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lettere, messaggi, comunicazioni spirituali e preghiere, pensieri e riflessioni, tutto ciò che ci può aprire la mente, insegnare ad amare e ad essere più sereni e felici.

Beato Nunzio Sulprizio

Beato Nunzio Sulprizio

Giovane operaio (1817-1836) 5 maggio

Solo una vita di sofferenza ha contraddistinto la bella, pura, semplice anima di questo giovane operaio, che nonostante i lutti, i maltrattamenti, lo sfruttamento e un cancro alle ossa ha saputo offrirsi come anima vittima fin dalla prima giovinezza.

A 540 metri sul livello del mare, sulle pendici del monte Picca, si distende a diversi livelli per lo sperone roccioso, il borgo di Pescosansonesco, in provincia di Pescara. Lì, dai giovani sposi Domenico Sulprizio, calzolaio, e Rosa Luciani, filatrice, il 13 aprile 1817, domenica “in albis”, nacque un bambino, che, battezzato, prima del tramonto del medesimo giorno, fu chiamato Nunzio.

Solo il registro dei battesimi – il libro dei figli di Dio – della sua parrocchia, per lunghi anni riporterà il suo nome: ignoto ai potenti, ma notissimo e bene-amato da Dio. A tre anni, i suoi genitori lo portarono al Vescovo di Sulmona, Mons. Francesco Tiberi, in visita pastorale nel vicino paese di Popoli, perché fosse cresimato: era il 16 maggio 1820, l’unica data lieta della sua fanciullezza, perché in seguito non avrà che da soffrire.

Nell’agosto dello stesso anno, muore papà Domenico a soli 26 anni. Circa due anni dopo, mamma Rosa si risposa, anche per trovare un sostegno economico, ma il patrigno tratta il piccolo Nunzio con asprezza e grossolanità. Lui si lega molto alla mamma e alla nonna materna. Comincia a frequentare la scuola, una specie di “giardino d’infanzia”, aperto dal sacerdote don De Fabiis, nel paese della nuova residenza, Corvara.

Sono, per Nunzio, le ore più serene della sua vita: impara a conoscere Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo e morto in croce in espiazione del peccato del mondo, intraprende a pregare, a seguire gli esempi di Gesù e dei santi, che il buon prete e maestro gli insegna. Gioca, socievole e aperto, con i piccoli amici. Comincia a imparare a leggere e a scrivere.

Ma il 5 marzo 1823, muore la mamma: Nunzio ha solo sei anni e la nonna materna Rosaria Luciani lo ospita in casa, prendendosi cura di lui. È analfabeta, ma ha una fede e una bontà grandissime: nonna e nipotino camminano sempre insieme: insieme alla preghiera, alla Messa, nei piccoli lavori di casa. Il bambino frequenta la scuola istituita da don Fantacci, per i fanciulli più poveri e lì cresce, in sapienza e virtù: è un puro di cuore che si delizia a servire la Messa, a far visita a Gesù Eucaristico nel Tabernacolo, molto spesso. Ha dentro un orrore sempre più grande al peccato e un desiderio sempre più intenso di rassomigliare al Signore Gesù.

Quando ha appena nove anni, il 4 aprile 1826, gli muore la nonna. Nunzio ormai è solo al mondo ed è per lui l’inizio di una lunga “via dolorosa” che lo configurerà sempre più a Gesù Crocifisso.

Solo al mondo, è accolto in casa – come garzone – dallo zio Domenico Luciani – detto “Mingo” – il quale subito lo toglie dalla scuola e lo “chiude” nella sua bottega di fabbro-ferraio, impegnandolo nei lavori più duri, senza alcun riguardo all’età e alle più elementari necessità di vita. Spesso lo tratta male, lasciandolo anche senza cibo, quando a lui sembra che non faccia ciò che gli è richiesto. Lo manda a far commissioni, senza curarsi né delle distanze, né dei materiali da trasportare, né degli incontri buoni o cattivi che può fare. Allo “sbaraglio”, sotto sole, neve, pioggia, vestito sempre allo stesso modo. Non gli sono risparmiate neppure le percosse, “condite” da parolacce e bestemmie.

Ci sarebbe da soccombere in breve, ma Nunzio ha già una fede grande. Nel chiuso dell’officina, battendo sull’incudine, occupato sotto la “sferza” di un lavoro disumano, pensa al suo grandissimo Amico, Gesù Crocifisso, e prega e offre, in unione con Lui, “in riparazione dei peccati del mondo, per fare la volontà di Dio”, “per guadagnarsi il Paradiso”. Alla domenica, anche se nessuno lo manda, va alla Messa, il suo unico sollievo nella settimana.

Presto si ammala. Un rigido mattino d’inverno, lo zio Mingo lo manda, con un carico di ferramenta sulle spalle, su per le pendici di Rocca Tagliata, in uno sperduto casolare. Vento, freddo e ghiaccio lo stremano. Lungo il cammino mette i piedi accaldati in un laghetto gelido. A sera rientra spossato, con una gamba gonfia, la febbre che lo brucia, la testa che scoppia. Va a letto, senza dir nulla, ma l’indomani non regge più.

Lo zio gli dà come “medicina”, quella di riprendere il lavoro, perché “se non lavori, non mangi”. Nunzio in certi giorni si trova costretto a chiedere un pezzo di pane ai vicini di casa. Risponde con il sorriso, la preghiera, il perdono: “Sia come Dio vuole. Sia fatta la volontà di Dio”. Appena può, si rifugia a pregare in chiesa, davanti al Tabernacolo: gioia, energia e luce gli vengono da Gesù-Ostia, così che, appena adolescente, è in grado di dar consigli sapientissimi ai contadini che lo interpellano.

Si trova con una terribile piaga a un piede, che presto andrà in cancrena. Lo zio gli dice: “Se non puoi più alzare il maglio, starai fermo a tirare il mantice!”. È una tortura indicibile. La piaga ha bisogno di continua pulizia e Nunzio si trascina fino alla grande fontana del paese per pulirsi ma di lì viene presto cacciato come un cane rognoso, dalle donne che, venendo lì a lavare i panni, temono che inquini l’acqua. Trova allora una vena d’acqua a Riparossa, dove può provvedere a se stesso, impreziosendo il tempo lì trascorso con molti Rosari alla Madonna.

