mio cuore, ma ti ricevo tanto volentieri e aspetto da te tante grazie. Nel suo candido lettino, vestita di bianco, con un nastro azzurro tra i capelli neri, Guglielmina attendeva il suo Gesù. E Gesù venne, accompagnato solennemente da tutte le fanciulle della parrocchia che si preparavano alla prima Comunione. Quante dolci parole si saranno scambiati Gesù e Gu­glielmina! La fanciulla restò per molto tempo come in estasi. La chiamavano e non rispondeva, le accarezzavano il viso e lei rimaneva immobile, con le braccia incrociate sul petto e gli occhi chiusi. I familiari incominciavano a preoccuparsi, ma Gugliel­mina aprì gli occhi e sorrise, dicendo: – Sono con Gesù! Ho il mio Gesù, il mio Signore.

Le offrirono molti ricordi, e lei ringraziò commossa. – Che cosa gradisci, Guglielmina? – domandò un paren­te, offrendole un bel regalo. – Il più bel regalo che tu possa farmi è di ricevere la Comunione anche tu. Ai medici e a quanti andavano a trovarla, parlava del suo Gesù e raccomandava a tutti di riceverlo spesso e bene.

Intanto il male si aggravava. I suoi occhi neri, sempre così vivi, sembravano fossero diventati più grandi nel vi­so che era molto dimagrito. Il 21 giugno Guglielmina si aggravò. Le fu amministrata l’Estrema Unzione e le si diede la benedizione apostolica con l’indulgenza plenaria. Guglielmina era tutta un sudore, teneva gli occhi chiusi e sembrava dovesse spegnersi da un momento all’altro. All’alba del giorno dopo sembrò destarsi.

Datemi Gesù ancora una volta – disse, con voce soa­ve. Poi si riaddormentò. – Gesù è sempre con te – gli dicevano i familiari, cer­cando di calmarla, ma lei scuoteva la testa. – No, voglio Gesù Ostia, Gesù Sacramentato. Presto! Poi andrò in Cielo. Il parroco che assisteva Guglielmina le portò subito la santa Comunione.

Vieni, Gesù, vieni! – sospirava Guglielmina. Ricevuto Gesù, Guglielmina strinse le mani al petto e chiuse gli occhi. Qualche istante dopo piegò la testa bru­na in avanti e rimase così, addormentata per sempre con il suo Gesù. Era l’alba del 22 giugno 1909.

Dal Cielo la cara fanciulla ama eternamente il suo Gesù e da lassù prega per i suoi cari poveri che ha tanto bene­ficato in terra.

Fonte: Come fiori per Gesù su http://www.santiebeati.it/dettaglio/94435

 

Padre Angelico Pistarino

Padre Angelico Pistarino 

Domenicano (1897 – 1960) 18 giugno

E’ un giovane pittore brillante e inquieto, Andrea Pistarino, da Alessandria apre il suo studio ad Asti. Fin dall’adolescenza, Dio lo aveva messo da parte e nella sua anima sembrava esserci solo l’oscurità. Ma anche sulla sua strada, come scrive François Mauricas di ogni uomo “c’è Cristo in agguato“.

A 26 anni, Andrea Pistarino decide di aderire alla massoneria. Per due volte, l’appuntamento fissato dev’essere rinviato. Un giovedì sera del 1923, è stabilito l’incontro decisivo con la loggia massonica. Il giovane pittore esce da casa, ma fatti pochi passi, si ferma: sono le campane della Collegiata di S. Secondo, che suonando invitano i fedeli alla preghiera.

Come attratto da una Voce misteriosa, Andrea entra nella chiesa, forse per la prima volta, anche se è così vicina al suo studio. Dal pulpito il Canonico De Maria parla di Gesù Cristo, della sua Chiesa che accoglie le anime bisognose di salvezza e… della massoneria che combatte la Chiesa. Profondamente colpito della coincidenza, il pittore si apparta all’ombra di una colonna nel “bel S. Secondo” di Asti, e ascolta. Le campane, quella sera, hanno suonato per lui. E Gesù che bussa alla sua porta e chiede di entrare con irruenza. Lo scuote, lo tormenta, lo affascina.

Andrea esce sulla piazza: dove andare? Alla “loggia”? Neppure per sogno. Nello scompiglio della sua mente e del suo cuore, il silenzio lo spaventa e vuole aprirsi con qualcuno. Si dirige a casa di amici e vi trova la loro mamma, una donna nobile di anima e di fede. Ella lo ascolta, lo illumina, gli apre orizzonti nuovi, impensati. Verrà il giorno, in cui Andrea la chiamerà “la mia mamma”.

La signora gli chiede di eseguire per lei un ritratto, ma è un pretesto per avvicinarlo e parlargli a lungo. Mentre il pittore traccia sulla tela con mano di maestro il volto della “mamma”, ella a sua volta comincia in lui l’abbozzo del volto di Gesù Cristo. Il grande Assente, ora è il ricercato, il Desiderato come l’Acqua viva di fonte, da un assetato nel deserto. Presto sarà l’Amato di un amore senza confini.

Intanto Andrea è anche scampato a una grave sciagura, come per caso… o per la Provvidenza di Dio? Il 10 ottobre 1924, alle 17,50, Andrea Pistarino, accompagnato dalla sorella Rita, suona alla porta del Convento di S. Domenico a Chieri (Torino) per chiedere di consacrare la sua vita a Cristo, nell’Ordine Domenicano, l’Ordine della Verità e della misericordia.

Ha 27 anni: alle spalle una carriera brillante, lasciata per sempre. Davanti, Dio solo da amare e da irradiare ai fratelli. Il giorno in cui riceve il bianco abito dei Predicatori, vuole essere chiamato “Fra Angelico”, come il suo grande confratello domenicano, pittore sommo, fra Giovanni da Fiesole, comunemente conosciuto come “il Beato Angelico“.

Compiuti il noviziato e gli studi teologici, Fra Angelico Pistarino sale l’altare, sacerdote di Cristo, il 30 agosto 1929, festa, nel calendario liturgico vigente, di S. Rosa da Lima, vergine domenicana, a 33 anni, felice di essere diventato apostolo di Gesù, bellezza somma ed eterna.

Predica sui pulpiti e continua a predicare con la pittura. La Parola di Dio spiegata con la bocca e resa visibile con l’arte carica di luce, è il suo grande dono ai fratelli, sempre e in ogni modo Gesù Cristo!