Tra l’aprile e il giugno 1831, è ricoverato all’ospedale dell’Aquila, ma le cure sono impotenti. Per Nunzio sono settimane però di riposo per sé e di carità per gli altri ricoverati, di preghiera intensa. Rientrato in casa, è costretto dallo zio a chiedere l’elemosina per sopravvivere. Commenta: “È molto poco che io soffra, purché riesca a salvare la mia anima, amando Dio”. In tanto buio, solo il Crocifisso è la sua luce.

Finalmente, lo zio paterno, Francesco Sulprizio, militare a Napoli, informato da un uomo di Pescosansonesco, fa venire Nunzio a casa sua e lo presenta al Colonnello Felice Wochinger, conosciuto come “il padre dei poveri”, per la sua intensa vita di fede e per la inesauribile carità. È l’estate 1832 e Nunzio ha 15 anni: Wochinger scopre di aver davanti un vero “angelo” del dolore e dell’amore a Cristo, un piccolo martire. Si stabilisce tra i due un rapporto di padre a figlio.

Il 20 giugno 1832, Nunzio entra all’Ospedale degli Incurabili, in cerca di cure e di salute. Provvede il Colonnello a tutte le sue necessità. Medici e malati si accorgono di aver davanti un altro “S. Luigi”. Un buon prete gli domanda: “Soffri molto?”. Risponde: “Sì, faccio la volontà di Dio”. “Che cosa desideri?”. “Desidero confessarmi e ricevere Gesù Eucaristico per la prima volta!”. “Non hai ancora fatto la prima Comunione?”. “No, dalle nostre parti, bisogna attendere i 15 anni”. “E i tuoi genitori?”. “Sono morti”. “E chi pensa a te?”. “La Provvidenza di Dio”.

Viene subito preparato alla prima Comunione: per Nunzio è davvero il giorno più bello della sua vita. Il suo confessore dirà che “da quel giorno la Grazia di Dio incominciò a operare in lui fuori dell’ordinario, da vederlo correre di virtù in virtù. Tutta la sua persona spirava amore di Dio e di Gesù Cristo”.

Per circa due anni, soggiorna tra l’ospedale di Napoli e le cure termali a Ischia, ottenendo qualche passeggero miglioramento. Lascia le stampelle e cammina solo con il bastone. Finalmente è più sereno: prega molto, stando a letto, o andando in cappella davanti al Tabernacolo e al Crocifisso, e all’Addolorata. Si fa l’angelo e l’apostolo degli altri ammalati, insegna il catechismo ai bambini ricoverati, preparandoli alla prima Confessione-Comunione e a vivere più intensamente da cristiani, a valorizzare il dolore. Quelli che lo avvicinano sentono in lui il fascino della santità. Suole raccomandare ai malati: “Siate sempre con il Signore, perché da Lui viene ogni bene. Soffrite per amore di Dio e con allegrezza”. Per sé, ama molto un’invocazione alla Madonna: “Mamma Maria, fammi fare la volontà di Dio”.

Fatto il possibile per la sua salute, dall’11 aprile 1834, Nunzio vive nell’appartamento del col. Wochinger, al Maschio Angioino. Il suo secondo “padre” si specchia nelle sue virtù e ha una grandissima cura di lui, contraccambiato da profonda riconoscenza. Pensa a consacrarsi a Dio, e in attesa, si fa approvare dal confessore una regola di vita per le sue giornate, regola simile a quella di un consacrato, che osserva con scrupolo: la preghiera, la meditazione e la Messa al mattino, ore di studio durante il giorno, seguito da buoni maestri, il Rosario alla Madonna verso sera. Diffonde pace e gioia attorno a sé, e profumo fragrante di santità.[…]

Nel marzo 1836, la situazione di Nunzio precipita. La febbre è altissima, il cuore non regge più. Le sofferenze sono acutissime. Prega e offre, per la Chiesa, per i sacerdoti, per la conversione dei peccatori. Quelli che passano a trovarlo, raccolgono le sue parole: “Gesù ha patito tanto per noi e per i suoi meriti ci aspetta la vita eterna. Se soffriamo per poco, godremo in Paradiso”. “Gesù ha sofferto molto per me. Perché io non posso soffrire per Lui?”. “Vorrei morire per convertire anche un solo peccatore”.

Il 5 maggio 1836, Nunzio si fa portare il Crocifisso e chiama il confessore. Riceve i Sacramenti, come un santo. Consola il suo benefattore: “State allegro, dal Cielo vi assisterò sempre”. Verso sera, dice, tutto contento: “La Madonna, la Madonna, vedete quanto è bella!”. A 19 anni appena, va a vedere Dio per sempre. Attorno si spande un profumo di rose. Il suo corpo, disfatto dalla malattia, diventa singolarmente bello e fresco e rimane esposto per cinque giorni. Il suo sepolcro è subito meta di pellegrinaggio.

Già Papa Pio IX, il 9 luglio 1859, lo dichiara “eroico nelle sue virtù” quindi “venerabile”. Il 1° dicembre 1963, davanti a tutti i Vescovi del mondo riuniti nel Concilio Vaticano II, Papa Paolo VI iscrive Nunzio Sulprizio tra i “beati”, modello per i giovani operai, per tutti i giovani, anche quelli di oggi.[…]

Esiste una vasta bibliografia sul beato, perché la sua singolare figura di giovane operaio cristiano ha sempre attirato molti biografi. Le spoglie furono traslate al paese natìo, Pescosansonesco (Pe), dove ora sono venerate dal popolo a cui apparteneva.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/32250

 

Beata Itala Mela

BEATA IMELDA MELA

Oblata benedettina (1904-1957) 29 aprile

Dopo la morte del fratellino di 9 anni la disperazione sembra prendere il sopravvento, ma in seguito a una misteriosa scossa interiore, comincia una nuova vita all’insegna del motto: «Signore, se ci sei, fatti conoscere». E’ il punto di partenza di un percorso mistico con al centro il mistero della Trinità.

Itala Mela nasce a La Spezia il 28 agosto 1904 da Pasquino e Luigia Bianchini, insegnanti. Trascorre l’infanzia e l’adolescenza dai nonni materni, per via del lavoro dei genitori, dal 1905 al 1915. Nel 1915, con discreta preparazione, riceve la Prima Comunione e la Cresima.

Signore, se ci sei fatti conoscere“: è la preghiera che le sgorga dal cuore nel momento in cui comincia a vacillare il suo ateismo, orgogliosamente professato. A spingerla alla deriva era soprattutto stata la morte del fratellino Enrico, di appena 9 anni, avvenuta il 27 febbraio 1920; non ancora sedicenne, la mancata elaborazione di questo lutto l’ha portata a convincersi che l’esistenza di Dio è inconciliabile con il dolore innocente e che solo il nulla ci può essere dopo la morte.

Dopo un’adolescenza tenacemente atea, si riavvicina alla fede durante gli anni dell’università, grazie all’aiuto di due sacerdoti genovesi e grazie anche alla Federazione degli Universitari cattolici italiani, alla quale nel frattempo si è iscritta. Determinanti per la sua formazione spirituale sono alcuni incontri, in seno alla FUCI, con il giovane Montini (il futuro Paolo VI), il cardinal Schuster, Padre Gemelli e don Divo Barsotti.

Laureata in Lettere, la sua carriera di giovane insegnante è sconvolta da un evento verificatosi a Pontremoli il 3 agosto 1928: dal tabernacolo riceve un raggio di luce e il messaggio divinoTu la farai conoscere“. È la prima irruzione di Dio nella sua vita, cui seguiranno tante altre che fanno di lei una delle più grandi mistiche italiane del Novecento. È costretta a rinunciare sul nascere alla vocazione benedettina a causa di una febbre persistente e altissima, che la colpisce a inizio 1929 e che sembra portarla alla tomba. Si riprende, invece, contrariamente ad ogni previsione, pur continuando ad essere fragile e cagionevole di salute, al punto da dover lasciare la cattedra di Milano e rientrare a La Spezia nel 1933 e quattro anni dopo addirittura lasciare l’insegnamento.

Nel 1933 conclude anche il noviziato benedettino con la professione come Oblata del Monastero in San Paolo fuori le Mura, a Roma. Pur continuando a restare nel mondo emette così i voti di povertà, castità e obbedienza, cui si aggiungono il voto “del più perfetto” (che consiste nel ricercare sempre l’azione più perfetta da fare) e, infine, quello dell’impegno a diffondere la verità della ”Inabitazione” della SS.Trinità nella nostra anima. Anzi, quello della ”Inabitazione” diventa il suo carisma specifico, grazie al quale riesce a vivere una particolarissima intimità con Dio Uno e Trino. Scrive: “La volontà di Cristo, che io sento imperiosa nel profondo della mia anima, è di trascinarmi, d’immergermi con Se stesso negli abissi della SS. Trinità…. È inutile cercare altre vie: questa è quella che Egli ha scelto per la mia santificazione“. A partire dal 1936 si fanno sempre più frequenti le sue estasi, le visioni e i messaggi della SS.Trinità, che si accompagnano a sfibranti persecuzioni diaboliche, quasi a conferma che la spiritualità da lei perseguita procura molto fastidio al demonio.

Tutto vive con straordinaria umiltà e carità, nella certezza, come scrive, che “vivere l’Inabitazione non è una cosa straordinaria ma la logica conseguenza del nostro Battesimo”, perché“sarebbe un grave errore credere che il richiamare le anime a nutrire di questo mistero adorabile la loro vita, sia il richiamarle ad una “devozionespeciale: è piuttosto un invitarle a vivere della grazia che il Battesimo ha loro donato”.

Il suo pensiero e il suo affetto, di giorno e di notte, nel lavoro, nel riposo e nelle lunghe ore di preghiera è sempre rivolto a Dio Padre e Figlio e Spirito Santo che abita nella cella del suo cuore e la sua sensibilità spirituale si affina al punto che lo stesso peccato veniale e l’imperfezione “avvertita” le appaiono molto più gravi di quello che prima pensava. Anche un piccolo “no” all’amato, posseduto in ogni istante, le sembra ben triste cosa, in quanto “tradire la nostra vocazione alla santità è anche tradire tutti coloro la cui salvezza è legata alla nostra immolazione”. Dopo la parentesi della guerra, che la fa sfollare insieme ad altri a Barbaresco, nel 1946 ha la prima intuizione della “famiglia sacerdotale”, ancora oggi attiva, formata da sacerdoti e diaconi che lavorano, in modo particolare, per far conoscere alle anime la grazia dell’Inabitazione e per condurle a viverla in conformità col loro Battesimo.

Itala Mela muore il 29 aprile 1957 ed i suoi resti mortali riposano dal 1983 nella cripta della cattedrale di Cristo Re, a La Spezia, sua città natale. La causa della sua beatificazione, avviata nel 1976, ha già raggiunto a giugno 2014 il riconoscimento delle virtù eroiche e con il riconoscimento di un miracolo la Venerabile potrebbe vedersi attribuita presto la gloria degli altari.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/91607

 

Serva di Dio Maria Domenica Lazzeri

Serva di Dio Maria Domenica Lazzeri

Mistica (1815 – 1848) 4 aprile 

Questa mistica trentina visse 14 anni immobile nel suo letto di dolore, senza bere né mangiare, stimmatizzata, morì a 33 anni. Tutti i venerdì sanguinava copiosamente dalle ferite delle mani, dei piedi, del costato e dai 40 e più fori della testa.

Possedeva doni incredibili “l’Addolorata di Capriana”, quali l’ubiquità, la preveggenza, la conoscenza di lingue mai studiate, e “sentiva” stando nel suo letto, ciò che veniva detto a grandi distanze (le omelie della S. Messa oppure le bestemmie e malignità su Dio e su di lei). Venne visitata da illustri personaggi, provenienti dall’Italia, Francia, Inghilterra perfino dall’Australia. Beda Weber, Anatole de Segur, Ernesto de Moj, Beda Polding, Streiter, Connely, Cazales, il conte Shrewsbury, l’Arcivescovo di Sydney, Antonio Rosmini, questi solo alcuni dei nomi. Dottori, religiosi cattolici e non, filosofi e gente comune, tutti si staccavano da lei, colmi di serenità, pace, edificati e redenti, convinti della sua santità. E ognuno di loro lasciò una testimonianza scritta di ciò a cui avevano assistito. Dopo anni di oblio e silenzio, il 4 aprile 1995, l’Arcivescovo di Trento, Giovanni Maria Sartori, ha celebrato , nella Chiesa di Capriana, l’apertura del processo di Beatificazione.

La Serva di Dio Maria Domenica Lazzeri, nacque il 16 marzo 1815 a Capriana (Trento) ultima dei cinque figli di Margherita e Bortolo Lazzeri, mugnaio del paese. Dopo una tranquilla infanzia, frequentò con profitto la scuola del paese; adolescente, si dedicò presto al lavoro, alla preghiera e all’aiuto dei sofferenti, specie quelli delle epidemie degli anni Venti e si prese cura dei bambini, quando andò a prestare servizio presso le famiglie dei paesi vicini.