Nel convento di S. Domenico a Torino, al terzo piano, apre la sua oasi artistica dove crea i suoi capolavori e inizia il suo annuncio del Vangelo a tanti fratelli assetati di luce e di amore. Per i medesimi l’annuncio l’avrebbe portato a compimento nel confessionale e all’altare, con il dono supremo del perdono di Dio e di Gesù Pane di vita eterna.

P. Angelico partecipa ancora, con successo, alle Biennali veneziane, alle Quadriennali romane, alle Mostre internazionali di Arte sacra a Milano, Roma, Budapest, Barcellona. Tiene una ventina di mostre personali nelle più importanti città d’Italia con gran successo. Sempre in “personali”, espone a Parigi e in America, imponendosi all’attenzione della critica. Gli arrivano con frequenza premi prestigiosi. Molte sue opere si trovano ormai in Gallerie nazionali, in musei civici, in diverse collezioni comunali e private d’Italia e all’estero.

 

Un giorno, ha la tentazione forte di buttare pennelli e colori in un fiume. Ne parla con gli amici, ancora di più con i superiori dell’Ordine. Gli dicono di continuare, ma di “gettare la sua arte nel fiume della carità, a servizio delle vocazioni domenicane e dei piccoli orfani”. Così nel 1942 egli decide di fare qualcosa per l’umanità sofferente. Le piccole vittime della guerra, bambini che hanno perso i genitori, non si contano più. Ha trovato i destinatari della sua carità.

Con i proventi dei suoi quadri, affitta a S. Mauro Torinese, “la casa del Sacro Cuore” in cui accoglie ed educa da vero padre numerosi fanciulli orfani, che ama come suoi figli e ai quali offre il calore di una famiglia. A loro provvede pure una “mamma”, una giovane mamma, Maria Regale.

Nata a Torino nel 1910, terziaria domenicana, giovanissima si era consacrata a Dio con i voti privati. Nel 1931, colpita da grave malattia, era rimasta per otto anni, inchiodata a letto. Miracolosamente guarita, per intercessione della Madonna, spesso visitata a Lourdes e a Loreto, dal 1942, offre il cuore di mamma ai piccoli orfani nella casa di S. Mauro, esempio splendido di dedizione per cinque anni. Scompare, improvvisamente, nella piccola cappella della casa, in mezzo ai “suoi” bambini, il 18 maggio 1947, mentre essi cantano “Salve Regina” della sera.

Nel 1959, P. Angelico va a Parigi dove dipinge una serie di quadri ai bordi della Senna e nel quartiere di Montmartre. Al ritorno, trova una biografia a lui dedicata, illustrata da alcuni suoi quadri e da articoli di critici d’arte. Una grande soddisfazione per lui, che benché ancora giovane, sente i primi sintomi di un male insidioso.

I mesi che gli restano, si riempiono ancor più di Rosari alla Madonna, di un colloquio più intimo con Dio, di carità e di tenerezza verso i suoi “piccoli”. Dopo un difficile intervento chirurgico, si spegne a Torino, il 18 giugno 1960.

Pochi giorni prima di morire, aveva scritto:

La Fede, il Sacerdozio, l’Opera del Sacro Cuore sono i doni più belli che Gesù e la Madonna mi hanno fatto. Lo Spirito che ci anima è lo Spirito di Gesù, di amore alla Verità. Sempre la Carità di Cristo“.

Fontehttp://www.santiebeati.it/dettaglio/95094

 

NOVENA A SAN LUIGI GONZAGA

NOVENA A SAN LUIGI GONZAGA

Dal 13 al 21 giugno 

Quanti crediti avrà mai raccolto il santo Gonzaga con le sue estreme offerte: si flagellava a sangue con una frusta per cani; digiunava tre giorni la settimana; si svegliava a mezzanotte per pregare, inginocchiandosi sul pavimento nudo della sua camera, rifiutandosi di accendere il fuoco anche durante l’inverno…

Invochiamolo dunque con ardore e dedizione per chiedere la sua intercessione nelle necessità più estreme della nostra vita.

(Da ripetere per 9 giorni consecutivi)

I. Angelico s. Luigi, che quantunque nato fra gli agi e le grandezze del mondo, col continuo esercizio dell’orazione, del ritiro e della penitenza, non aspiraste giammai che ai beni sodi e immancabili del Paradiso, ottenete a noi tutti la grazia di riguardar sempre con occhio di disprezzo le comodità della vita presente, affine di assicurarci i gaudi perfetti della futura.

Gloria al Padre al Figlio e allo Spirito Santo come era in principio ora e sempre nei secoli dei secoli.

II. Angelico s.Luigi, che, quantunque mai non perdeste la battesimale innocenza, mortificaste però sempre la vostra carne con i più tormentosi strumenti e con il più rigoroso digiuno, ottenete a noi tutti la grazia di mortificare per modo tutti quanti i nostri sensi che non abbiano mai a cagionarci la perdita del più prezioso fra i tesori, qual è la grazia di Dio.

Gloria al Padre al Figlio e allo Spirito Santo come era in principio ora e sempre nei secoli dei secoli.

III. Angelico s. Luigi, che piangeste con contrizione così viva le più leggere imperfezioni della vostra età fanciullesca, da svenire ai piedi del confessore nell’atto di accusarvene, ottenete a noi tutti la grazia di pianger sempre colla debita sincerità tutte quante le nostre colpe, e di accostarci sempre con le debite disposizioni al sacramento della penitenza.

Gloria al Padre al Figlio e allo Spirito Santo come era in principio ora e sempre nei secoli dei secoli.

IV. Angelico s. Luigi, che necessitato a conversare coi grandi del secolo e a partecipare con loro ai mondani divertimenti, vi ci tratteneste sempre con tal riserbo da essere comunemente acclamato per un angelo in carne, ottenete a noi tutti la grazia di prezzare sempre gli umani rispetti, e tener sempre una tale condotta da edificare in ogni maniera tutti quanti i nostri fratelli.

Gloria al Padre al Figlio e allo Spirito Santo come era in principio ora e sempre nei secoli dei secoli.

V. Angelico s. Luigi, che, divinamente chiamato dal secolo alla religione fra tutti gli ostacoli che vi si opposero, vi mostraste sempre immobile come uno scoglio nel vostro santo proposito, e vi corrispondeste poi così bene da servir di modello ai più perfetti, ottenete a noi tutti la grazia di seguir sempre con fedeltà, e corrispondere con esattezza alla vocazione divina, praticando tutte le virtù che sono proprie del nostro stato.

Gloria al Padre al Figlio e allo Spirito Santo come era in principio ora e sempre nei secoli dei secoli.

VI. Angelico s. Luigi, che, consacrato al Signore con voto irrevocabile fino dai primi vostri anni, foste sempre così unito da non patir mai distrazione nella preghiera, da non soffrir mai tentazione di impurità, da essere miracolosamente conservato in vita fra i pericoli del naufragio e dell’incendio, da ottener sempre tutto quello che vi piaceva di chiedere nelle vostre orazioni, ottenete a noi tutti la grazia di schivar sempre tutto quello che potrebbe renderci a Dio nemici, affinché, costantemente da lui protetti, resistiamo da forti alle suggestioni dei nostri avversari, e andiamo sempre crescendo nella strada della giustizia fino a meritarci la partecipazione alla vostra gloria nel cielo.

Gloria al Padre al Figlio e allo Spirito Santo come era in principio ora e sempre nei secoli dei secoli.

OREMUS

Celestium donorum distributor Deus, qui in angelico juvene Aloysio miram vitae innocentiam pari cum paenitentia sociasti, ejus meritis et precibus concede; ut innocentem non secuti, poanitentem imitemur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

Orazione a s. Luigi

Per cui Pio VII il 6 Marzo 1801 concesse l’Indulgenza di 100 giorni una volta al dì, aggiungendovi un Pater, Ave e Gloria. I. O Luigi santo, di angelici costumi adorno, io indegnissimo vostro divoto, raccomando a voi singolarmente la castita della mia anima e del mio corpo. Vi prego per 1’angelica vostra purità a raccomandarmi all’Agnello immacolato Cristo Gesù, e alla sua ss. Madre, Vergine delle vergini, a custodirmi da ogni grave peccato. Non permettete che io mi imbratti di macchia alcuna d’impurità; ma quando mi vedrete nella tentazione, o nel pericolo di peccare, allontanate dal mio cuore tutti i pensieri e tutti gli affetti immoridi; e risvegliando in me la memoria dell’eternità, di Gesù Crocifisso, imprimetemi altamente nel cuore un sentimento di timor santo di Dio; e riscaldandomi d’amor divino, fate che con imitar voi in terra, meriti con voi di godere Iddio eternamente nel cielo.

Pater, Ave, Gloria.

INDULGENZE PER LE 6 DOMENICHE E FESTA DI S. LUIGI.

Per infervorare sempre più i fedeli, specie la gioventù,’ nella divozione verso l’Angelico S. Luigi, il S.Pont. ClementeXII con 2 decreti, 11 Dic. 1739, e 7 Gen. 1740, concesse Indulg. Plen. in ciascuna delle 6 Domeniche che precedono la festa del Santo (21 Giug.) ovvero in qualsiasi tempo fra l’anno, a patto però che le 6 Domeniche non sieno interrotte e che previa la Confes. e la S. Comun. si facciano pie meditazioni, o vocali preci, od opere pie in onore del Santo. — Nel di della festa poi, che con licenza dell’Ordinario può celebrarsi in qualunque giorno dell’anno e in qualsiasi luogo ed altare, i SS. PP. Benedetto XIII, 22 Nov. 1729, Clemente XII, 21 Nov. 1737, e Benedetto XIV, 12 Apr. 1742, concessero la Plen. Ind. a tutti coloro che, pentiti, confess. e comun. visiteranno l’altare del Santo; pregandovi pei soliti fini.

Fonte: http://rosarioonline.altervista.org/index.php/Novene/Novena/it/SanLuigiGonzaga/1

Aftab Bahadur Masih

Aftab Bahadur Masih

Martire (Pakistan) 10 giugno 2015

Accusato di un omicidio all’età di 15 anni è stato torturato perchè confessasse il crimine mai commesso, in quanto non aveva denaro sufficiente per pagare la sua scarcerazione. Passò oltre 22 anni in carcere, fino al giorno della sua esecuzione  una  tortura psicologica  inimmaginabile.

Alle 4.30 del 10 giugno 2015 le autorità del carcere Kot Lakhpat di Lahore hanno impiccato il cattolico Aftab Bahadur Masih, condannato a morte all’età di 15 anni per l’omicidio di tre persone, da lui non commesso ma tuttavia confessato, secondo gli avvocati, perché sotto tortura.

Ancora sangue innocente è stato versato in Pakistan. Inutili gli appelli lanciati in questi anni dalla Chiesa cattolica e da attivisti per i diritti umani. Mons. Joseph Coutts, vescovo di Karachi e presidente della Conferenza Episcopale del Pakistan, aveva scritto una lettera al presidente Mamnoon Hussain, chiedendo di ritardare l’esecuzione per avviare nuove indagini.

Come spiega l’agenzia AsiaNews, Aftab è stato condannato a morte il 5 settembre 1992 per l’omicidio di Sabiha Bari e dei suoi due figli. Il giorno seguente Ghulam Mustafa, idraulico con cui lavorava come apprendista, viene arrestato per complicità e torturato dalla polizia per implicare Aftab nell’omicidio. Solo di recente l’idraulico ha ammesso che Aftab non aveva nulla a che fare con il crimine, e che era stato solo un testimone oculare. L’uomo ha anche rilasciato una testimonianza ufficiale davanti a un leader religioso, dichiarando di aver mentito.

Aftab ha sempre detto di essere innocente. Negli anni ha raccontato che, quando era stato arrestato, la polizia gli ha chiesto 50mila rupie (5mila dollari) per lasciarlo andare, ma essendo un giovane apprendista, non ha potuto pagare.

Poco prima della sua esecuzione, Aftab Bahadur Masih ha scritto un’ultima lettera, per raccontare le proprie sensazioni, che riportiamo qui di seguito secondo una traduzione sempre di AsiaNews:

Ho appena ricevuto la mia condanna a morte. Dice che sarò ‘appeso per il collo fino al sopraggiungere della morte’ mercoledì 10 giugno. Sono innocente, ma non so se questo farà alcuna differenza. Durante gli ultimi 22 anni della mia prigionia, ho ricevuto ordini di esecuzione molte volte. È strano, ma non so nemmeno dirvi quante volte mi sia stato detto che stavo per morire. Ovviamente fa male ogni volta. Inizio a fare il conto alla rovescia dei giorni, cosa dolorosa già di per sé, e scopro che i miei nervi sono incatenati come il mio corpo.

In realtà, sono morto molte volte prima della mia morte. Suppongo che la mia esperienza di vita sia differente da quella della maggior parte delle persone, ma dubito ci sia qualcosa di più spaventoso del sentirsi dire che si sta per morire, e poi restare seduto in una cella di prigione aspettando quel momento.