È di quel periodo il suo amore per la lettura delle vite dei Santi, degli scritti di s. Alfonso Maria de’ Liguori, ma soprattutto dei racconti della Passione e morte di Gesù, per i quali dimostrava una spiccata predilezione.

La morte del padre, avvenuta quando aveva 13 anni, le recò grande dolore, a ciò si aggiunse poco tempo dopo, una malattia di incerta diagnosi, che la colpì a lungo; queste sofferenze temprarono in lei l’attitudine ad una vita spirituale più intensa e ad una maggiore sensibilità verso gli infermi in genere. Fra i 17 e 18 anni, fu contagiata da un’epidemia influenzale detta “grip”, durante la quale si era prodigata nella cura degli ammalati, e cominciò il suo calvario

Dal 15 agosto 1833 fino all’aprile 1834, la malattia in un crescendo di sintomi strani e misteriosi, raggiunse nel mese di maggio 1834, una forma tanto grave quanto inspiegabile, cosicché Maria Domenica Lazzeri si trovò relegata a letto in una forma di stigmatizzazione totale, segnata da sofferenze estreme, non prendendo più sonno, né cibo, né bevanda, salvo la Santa Comunione, l’unico alimento che potesse ricevere ogni mese circa.

Vera immagine vivente del Crocifisso, dai 19 ai 33 anni, cioè fino alla morte, visse immobilizzata nel letto, con le mani congiunte trafitte, così come i piedi e il costato da profonde ferite; con i piedi sovrapposti e il capo circondato da fori sanguinanti come punture di spine, in preda a tremore per le atroci sofferenze procurate dalle ferite delle stigmate, dalla sudorazione di sangue e avendo una quasi morte apparente ogni venerdì.

Un quadro clinico inquietante, perché i fenomeni fisici erano inusuali e incurabili, legati ad una malattia non diagnosticabile.

Il suo caso attirò l’attenzione di illustri clinici, fra i quali il primario dell’Ospedale Civico e Militare di Trento, dott. Leonardo Cloch, che studiò i fenomeni con attenzione, pubblicando una relazione negli “Annali Universali di Medicina” nel 1837, e poi con la collaborazione del dott. Antonio Faes dell’Università di Padova, stese analoghe relazioni presentate alla Sezione Medica degli scienziati italiani, riuniti nei Congressi di Napoli (1845), Genova (1846), Venezia (1847).

La fama della giovane di Capriana, superò ben presto i confini del Trentino, diffondendosi in tutta Italia e in Europa; editori europei, dal 1836 al 1848, giudicando il fenomeno degno di essere conosciuto, presero a stampare varie opere divulgative, i cui autori spesso erano testimoni oculari, colpiti sia della straordinarietà della malattia, dalle stigmate, ma soprattutto della virtuosa capacità di sopportazione delle incredibili sofferenze e dallo spirito di preghiera, da parte di Maria Domenica Lazzeri.

La sua vicenda attrasse l’attenzione e la visita personale a Capriana, di medici specialisti con esperienze di altre stigmatizzate o presunte tali, provenienti da tutta Europa e dalle più celebri Università; come pure di vescovi ed arcivescovi, fra i quali quello di Sidney in Australia. Per il suo caso, si organizzarono vari dibattiti religiosi e culturali dell’epoca, instaurando un’accesa polemica giornalistica, tra i gruppi cattolici e le associazioni protestanti europee ed australiane.

Intanto Maria Domenica, chiamata dai suoi compaesani “la Meneghina” (abbreviazione di Domenica), proseguiva nel suo letto di dolore, l’esperienza terribile ma edificante, della Passione di Cristo, rannicchiata e in condizioni di inamovibilità con le mani aggruppate e i piedi sovrapposti, come inchiodati l’uno sull’altro, vera immagine vivente del Crocifisso.

Pur essendo immobile nel letto, riusciva a sentire le omelie in lingua tedesca dalla chiesetta di Anterivo, paesino limitrofo e quelle in italiano dalla chiesa di Capriana; oltre questo dono di comprendere le lingue, lei che non aveva fatto scuole superiori oltre le elementari, la “Meneghina” ebbe anche il dono della trans-locazione, un fenomeno mistico, riportato nelle lettere del beato Giovanni Nepomiceno De Tschiderer († 1860) vescovo di Trento, col quale la giovane scomparve più di una volta dal suo letto per ritrovarsi a Caldaro (Bolzano) o a Cermes (Bolzano) a pregare con altre due stigmatizzate sue contemporanee.

I suoi confessori furono i depositari del suo misticismo, da recenti documenti ritrovati, si apprende da un suo confessore, che la Madonna le aveva domandato: “Vuoi tu godere le insanguinate piaghe di Gesù?” alla quale lei aveva risposto: “Se ne sono degna e se lo merito, sia fatta la tua volontà”.

Serva di Dio Maria Domenica Lazzeri

Questo rivivere la Passione di Gesù non fu un carisma subito capito; la stessa Maria Domenica sperimentò con paura quanto le stava accadendo; ma quando i fenomeni non solo continuarono, ma si intensificarono e i medici non davano spiegazioni scientifiche, allora si mosse un fiume di visitatori, tra i quali Antonio Rosmini, superando l’asperità delle vie di accesso al piccolo paese montano di Capriana, per farle visita giungendo da tutta Europa.

Fu necessario da parte del vescovo di Trento, mettere in atto severe misure d’accesso alla casa di Capriana, assecondando le richieste della stessa “Meneghina”, che non riusciva a sopportare tante visite, specie quelle degli stranieri, essa perdeva quella tranquillità necessaria ad alimentare il suo spirito nella meditazione e nella preghiera.

Lo stesso vescovo De Tschiderer, prudentemente evitava di recarsi a visitarla personalmente, ma in privato e per iscritto la seguiva nel suo calvario, esprimendole rispetto ed ammirazione, e non esitò nel tempo a prendere le sue difese contro notizie false e parziali della stampa inglese.

Un teologo don Divo Barsoni, scrisse di lei: “Dio l’aveva presa. L’aveva presa per fare di lei, nella partecipazione al suo mistero di dolore, un segno di amore e di salvezza”. Anche Maria Domenica, l’aveva compreso, dicendo: “Voglio soffrire fino all’ultimo giorno del mondo, se piace al mio Cristo. Soffrire è la mia salute”.

Morì nella sua casa di Capriana il 4 aprile 1848 a soli 33 anni (gli anni di Cristo), dei quali gli ultimi 15, vissuti in quella tremenda sofferenza, che le meritò gli appellativi di “l’Addolorata di Capriana” e “il Crocifisso vivente”.