Per molti anni – avevo solo 15 anni – sono stato bloccato tra la vita e la morte. È stato un limbo assoluto, una totale incertezza per il futuro. Sono un cristiano e, talvolta, è difficile qui. Purtroppo, c’è un prigioniero in particolare che ha cercato di rendere le nostre vite ancora più dure. Non so perché lo faccia.

Sono stato molto rattristato per gli attentati anticristiani avvenuti a Peshawar. Mi hanno ferito profondamente, e vorrei che il popolo pakistano possedesse un senso di unità nazionale capace di vincere il suo odio interreligioso. C’è un piccolo gruppo di noi, qui, che è cristiano, appena quattro o cinque, e adesso siamo tutti insieme nella stessa cella, il che ha migliorato la mia vita.

Faccio tutto quello che posso per sfuggire alla mia miseria. Sono un amante dell’arte. Ero un artista – solo uno ordinario – sin da piccolo, quando non sapevo ancora nulla. Anche allora, avevo una propensione per la pittura e per la poesia. Non avevo alcuna preparazione, era solo un dono di Dio. Ma dopo essere stato portato in prigione, non ho avuto alcun altro modo per esprimere i miei sentimenti, perché ero in uno stato di completa alienazione e di solitudine.

Qualche tempo fa ho iniziato a dipingere tutti i cartelli per il carcere di Kot Lakhpat, dove sono rinchiuso. Poi mi hanno chiesto di farlo per altre prigioni. Niente al mondo mi dà più gioia che la sensazione che provo quando dipingo qualche idea o sensazione sulla tela. È la mia vita, quindi sono felice di farlo. Il carico di lavoro è grande, e sono esausto a fine giornata, ma sono felice di questo, perché tiene la mia mente lontana da altre cose.

Non ho una famiglia che mi faccia visita, così, quando viene qualcuno, è un’esperienza meravigliosa. Mi consente di raccogliere idee dal mondo esterno che poi potrò mettere su tela. Sentirmi chiedere come sono stato torturato dalla polizia mi ha riportato alla mente ricordi terribili, che ho tradotto in immagini. Anche se, forse, sarebbe stato meglio non pensare a quello che gli agenti hanno cercato di farmi per ottenere una mia falsa confessione per questo crimine.

Quando abbiamo sentito la notizia della revoca della moratoria sulla pena di morte, nel dicembre 2014, la paura ha prevalso in tutte le celle della prigione. C’è stato un predominante senso di orrore. L’atmosfera era appesa, cupa, su tutti noi. Ma poi le esecuzioni sono iniziate davvero qui a Kot Lakhpat, e tutti hanno iniziato a subire una tortura mentale. Quelli che venivano impiccati erano stati i nostri compagni per molti anni, lungo questa strada verso la morte, ed è solo naturale che la loro morte ci abbia lasciato in uno stato di angoscia.

Mentre la moratoria sulla pena di morte è stata revocata con il pretesto di uccidere i terroristi, la maggior parte delle persone qui a Kot Lakhpat sono condannate per crimini regolari. In che modo ucciderli fermerà la violenza settaria in questo Paese, non posso dirlo. Spero di non morire mercoledì, ma non ho alcuna fonte di reddito, quindi posso solo affidarmi a Dio e ai miei avvocati volontari. Non ho rinunciato alla speranza, anche se la notte è molto buia“.

Un giorno prima dell’esecuzione di Aftab, l’Alta Corte di Lahore ha respinto la richiesta di sospensione della pena, negando agli avvocati di produrre nuove prove della sua innocenza. Nella stessa giornata, le autorità della prigione di Sahiwal hanno impedito ai legali di vedere Ghulam Mustafa (il capo idraulico), che aveva espresso il desiderio di firmare una dichiarazione scritta, ammettendo di aver testimoniato il falso contro Aftab.

Aftab Bahadur Masih, il giovane che amava la pittura e la poesia, è diventato il 160° detenuto messo a morte in Pakistan dal 17 dicembre 2014 quando il governo ha revocato la moratoria sulla pena di morte dopo l’attentato taleban a una scuola di Peshawar, in cui sono morti in 148.

Fonti: Zenit; http://www.santiebeati.it/dettaglio/96712https://www.avvenire.it/mondo/pagine/il-detenuto-non-merita-clemenza-cattolico-impiccato-in-pakistan-

 

Marcello Vezzani

MARCELLO VEZZANI

Giovane laico (1979 – 2003) 5 giugno

Muore stringendo fra le mani la sua tesi di laurea, ma aveva vissuto intensamente ogni istante della sua breve vita, donandosi tutto agli altri e vivendo per gli altri.

Marcello nasce il 13 luglio 1979 a Correggio (RE), in una bella famiglia cristiana da Luisa Bondavalli e Savio Vezzani, è il loro terzo figlio dopo Mariano e Marco.

Frequenta la scuola materna “Recordati” retta dalle suore dei “Servi “ e poi la scuola elementare “S.Tomaso”; ha per maestra una suora salesiana, Suor Olga, che gli comunica la bellezza del gioco e dell’0ratorio come ambiente per crescere vicini al Signore. La scuola media sarà quella statale come pure le scuole superiori: prima il biennio Iti a Correggio, poi il triennio “Fermi” a Modena, dove riesce a farsi degli amici e a farsi stimare proprio come giovane cristiano.

Si iscrive poi, sempre a Modena, alla facoltà di Chimica che conduce brillantemente facendosi stimare sia dai compagni che dagli insegnanti.

Cresce nella parrocchia di Madonna di Fatima e lì sceglie subito di impegnarsi come catechista prima, poi come educatore cercando tutte le strategie per il bene dei propri ragazzi, è presente in oratorio come animatore sia della domenica che dei Grest sapendo quanto sia importante la compagnia dei ragazzi nel gioco. Non perde occasione per aggiornarsi come educatore e partecipa alle proposte formative che provengono dal “territorio”.

Sull’esempio della famiglia, s’iscrive all’Azione Cattolica ed è affascinato dalle figure dei Santi che lì sono cresciuti, propone tra i suoi ragazzi i momenti associativi dell’ACR ed è testimone efficace durante le feste del tesseramento.

Fin dalla scuola media, avviato da Frà Matteo Munari, inizia il suo impegno alla Casa della Carità di Fosdondo, la “casa” come tutti la chiamano, l’assistenza ai “bimbi” era in diversi momenti soprattutto le notti, con loro trascorreva anche dei periodi di vacanza e a volte portava qualche ospite all’oratorio o a Messa della domenica.