Il suo ricordo seguì i numerosi emigranti della zona, che lo diffusero e tennero vivo anche in Stati lontani; la venerazione per la “Beata Meneghina” non cessò mai, anche se subì variazioni d’intensità nel tempo. Un primo atto ufficiale per la sua beatificazione, venne prodotto nel 1943, ma si era in piena Seconda Guerra Mondiale e fu seguito solo dalla ricognizione della salma nell’agosto 1944.

Il 4 aprile 1995 è stato riaperto ufficialmente il processo informativo nella diocesi di Trento, che conclusasi positivamente, è stato dal settembre 2000, spostato a Roma presso la competente Congregazione Vaticana. Di lei non esistono foto, ma solo un ritratto che la ritrae a letto con le stigmate ben visibili e con le mani aggruppate; un’Associazione “Amici della Meneghina” è stata costituita a Capriana nella ‘Casa Modesta’ – via Casal, per la diffusione della sua memoria e venerazione.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/92622

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VEN. GIOVANNA MARIA DELLA CROCE

Bernardina Floriani

Clarissa e fondatrice (1603-1673) 26 marzo

Davvero intensa la sua vita spirituale: stigmate, transverberazione (trafittura del cuore da parte di una creatura angelica come santa Teresa d’Avila) e matrimonio mistico con Cristo. Ebbe corrispondenza con numerose persone influenti del tempo e fondò un monastero di Clarisse dopo la visione di Santa Chiara.

Bernardina Floriani nacque a Rovereto l’8 settembre 1603 in una famiglia della piccola borghesia, il padre era un pittore abbastanza noto. Della numerosa figliolanza sopravvissero solo Bernardina e Giovanni, futuro violinista a Salisburgo alla corte del principe vescovo. Era una devota famiglia cattolica, Bernardina non mancava di frequentare le funzioni e il catechismo domenicale.

La svolta nella sua vita avvenne incontrando il servo di Dio Tommaso da Olera, un cappuccino dalla personalità straordinaria. Sulla scia di Lorenzo da Brindisi il suo ordine religioso si era diffuso in buona parte d’Europa sin dall’epoca del concilio: il convento di Rovereto era stato fondato nel 1575. Il frate vide in Bernardina un’anima d’eccezione, nonostante avesse solo 13 anni. Da frate laico non poteva confessarla, ma ne diventò maestro e, due anni più tardi, ne accolse il voto privato di castità. Per venti anni Bernardina continuò a vivere in casa come laica consacrata: assistette il padre durante la malattia e, dopo la morte, mantenne la madre e se stessa facendo la maestra.

Una vita la sua che pareva ordinaria, nascondeva però carismi stupefacenti. Aveva grazie mistiche, colloqui con Dio, la Vergine e i santi, e il dono delle stimmate. A queste consolazioni soprannaturali si alternavano però la fatica di tenerle occultate e momenti di profonda aridità. Inoltre la sua condizione sociale era anomala per quei tempi in cui una donna doveva sposarsi o entrare in monastero.

La situazione si complicò con lo scoppio della peste, nel 1630, e la morte, l’anno successivo a Innsbruck, di fra Tommaso. La cura degli appestati costrinse Bernardina ad uscire dall’anonimato. Si disse che faceva miracoli, divenne motivo di venerazione per alcuni e fonte di maldicenze per altri. Scrisse che quelli furono anni di «tribolazioni, persecuzioni, mormorazioni che giunsero a toccare l’onor mio, cosa da me tanto aborrita».

Finalmente, l’intervento di una nobile vedova, Sibilla Fugger Lodron, le permise, nel 1642, di avviare un Conservatorio dedicato a S. Carlo per l’educazione di ragazze indigenti. Un’esperienza di vita comunitaria non claustrale che fu poi trasformata in monastero secondo la Regola francescana. In questo modo si soddisfò l’antico desiderio di Tommaso da Olera di far nascere a Rovereto un monastero di Clarisse.

Gli inizi non furono facili. Due religiose vennero dalla Germania per armonizzare la disciplina alla nuova normativa tridentina, ma parlavano solo tedesco ed esautorarono completamente Bernardina dal governo della comunità. La Fondatrice, che l’8 maggio 1650 aveva indossato l’abito delle clarisse col nome di suor Giovanna Maria della Croce, cinque anni più tardi finalmente fu poi eletta badessa.

Bernardina Floriani cominciò a scrivere la propria autobiografia nel 1636, per ordine del confessore. Conosceva il pericolo di quel «tanto scrivere». Temeva costantemente che le sue parole venissero travisate, ma era convinta che sarebbero servite «per la salute di molte anime». Nel 1643 vennero sequestrati gli scritti e fu sospesa dai sacramenti. Difesa dai Gesuiti, fu poi prosciolta. La sua esperienza spirituale si radicava nella quotidiana normalità della vita, nei sacramenti, nella preghiera, nel servizio obbediente e umile. Un giorno Gesù le disse: «Sappi, figliola, che il maggior digiuno, la maggior penitenza e il maggior sacrificio che mi si possa fare sulla terra è amare mio figlio. Tu fai questo e avrai eseguito tutto». Morì il 26 marzo 1673.

Godendo fama di santità ancora vivente, la sua morte fu una grande manifestazione di venerazione. Pochi anni dopo, tra il 1675 e il 1678, venne avviato il processo di beatificazione. Nel 1733 Clemente XII approvò gli scritti e l’introduzione del processo di beatificazione così che da allora fu insignita del titolo di venerabile. Nel 1738 la causa fu introdotta presso la Santa Sede e nel 1891 davanti alla Congregazione per procedere al processo sopra le virtù.

Il monastero fu soppresso nel 1782, ma fortunatamente gli autografi della “mistica di Rovereto” sono giunti fino a noi: 5347 pagine che comprendono l’autobiografia, un testamento spirituale, lettere, commenti alla Sacra Scrittura, visioni e rivelazioni, inni e poesie, in un italiano impastato di latinismi e di inflessioni dialettali, ma ricchissimo dal punto di vista lessicale.

Fontihttp://www.santiebeati.it/dettaglio/96844https://it.wikipedia.org/wiki/Bernardina_Floriani

Santa Rebecca ar-Rayyas da Himláya

Santa Rebecca ar-Rayyas da Himláya

(Rafqa Pietra Choboq)

Vergine ( 1832 – 1914) 23 marzo

Nasce in Libano e il suo nome di battesimo in arabo è Boutroussyeh, che corrisponde all’italiano Pierina. Fattasi religiosa soffre dolori tremendi alla testa e agli occhi, dovuti anche a un’operazione sbagliata, ma sa accettare e offrire in unione alla passione del Signore. 