Fin da bambino inizia a far parte della banda cittadina, dopo lunghi anni di “solfeggio” , diventa percussionista ufficiale…… e quando può, porta i tamburi all’oratorio per insegnare ai bambini questo affascinane strumento.

Marcello è molto presente nella vita sociale del paese, non perde occasione di confronto anche a livello politico e sempre con bontà e fermezza interviene portando la propria testimonianza cristiana.

In famiglia Marcello è un segno dell’amore del Signore, sempre desideroso che la gioia sia il pane quotidiano della vita di ogni giorno , si profonde in mille attenzione per i genitori, fin da bambino si offre di lavare i piatti perché loro possano fare una passeggiata, si esprime con amore con ogni membro della famiglia e accoglie con il sorriso chiunque bussi alla loro porta, soprattutto gli extracomunitari.

Sempre Marcello nella sua relazione con tutti è luminoso, solare, sorridente: un segno dell’amore di Dio.

In parrocchia fa parte con entusiasmo alla compagnia degli “Attori per caso” e recita nel musical “Con la vita dentro” sulla vita del Beato PierGiorgio Frassati che tanto ammira, nella compagnia è sempre allegro, piacevolmente distratto nel perdere gli abiti di scena e sempre disponibile ai lavori più umili di montaggio e smontaggio.

Vive sempre di corsa il breve momento della sua giovinezza, teso a non perdere nessuna occasione di bene; non si risparmia, non tiene nulla per sé, forse sa di non avere una vita lunga.

Giovedì 5 giugno 2003, lascia di corsa l’Università a Modena, perché deve suonare nella banda, ma per Marcello è un giorno speciale: ha finito con la sua professoressa la tesi di laurea e deve correre a casa per annunciare ai genitori la sorpresa: si laureerà a luglio!!! Non arriverà mai a casa, perché un collasso lo stronca proprio davanti alla sede del 118 del Policlinico, a nulla vale il soccorso portato immediatamente: Marcello cade a terra stringendo al petto la sua tesi, ma … è già in Paradiso! La corriera che da Modena sosta davanti a casa sua, questa volta non lo porta a casa!

Fonti: www.azionecattolica.it; http://www.santiebeati.it/dettaglio/95131

 

 

MARIA FILIPPETTO

MARIA FILIPPETTO

Adolescente (1912 – 1925) 3 giugno

Maria Filippetto è diventata, grazie alla determinazione e alla sua grande forza di volontà, un modello per chi deve lottare per vincere le proprie debolezze e per chi soffre per le malattie.

“Voglio prendere Gesù con le carezze, con i baci ed i sorrisi, voglio presentarmi a lui con “un bel mazzo di rose e di gigli tra le mani ed in mezzo a questi fiori voglio mettere il mio cuore che palpiti ed arda di amore per Gesù… Voglio diventare l’Agnellino di Gesù”. Così aveva scritto un giorno Maria Filippetto il desiderio più grande era diventato vincere il suo temperamento naturalmente altero e sdegnoso.

Nata a Padova il Venerdì Santo del 1912, vi muore il 3 giugno 1925, primo venerdì del mese. Gesù la segnava così con il sigillo dei suoi prediletti: la sofferenza. Maria dirà più tardi di volere essere non solo l’Agnellino, ma ancheil grappolino d’uva che si offre alle mani di Gesù per es­ser spremuto, il piccolo chicco di frumento che desidera essere ridotto in buona farina per diventare pane di Ge­sù“.

Maria dovrà soffrire non solo per correggere i difetti del suo carattere che sono uno stridente contrasto con le do­ti naturali di bellezza e di vivacità di ingegno, ma dovrà soffrire anche perché dall’età di sette anni sarà sempre più o meno tormentata da malattie. Il Signore permise questo per offrire Maria come modello a chi deve lottare per vincersi ed a chi soffre per le malattie.

Trascorre lietamente la sua prima infanzia nel dolce ni­do familiare, con papà e mamma che sono insegnanti e Piero e Mario, i due fratelli maggiori che le volevano tanto bene, ma con i quali bisticciava spesso. Guai a fare uno scherzo alla piccola altezzosa!

La mamma vegliava su quel carattere un po’ ribelle. Se la prendeva vicino, le parlava del suo Angelo custode che sta sempre al fianco di ogni bambino e che scrive ogni atto di bontà nel libro d’oro e ogni disubbidienza o capric­cio nel librone nero. Si era lasciata appuntare sotto la ve­stina “la coroncina delle vittorie” e la mamma le insegna­va a contare le piccole vittorie sui propri difetti. Maria ascoltava e prometteva di diventare più buona. Durante il giorno vigilava su sé stessa, riconosceva le sue colpe, chiedeva scusa per ogni mancanza, (quanto costava, questo, al suo orgoglio!) rinnovava la promessa di essere più buona e alla sera andava davanti alla statuetta del Cuore di Gesù:

Guarda, Gesù – gli diceva mostrandogli la coroncina – oggi ho saputo vincermi tante volte… domani vorrò esse­re ancora più attenta“.

Qualcuna delle sue vittorie? Un giorno era andata a passeggio con la mamma e si era appuntata sul vestito un bel fiore di stoffa a colori vivaci. La mamma vide che, camminando, cercava di farlo notare agli altri. Non la sgridò, ma, continuando a pas­seggiare, portò il discorso sui meriti di una fanciulla: “Un fiore, un nastro, anche se preziosi non accrescono il valore di una persona, anzi molte volte lo diminuiscono facendola apparire vanitosa…”. Maria capi. Adagio adagio, quasi senza che la mamma se ne accorgesse, si tolse il bel fiore che si era appuntata con tanta cura e se lo mise in tasca. Qualche giorno dopo la mamma lo trovò gettato, tutto spiegazzato, in un cas­setto.

Amava tanto il suo giardino e vi coltivava con amore al­cune pianticelle. Capitava spesso che i fratelli, correndo sbadatamente, ne calpestassero alcune. Maria fremeva tutta, si adirava… ma poco alla volta, riuscì a vincersi completamente.

Un giorno vide Mario e Piero correre all’impazzata in giardino, calpestando i fiori della sua aiuola. Si fece rossa per l’ira che le bolliva dentro, ma pensò a Gesù che per lei aveva sopportato tanto. Cos’era, poi, quella piccola of­fesa? – Tutto per te, Gesù – sussurrò con amore. Nel suo cuore era tornata la calma.

Un’altra volta Mario le fece uno sgarbo. La piccina scat­tò come una molla. Avrebbe voluto sfogare con lui la sua rabbia, ma invece andò a sfogarsi con il Sacro Cuore di GesùO Gesù, lo vedi? – gli disse dopo aver trattenuto i sin­ghiozzi — Io non posso… non posso proprio sopportare Mario. Aiutami tu.

Una sera a tavola chiese alla mamma di assaggiare una pietanza che le piaceva. – Purché non ti faccia male, prendine pure un po’ (per ragioni di salute doveva astenersi da molti cibi). Maria stava per servirsi, quando gli venne un pensiero: “Sarà poi contento Gesù?“. Posò la forchetta sul tavolo e con un dolce sorriso disse: – Infine non si tratta che di una golosità ed è meglio ri­nunciarvi per fare un fioretto a Gesù che appagare la mia gola.

Un giorno ritornò desolata da scuola perché aveva sba­gliato un calcolo e anche perché una compagna aveva fatto meglio di lei. – Se ti dispiace per la maestra, – le fece osservare la mamma – il tuo dispiacere è lodevole, ma se ti dispiace che altre compagne abbiano fatto meglio di te, sta bene attenta che una brutta serpe, l’invidia, non entri a rodere il tuo piccolo cuore. Il Signore ti ha fatto vedere che se egli non ci aiuta, da noi soli non sappiamo e non possia­mo fare nulla di buono. Vuoi che andiamo a portare a Gesù questo grande dispiacere? E davanti alla cara statuetta il sereno ritornò nel picco­lo cuore turbato.

Quando, a sei anni, incominciò a frequentare le scuole, si distinse subito per la sua intelligenza aperta. La mamma prevenne un probabile compiacimento: – Devi aspirare ad essere la più buona di tutte – le dice­va – essere brava poco importa: è tuo dovere, se Dio ti ha dotata di una certa intelligenza. Maria se lo ricordò sempre, tanto che il giorno in cui al termine della scuola riportò ottimi voti, depose la pagella ai piedi del Sacro Cuore, dicendo: “Gesù, il merito è tutto tuo. Ti ringrazio per la consolazione che mi fai dare ai miei genitori“.

Maria era gracile, ma fino ai sette anni godette una flo­rida salute. Poi cominciò a soffrire di tutta una serie di mali che la lasciarono in pace solo poco tempo. Prima il morbillo, poi la nefrite, poi il diabete mellito, poi un ascesso che le richiese non una ma più dolorose operazio­ni. La piccola però era serena. La sua amata Teresa di Lisieux le aveva mostrato la “piccola via”, ed lei vi si era incamminata dal momento che aveva compreso che ama­re è soffrire e cioè dare a Gesù senza rimpianti.

A 10 anni la Prima Comunione. “La grande festa è passata, – scriveva ad una cugina qualche giorno dopo – ma ho ancora l’animo pieno di gioia. Non posso dirti quello che provai nel momento so­lenne in cui ricevetti Gesù per la prima volta!”

Nel gen­naio del 1925 passò venti giorni all’ospedale. Lì, insieme con le sofferenze dovute alle continue iniezioni, ebbe due grazie: ricevere Gesù tutti i giorni e trovare un saggio di­rettore nella persona del padre Aristide Enea Spilimbergo. Maria sentì il bisogno di affidargli tutta la sua anima e il padre l’accolse, la guidò e l’aiutò a diventare “l’agnellino di Gesù”. E quanto soffrì quando dopo appe­na un anno e mezzo circa il padre Spilimbergo fu trasfe­rito altrove!

Le continue iniezioni le avevano procurato un ascesso. Fu necessario un taglio di una ventina di centimetri e la tredicenne fanciulla subì tutto l’intervento guardando il Crocifisso e stringendo nella mano una piccola medaglia: – Gesù, fai di me quello che vuoi, – gli diceva con tutta confidenza – ma dammi la forza di sopportare ogni dolore per amore tuo. E Gesù si compiaceva di quella preghiera e confortava il suo Agnellino.

Senti mamma, – le confidava una notte in cui non po­teva prendere sonno per il troppo caldo – quando io sof­fro voi mi siete tutti vicini e soffrite con me, ma in quei momenti terribili anche Gesù, sai, mi è vicino.. oh, se tu sapessi come lo sento, come mi trovo unita con lui quan­do il male brucia! Vedi? Io sono contenta di soffrire e di soffrire con Gesù. Il dolore è una benedizione. Ringra­ziamo il Signore insieme, mamma.

Maria aveva amato sempre tanto i poveri nel corpo e i poveri nell’anima. Ai primi donava i suoi dolci, i suoi risparmi, la sua parola e la sua preghiera, mentre agli altri dava le sue sofferenze e tutta sé stessa.

Quando sarò grande sarò anch’io missionaria – dice­va. – Nel mio lettino posso essere un apostolo offrendo con­tinuamente a Gesù la mia sofferenza per la salute delle anime. Amava tanto le Missioni e per esse raccoglieva in mille modi offerte che spediva con gioia. Dei parenti erano stati invitati a casa? Finito il pranzo, Maria passava con il suo salvadanaio: Accetto per i poveri bimbi infelici qualunque somma, anche grossa – diceva con un sorriso a cui non si poteva negare nulla. La mamma faceva i conti di famiglia? Ecco Maria con il suo salvadanaio: – Quello che avanza mettilo qui – le diceva con grazia.

Un giorno, mentre era convalescente, volle evitare di prendere il tram. – Perché vuoi affaticarti tanto? – domandò la mamma. – Per le Missioni, mamma, ma tu dammi ugualmente i soldi che spenderei per il tram.

Il 30 novembre 1925, nella sua bianca cameretta fu ce­lebrata la santa Messa. Fu quello – come scrisse lei stes­sa – “un giorno di paradiso“. E pregava: “Gesù, fatemi buona, santa, tutta per voi. Ogni mio respiro sia un so­spiro per voi, ogni battito del mio cuore sia un palpito d’amore per voi...”.

I giorni passavano lenti e Maria, dal suo lettino, si offri­va continuamente a Gesù.

Va pure a fare scuola, – diceva alla mamma – e sta tranquilla, io sono sempre con Gesù. Vedi? Le mie ore sono sempre occupate: assisto spiritualmente a tutte le Messe che vengono celebrate in tutto il mondo e le offro a Gesù per la conversione dei peccatori. Raccolgo ai suoi piedi le sofferenze, le lacrime, i dolori della terra e glieli offro con tutti gli slanci d’amore, con tutte le virtù, con tutti i desideri santi delle anime buone. Gesù è contento. Io gli parlo, gli dico tante cose e il tempo con lui mi passa in fretta“.