Rafqa nacque a Himlaya, villaggio del Metn settentrionale (Libano), il 29 giugno 1832. Era figlia unica di Mourad Saber al-Choboq al-Rayès e di Rafqa Gemayel; fu battezzata il 7 luglio 1832 e ricevette il nome di Boutroussyeh (Pierina). I suoi genitori le insegnarono ad amare Dio e a pregare quotidianamente.

Nel 1839, quando aveva sette anni, perse sua madre, alla quale era molto attaccata. Suo padre cadde, allora, in povertà e, nel 1843, la mandò a Damasco, a servizio nella casa di Asaad al-Badawi, che era di origine libanese, dove restò quattro anni.

Rafqa tornò alla casa paterna nel 1847 e scoprì che suo padre si era risposato in sua assenza con una donna chiamata Kafa. Ella aveva, allora, quindici anni; era bella, socievole e di buon carattere, dotata di una voce melodiosa e di una religiosità profonda e umile. La sua zia materna voleva farla sposare a suo figlio, e la sua matrigna invece al proprio fratello, e ciò fece nascere un dissidio fra loro. Rafqa fu addolorata di questo e decise di farsi religiosa. Rafqa nella Congregazione delle Mariamât (Figlie di Maria) (1853-1871)

Rafqa chiese a Dio di aiutarla a realizzare il suo desiderio. Le si presentò, allora, alla mente l’idea di recarsi al convento di Nostra Signora della Liberazione a Bikfaya, per divenire religiosa, insieme ad altre due ragazze che aveva incontrato lungo la strada.

Al momento di entrare in chiesa, ella sentì una gioia interiore indescrivibile. Un solo sguardo gettato sull’immagine di Nostra Signora della Liberazione fu sufficiente per confermare in lei la chiamata a consacrarsi a Dio: “Tu diventerai religiosa” le diceva una voce nel profondo del suo cuore. La Madre Superiora accettò lei sola, senza le sue due compagne, senza farle le domande d’uso. Rafqa non ritornerà più a casa sua. Suo padre e la moglie si recarono al convento, per cercare di distoglierla dalla sua decisione, ma inutilmente. Ella fece un anno di postulantato e il 9 febbraio 1855, festa di San Marone, prese l’abito di novizia. Il 10 febbraio dell’anno seguente (1856), emise i voti religiosi, sempre nel convento di Nostra Signora della Liberazione a Bikfaya.

Il primo agosto 1858, la giovane religiosa fu inviata al Seminario di Ghazir, in compagnia di suor Maria Gemayel. I Padri Gesuiti dirigevano, all’epoca, quel seminario. I superiori si proponevano, allora, di dare un’educazione adeguata alle ragazze che desideravano entrare fra le Mariamât. Oltre a questo incarico, fu affidato a Rafqa il servizio della cucina del seminario. Fra i seminaristi c’erano, a quel tempo, il futuro Patriarca Elia Huwayek, l’Arcivescovo Boutros al-Zoghbi e molti altri. Durante il soggiorno a Ghazir, profittò dei momenti liberi per approfondire le proprie conoscenze della lingua araba, dell’ortografia e dell’aritmetica.

In seguito i superiori la inviarono in numerose scuole della montagna libanese, come Beit-Chabab, Choueir, Hammana,e altre.

Nel 1860, Rafqa fu trasferita a Deir al-Qamar, per insegnare il Catechismo ai giovani. Ebbero luogo in quel periodo i drammatici avvenimenti che insanguinarono il Libano in quell’anno. Rafqa vide con i propri occhi il martirio di un gran numero di persone. Ebbe anche il coraggio di nascondere un bambino sotto il proprio mantello, salvandolo dalla morte. Rafqa trascorse a Deir al-Qamar circa un anno: poi tornò a Ghazir, passando per Beyrouth.

Nel 1862, per ordine dei suoi superiori, Rafqa fu trasferita alla scuola della sua Congregazione a Jbeil, dove trascorse un anno a istruire le ragazze ed a formarle nei principi della fede cristiana.

All’inizio del 1864, fu trasferita da Jbeil a Maad, su richiesta del grande benefattore Antoun Issa. Vi rimase sette anni, durante i quali fondò una scuola per istruire le ragazze; fu aiutata, in questo, da un’altra religiosa. Rafqa nella Congregazione delle Monache Libanesi Maronite (1871-1914)

Durante il suo soggiorno a Maad, nel corso di una crisi che aveva scosso la Congregazione delle Mariamât, intorno al 1871, Rafqa domandò a Dio di aiutarla a prendere una decisione secondo la sua volontà. In quei momenti sentì una voce che le diceva: “Tu sarai monaca“.

Dopo aver pregato fervidamente, vide in sogno San Giorgio, San Simeone lo Stilita, e Sant’Antonio il Grande, Padre dei monaci, che le disse: “Entra nell’Ordine delle Monache Libanesi Maronite“. Antoun Issa la aiutò a trasferirsi da Maad al monastero di San Simeone al-Qarn a Aïtou, dove fu subito ricevuta, e vestì l’abito di novizia il 12 luglio 1871. Quindi, il 25 agosto 1872, fece la professione religiosa solenne, e prese il nome di suor Rafqa, in ricordo di sua madre, che si era chiamata Rafqa.

Trascorrerà 26 anni nel monastero di Mar Semaan al-Qarn, Aïtou (1871-1897), essendo un esempio vivente, per le religiose sue consorelle, nell’obbedienza alle Regole, l’assiduità nelle preghiere, l’ascesi, l’abnegazione, ed il lavoro compiuto in silenzio.

La prima domenica d’ottobre del 1885, nella chiesa del monastero, mentre era in preghiera, domandò al Signore di farla partecipare alla sua Passione redentrice. La sua preghiera fu esaudita la sera stessa: essa cominciò a provare fortissimi dolori alla testa e ben presto furono colpiti anche gli occhi. Tutte le cure furono senza effetto e si decise di mandarla a Beyrouth per tentare altre cure. Durante il viaggio si fermò a Jbeil, dove fu affidata a un medico americano che, dopo averla visitata, decise di operarla, ma durante l’operazione le estrasse per errore l’occhio destro. Il male colpì ben presto anche l’occhio sinistro; allora, i medici giudicarono che qualunque cura sarebbe stata inutile e Rafqa tornò nel suo monastero, dove il dolore agli occhi la accompagnò per 12 anni. Sopportò il suo dolore con pazienza, in silenzio, nella preghiera e nella gioia, ripetendo continuamente: “In unione con la Passione di Cristo“.