Al padre Spilimbergo scriveva: “Sono proprio l’Agnellino prediletto di Gesù, ma l’Agnellino pronto ad essere sacri­ficato. Mi abbandono tranquillamente tra le braccia di Gesù e gli ripeto: “Fa di me quello che vuoi”, e sono con­tenta“.

E Gesù faceva di lei quello che voleva, chiamandola a diventare totalmente sua. Maria lo comprese e l’11 feb­braio 1927, giorno dell’Apparizione dell’Immacolata a Lourdes, si consacrò interamente al suo Gesù per le ma­ni della Vergine, emettendo il voto di verginità. Aveva 15 anni.

Ora sono la piccola figlia di Maria come sono l’Agnellino di Gesù. Maria mi ripara sotto il suo manto. Oh! Così protetta non temo la tempesta“.

Un giorno il padre Rosi, dopo averle portato la santa Comunione, le disse: – Ora Gesù è nel tuo cuore. Se ti dicesseTi concedo quello che desideri: vuoi la salute o continuare a soffrire? Sono ugualmente contento di concederti l’uno o l’altro“, cosa risponderesti? Io chiederei la sofferenza. Sei contenta di soffrire? – le domandò un giorno padre Rosi. – Io sono contenta di fare ciò che piace a Gesù. Fare la volontà di Gesù, la volontà di Dio, è come fare una Co­munione continua.

Fare la volontà di Dio – diceva – è una cosa tanto sem­plice, tanto facile: ci si abbandona tra le braccia di Gesù e si lascia che faccia tutto lui. Ogni nostra preoccupazio­ne allora svanisce ed ogni cosa diventa facile.

 

Si avvicina rapidamente la fine. Maria, rac­cogliendo tutte le sue energie, sollevatasi dal suo lettino, disse:

Sono tanto contenta d’aver fatto tutto quello che ho potuto per far contento Gesù. Ma tutti, tutti dovete fare quello che potete… tutti al mondo… Oh, se tutto il mon­do facesse quello che può, quanto sarebbe contento Ge­sù!… tutti angeli… tutti… mamma… mam…ma…

Padre Rosi vedendo le gravissime condizioni della fanciulla, le disse:

Maria, non puoi più ricevere il tuo Gesù che ami tan­to. Eccolo qui sul tuo cuore. È tutto tuo, sai? E le depose la teca sul petto e, su quella, mise una ma­no della fanciulla Così per due ore, fino all’ultimo anelito di quell’Agnellino di Gesù, mentre attorno a lei tutti era­no prostrati in adorazione, con il cuore stretto dall’angoscia per la prossima separazione.

A pochi minuti dalle nove di sera, Gesù portò con sé per sempre il suo Agnellino, lasciando tutti nella dolce speranza di rincontrarlo un giorno in paradiso, per l’eternità, dove si troveranno tutti i bimbi buoni.

Fonti: Come fiori per Gesù;  http://www.santiebeati.it/dettaglio/94436

 

MARIA CLOTILDE

MARIA CLOTILDE

Fanciulla (1908 – 1918) 30 maggio

Al santo battesimo la bambina ricevette il nome di Maria. Era una santa tradizione che ogni membro di famiglia si consacrasse alla gran Madre di Dio e portasse il nome di Maria. …

Il secondo nome era Clotilde. Il giorno della nascita l’8 gennaio 1908. Certi bambini nei primi giorni di vita piangono e strillano, altri invece sorridono. Clotilde non faceva né l’una né l’altra cosa, ma mostrava una serietà sempre uguale.

La sua prima parola fu “papà“. A undici mesi cominciò a muovere i primi passi, e si mostrava felicissima di questo suo progresso, perché si divertiva un mondo a giocare a rimpiattino con la bambinaia. Le disposizioni naturali di Clotilde facilitavano la sua educazione: era d’indole mite e calma, se ne stava contenta delle lunghe ore con un balocco e non aveva neppur l’ombra delle solite esigenze infantili.

Aveva un amore straordinario per l’ordine e la pulizia: bellissime doti che però nella piccina generarono due difetti: una lentezza esagerata e un certo attaccamento alle sue comodità. Non ci fu mai modo d’indurre Clotilde a fare con spigliatezza le cose sue; restò una posapiano per tutta la vita. Le piaceva che tutto intorno a lei fosse comodo e gradito. Le veniva voglia di sedersi? Prima sceglieva il posto più adatto, avendo cura che fosse sicuro e pulito.

Clotilde aveva due fratellini più piccoli, ma la morte li colse uno dopo l’altro rapidamente. Questa fu una prova delle più terribili per i genitori. Sebbene la bambina fosse ancora troppo piccola per comprendere la portata della sciagura, pure un solco di dolore si aprì nel suo cuoricino. Li amava tanto i suoi fratellini ed ora soffriva al pensiero che erano andati via e non sarebbero più tornati.

Oltre ai genitori, c’era in casa la nonna, tutta del buon Dio, che aveva le più tenere cure per la nipotina; la conduceva in chiesa, le mostrava la piccola casetta dorata nella quale abita Gesù, e le narrava le belle storie del Bambino Gesù e della Madre celeste. Per tal modo intorno all’anima della bambina si formò a poco a poco un’atmosfera celestiale. Anche la mamma le parlava spesso e volentieri della felicita della santa Comunione. Clotilde ascoltava tutto col più vivo interesse e per la bramosia di provare quella felicità ben presto domandò di gustare il pane degli Angeli.

La disposizione naturale alla pietà che sonnecchiava nel cuore della bambina, era destata e ravvivata dall’educazione religiosa. Era una necessità; l’opera dell’educazione veniva a tempo opportuno, perché in quella piccola anima si manifestava già un grande egoismo congiunto a presunzione, così che il minimo rimprovero che le si muoveva la urtava. Aveva poi sortito da natura un temperamento chiuso e sensibilissimo. Ma imparò a farsi guidare ed educare docilmente dalla mamma.

Ad appena cinque anni, su richiesta di sua madre, per via del grande desiderio della piccola le fu concesso di fare la prima santa Comunione. Si preparò al gran giorno con l’offerta di piccoli fioretti, con la rinuncia alle leccornie e con l’essere più ubbidiente del solito. Dai sette anni in poi la Comunione divenne quotidiana.

Con lo scoppio della guerra nell’estate del 1914, incominciò per loro un’epoca di grandi dolori. Il padre di Clotilde fu richiamato sotto le armi. Arras, la città natale, minacciata dal nemico, dovette essere sgombrata completamente. Come fu penosa la fuga! Vedere migliaia di uomini, in preda al terrore, fare ressa alle stazioni, pigiarsi nei treni merci e persino condividere le carrozze con le bestie.

Alla fine di settembre, stando alle notizie, pareva che la patria fosse ormai fuori di pericolo; e la madre di Clotilde si decise a far ritorno con la bambina. Anche questa volta il viaggio fu lungo e molesto; tanto più che i viaggiatori erano circondati da continui pericoli. Giungevano profughi spaventati che narravano gli orrori della guerra, si udiva in lontananza il rombo del cannone e i villaggi in fiamme gettavano bagliori sanguigni. Tuttavia, per grazia di Dio, la madre e la bambina arrivarono ad Aubigny, dove poterono riposare una notte.

Il giorno dopo proseguirono fino ad Arras, ma dopo due giorni di calma incominciò il bombardamento. Madre e figlia andarono a rifugiarsi in fondo alla cantina, la bambina le si aggrappava al petto nell’ansia della paura e tutt’e due cantavano canzoni devote per non udire il sibilo e lo scoppio dei proiettili.

Quando altre persone chiesero riparo nella stessa cantina, la situazione si fece più tollerabile; si consolavano a vicenda, pregavano insieme, si scambiavano i loro pensieri e sorridevano alla speranza di tempi migliori.

Il bombardamento durò cinque mesi; tutta la città venne distrutta. La madre comprese che doveva separarsi dai suoi figlioli, lasciandoli in cura alla zia. Clotilde, avvolta in buone coperte di lana, partì sul carro d’un mercante e la nonna accolse la piccola profuga col più tenero affetto. Alla fine di settembre venne anche la mamma, ma non poté trattenersi a lungo presso i parenti. Nell’autunno del 1915 si rimise in viaggio verso settentrione coi due figlioli e, non potendo andare ad Arras ch’era distrutta, si stabilì a Boulogne dove si procurò una modesta esistenza. Le circostanze imponevano alla famigliola molte privazioni: faceva freddo e la stanza da letto non si poteva riscaldare, la complessione delicata dei bambini ne soffriva e non mancavano le preoccupazioni materiali. Ma l’amore che univa quei tre cuori raddolciva tutte le amarezze, di modo che non mancava mai né l’allegria, né la contentezza.

[…]Per arrivare in tempo alla scuola, doveva alzarsi molto presto al mattino nonostante il freddo assai rigido che le faceva tanto male; eppure alle sette, anche nelle mattine scure, si affrettava sola soletta alla chiesa.

Un giorno la madre le chiede: «Ti parla mai Gesù Bambino?». La bimba risponde affermativamente e in seguito le parlerà anche di un loro segreto: «Avrei desiderio di farmi religiosa per curare i bambini poveri».

Clotilde si diede subito a mettere in pratica il suo proposito, esercitandosi nei lavori domestici. Nel novembre del 1917 la mamma s’ammalò e per parecchie settimane fu costretta a letto. Bisognava vedere con quale spigliatezza e con quanto zelo Clotilde accudiva alle faccende di casa! Diceva con un sorriso di compiacenza: «È ben giusto che impari a far tutto con garbo, perché se un giorno sarò suora dell’Ascensione, sia esercitata».

Clotilde aveva, una grande devozione alla sua Madre celeste. E ogni mattina e sera le cantava con la mamma un inno di devozione e tutti in famiglia avevano la convinzione di essere sotto la tutela speciale della gran Madre di Dio.

La sua preghiera prediletta era il Rosario. A otto anni prese a recitarlo ogni giorno e quando da sola percorreva la lunga via della scuola, ne mormorava sommessamente le Ave Maria. Prima della Comunione recitava con devoto sentimento una parte del Rosario, per preparare nel suo cuore, diceva lei, un bel lettino di rose a Gesù Bambino.

Come la fanciulletta si desse cura di non perdere neppure un minuto della giornata, lo dimostra il fatto seguente. Trascorse un giorno intero giocando col fratellino; giunta la sera, la mamma le domandò: «E come va col Rosario?». «L’ho già detto» rispose. «Com’è possibile?… Ma se hai giocato tutto il giorno!». «Cara mamma, capirai che non posso parlar sempre: di tanto in tanto si tace anche nel gioco e nei momenti di silenzio ho recitato il Rosario, un mistero alla volta.».

A scuola si studiava con tutta diligenza dì ricevere una buona classificazione, perché sapeva con questo di procurare al babbo la gioia più grande. S’era fitto in cuore questo bel principio «Se si fa piacere al babbo e alla mamma, si fa piacere anche al buon Dio, perché i genitori sono i suoi rappresentanti». La mamma vedeva che la figliola soffriva sotto le frecciate di alcune sue amichette invidiose e indusse Clotilde a pregar molto e precisamente per quelle cattive fanciulle. La preghiera dell’innocenza ebbe tale efficacia, che la più acerba nemica le si cambiò nella migliore amica.

Se la mamma le rifiutava il segno della croce sulla fronte la sera poiché era stata biricchina, ella gridava e prometteva di non farlo mai più, ma a quella benedizione proprio non voleva rinunciare. Era poi tutta contenta quando poteva fare il pio esercizio della Via Crucis assieme alla mamma.

Ma poi scoppiò un’epidemia di morbillo ed anche Clotilde e il suo fratellino ne furono presi; nella fanciulla la febbre salì a quaranta gradi. Ne uscì guarita, ma le restò una leggera debolezza di polmoni, perciò il medico ordinò che passasse in campagna un periodo di convalescenza. Fisicamente non tardò a ristabilirsi, ma invece soffriva d’un grande affanno morale che non la lasciava. Durante il periodo trascorso in campagna, non le fu permesso di alzarsi la mattina “per prendersi il suo Gesù Bambino”. E come le riusciva amaro il dover rinunziare alla santa Comunione!

Clotilde dovette entrare in un pensionato. Anche qui si mantenne fedele alla sua abitudine; lo scrisse ella stessa una volta: «Recito tutti i giorni la terza parte del Rosario, e la domenica lo recito per intiero». Quando la madre guarita torna a prenderla rimane stupita non vedendola per nulla meravigliata e la piccola le spiega: «Gesù Bambino nella santa Comunione mi ha detto che saresti tornata».

Clotilde spirò il 30 maggio 1918 a causa di un’appendicite. La sua ultima invocazione fu un’Ave Maria e l’ultimo bacio l’impresse sulla medaglia della Madonna. Così spirava tra le braccia della sua Madre celeste.

Fonti: www.vocechegrida.it; http://www.santiebeati.it/dettaglio/95009