Le autorità religiose dell’Ordine Libanese Maronita avevano preso la decisione di fondare il monastero di San Giuseppe al-Daher, a Jrabta (Batroun), e, nel 1897, furono distaccate sei religiose dal monastero di Mar Semaan a Aïtou, per formare la prima comunità residente in questo nuovo monastero, sotto l’autorità della Madre Ursula Doumith di Maad. Rafqa faceva parte di questo gruppo. Nel 1899 divenne completamente cieca, inaugurando una nuova tappa del suo calvario.

Rafqa visse l’ultima tappa della sua vita cieca e paralitica: gli occhi completamente spenti, dolori acuti nei fianchi, e una debolezza generale in tutto il corpo, ad eccezione del suo volto, che restò luminoso e sereno fino all’ultimo respiro. Il femore destro si era dislocato e spostato; lo stesso anche il femore dell’altra gamba; la clavicola si era dislocata e conficcata nel collo; le vertebre potevano essere contate ad una ad una. Non rimaneva nessuna parte del corpo sana, tranne le articolazioni delle mani, delle quali si serviva per lavorare a maglia, ringraziando il Signore per averle risparmiato la sofferenza di dover restare senza poter far nulla.

Rafqa si addormentò nel Signore in odore di santità il 23 marzo 1914, dopo una vita passata nella preghiera, nel servizio e nel portare la Croce, affidandosi all’intercessione di Maria, Madre di Dio, e di San Giuseppe. Fu sepolta nel cimitero del monastero.

Il 10 luglio 1927 la sua spoglia mortale venne trasferita in una tomba nuova, in un angolo della chiesa del monastero, e questo in seguito all’introduzione della sua causa di beatificazione, il 23 dicembre 1925, ed all’inizio dell’inchiesta sulla fama di santità,il 16 maggio 1926.

Sua Santità il Papa Giovanni Paolo II l’ha dichiarata Venerabile l’11 febbraio 1982; fu beatificata il 17 novembre 1985 e canonizzata il 10 giugno 2001.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/46725

 

 

 

Serva di Dio Santa Scorese

Serva di Dio Santa Scorese

Giovane laica (1968 – 1991) 15 marzo

Santa Scorese, nativa di Bari, intenta a capire come aiutare chi soffre e mettendo Dio come unico punto fermo della propria esistenza venne uccisa con 14 coltellate da un maniaco che la perseguitava.

Santa di nome e di fatto, o almeno tale la ritiene la diocesi di Bari, che nel 1998, quindi ad appena sette anni dalla morte, ha dato avvio alla causa di beatificazione di Santa Scorese, morta ammazzata ad appena 23 anni.

È figlia di un poliziotto e di una casalinga, ma soprattutto è figlia del ’68 nel senso più vero del termine. Nasce infatti il 6 febbraio 1968 e la sua vita è uno straordinario mix di spiritualità, tante quante sono le “esperienze forti” che attraversa nella sua breve vita.

Prima di tutto, in ordine cronologico, viene la spiritualità salesiana, che respira nella sua parrocchia di origine e che le trasmette una grande devozione mariana. Negli anni dell’adolescenza è plasmata poi dalla spiritualità focolarina e dalla forte personalità di Chiara Lubich, mentre nei suoi ultimi anni è affascinata da san Massimiliano Kolbe e s’avvicina alle Missionarie dell’Immacolata, ispirate alla spiritualità di quel francescano martire ad Auschwitz, senza dimenticare l’influenza ricevuta anche dall’Azione Cattolica.

Tra un’esperienza e l’altra c’è la fatica di una ragazza con “la testa a posto”, che studia e riesce bene a scuola perché è consapevole dei sacrifici dei suoi genitori per farla studiare, ma che ha imparato anche a regalare il suo tempo agli altri. Per questo la si trova tra i Pionieri della Croce Rossa, al fianco di una giovane famiglia con problemi, nel coro Gen, tra i catechisti della parrocchia, sempre disponibile ad ascoltare, consigliare, confortare chiunque.

Con tali e tanti impegni, resta davvero un mistero dove riesca a trovare ancora il tempo per studiare, eppure il libretto universitario parla chiaro. È solo passata da Medicina a Pedagogia, perché ha fretta di tuffarsi in una professione con la quale “esser d’aiuto a chi soffre”.

Ancora più brillante del suo curriculum scolastico è però il suo itinerario spirituale: abituata fin da ragazzina ad avere un confessore stabile e un consigliere spirituale, si lascia docilmente guidare negli anni verso una fede matura e coraggiosa; anche i movimenti nei quali milita servono a darle una solida formazione.

All’insaputa di tutti comincia a scrivere il suo diario spirituale, trovato con sorpresa solo dopo la sua morte, dalle cui pagine si riesce a capire che per Santa “solo Dio è ciò che conta”, perché Lui soltanto “è veramente l’unico incrollabile punto fermo della vita di ognuno di noi”.

Passa in mezzo agli amici e alle amiche dei suoi gruppi come “una ragazza dinamica, viva, allegra, piena di iniziative e di idee”, raccontano oggi le testimonianze, che ci tengono a sottolineare anche come sia facile “socializzare e condividere esperienze con lei”. Tutti la apprezzano “per la sua semplicità e schiettezza, ma anche per la sua caparbietà e la sua ostinatezza nell’affermare i suoi principi e i suoi valori”.

Nelle pagine del suo diario passa gradatamente dal sogno di “un uomo da amare, con il quale condividere tutta la vita”, ad un amore più alto e più grande per il suo Dio, al quale un giorno sussurra: “Io sono contenta di stare innamorandomi di Te”. Per qualche mese accarezza l’idea di aggregarsi alle Missionarie dell’Immacolata, poi rimanda la decisione a dopo la tesi, in attesa che “questo Dio, che si è innamorato di me senza sapere che si è andato a cercare un guaio”, faccia più luce sulla sua vocazione.

Nel 1989 un giovane psicopatico, che casualmente l’ha sentita proclamare la Parola di Dio durante una celebrazione nella cattedrale di Bari, si invaghisce morbosamente di lei, seguendola ad ogni passo: la perseguita, la provoca, l’aggredisce persino.

Il giovane riesce ad intercettare ogni suo spostamento e la minaccia: “Tu sarai mia o di nessuno”. Con lettere, telefonate, parole oscene, messaggi registrati giura di “farla secca” se non smette di frequentare le chiese e non inizia una relazione con lui: un caso di stalking in piena regola, all’epoca non perseguibile e che nessuno riesce ad arginare, né la scorta della polizia, né le varie diffide che gli vengono fatte.

Per Santa è in gioco, oltre la sua dignità di donna, anche la sua fede, cui non è disposta a rinunciare per niente al mondo. “Se dovesse capitarmi qualcosa, ricordati che io ho scelto Dio”, dice al suo padre spirituale; alcune sere dopo, il 15 marzo 1991, rincasando dalla riunione con il gruppo giovanile di Azione Cattolica, è aggredita alle spalle sulla porta di casa dal suo giovane persecutore con quattordici coltellate. Muore alcune ore dopo, in ospedale, e un medico testimonia che le sue ultime parole sono di perdono per il suo assassino.

Ora Santa Scorese è “sotto inchiesta” per accertare se quella morte fu vero martirio, ma fin da ora “è la dimostrazione vivente che è possibile realizzare i grandi progetti di Dio senza rinunciare alle gioie della vita e vivendo con pienezza fino al sacrificio estremo i più importanti valori dell’esistenza”. E lei, che aveva chiesto a Diola capacità di amare, di avere un cuore aperto a 360 gradi”, può fin da ora anche essere considerata la “santa delle perseguitate”.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/91547

 

Serva di Dio Anfrosina Berardi

Serva di Dio Anfrosina Berardi

Fanciulla (1920 – 1933) 13 marzo

Morta dopo un attacco di appendice degenerato in occlusione intestinale all’età di 11 anni.  Cercò di sopportare i dolori che aveva, certa che il Signore aveva sofferto ben più di lei. Devotissima alla Vergine Maria, affermava di vederla spesso e di aver ricevuto da lei doni particolari, come il preannuncio del giorno della sua morte.

Nasce il 6 dicembre 1920 a San Marco di Preturo (nei pressi di L’Aquila), in una modesta famiglia contadina di nove figli. Lei ultimogenita di Isidoro Berardi, agricoltore, e di Santa Cucchiella, casalinga. Al battesimo, celebrato sei giorni dopo, ricevette i nomi di Anfrosina Altabella: il primo è probabilmente un’alterazione di Ambrogina, dato che l’indomani ricorreva la memoria di sant’Ambrogio di Milano. Dal carattere schivo e amante della solitudine, riesce però ad essere attiva e servizievole. Apprese le prime preghiere dalla mamma.

Nell’aprile 1931 comincia ad accusare forti dolori addominali, che ne determinano il ricovero ospedaliero a L’Aquila e il 14 maggio viene sottoposta ad appendicectomia. L’intervento chirurgico non sembra tuttavia risolvere i suoi problemi, perchè continua a non aver appetito e ad accusare i soliti dolori, che anzi si fanno via via più insopportabili. Una successiva radiografia evidenzierà una progressiva occlusione intestinale, cui neanche chirurgicamente sarà possibile porre rimedio. Sempre più indebolita e sofferente, la bambina deperisce di mese in mese e la scienza medica si dichiara impotente anche solo a mitigarne il dolore.

Consapevole del suo progressivo peggioramento, si dice preoccupata soprattutto che la morte le impedisca di ricevere la Prima Comunione. Un’ulteriore sofferenza che le viene risparmiata, perché  il 13 ottobre 1932, insieme alle sue compagne, ha la gioia di ricevere Gesù per la prima volta e anche il sacramento della Cresima. Non ha però la forza di partecipare al piccolo rinfresco che la famiglia le ha preparato: ormai, i forti dolori che prova e il continuo senso di nausea le impediscono di assumere cibi solidi, ma anche i liquidi le devono essere somministrati a piccolissimi sorsi.

In quel periodo, iniziarono a manifestarsi in lei episodi straordinari. Nel giro di poco tempo, il suo nome fu noto in tutto l’Abruzzo. Il numero dei visitatori cresceva col passare dei giorni, e lei li riceveva tutti pazientemente, raccomandando loro di affidarsi alla Madonna, di riprendere ad accostarsi ai sacramenti e di pregare per i defunti.

Questi visitatori sono i primi testimoni delle sue frequenti estasi e dei suoi colloqui soprannaturali, al termine dei quali, con assoluta semplicità, riferisce di aver incontrato la Madonna ed i messaggi che da lei ha ricevuto. Sembra, a detta dei suoi primi biografi, che si sviluppi in lei anche la capacità di leggere nei cuori, invitando alla conversione soprattutto chi le si avvicina in stato di peccato.

Al fratello maggiore, che vorrebbe chiedere un ultimo consulto medico, dice apertamente che si tratterebbe di una spesa inutile, avendo avuto comunicazione dalla Madonna di una morte imminente. Anzi, arriva il momento in cui dalla Madonna conosce esattamente il giorno e l’ora in cui sarebbe morta e lo comunica ai parenti, con la tranquillità di chi sa di finire in braccia materne che la accompagneranno direttamente in paradisoIo non muoio, ma vado in Paradiso con la Madonna».

Il mattino del 13 marzo, autorizzata dalla Madonna a rompere il digiuno eucaristico, chiede un cucchiaio di caffè caldo e si prepara a ricevere quella che sa essere la sua ultima comunione, che il parroco le porta verso le 7; a metà mattinata, dopo aver sorriso ai genitori, alzando il braccio come per tracciare un segno di croce sui presenti, si addormenta dolcemente nella morte.

L’incessante e massiccio accorrere delle persone che vogliono vederla per l’ultima volta obbligano la famiglia, prima a trasferire il feretro in piazza e poi a spostare il funerale a fine giornata del giorno successivo. Cominciano subito a verificarsi fatti inspiegabili e guarigioni che hanno del prodigioso, che altro non fanno che aumentare la fama di santità di Anfrosina; molti riferiscono anche di averla vista in sogno, soprattutto come richiamo alla conversione. Così nel 1962 la diocesi inizia il processo di beatificazione di Anfrosina Berardi, mentre la sua salma viene traslata nella chiesa parrocchiale di San Marco Evangelista a Preturo, dove ogni anno, nella domenica più vicina al 13 marzo, si svolge una Messa solenne per chiedere la sua beatificazione.

PREGHIERA

Signore Dio, Trinità Santissima, che hai voluto ricolmare di doni così insigni la tua serva Anfrosina Berardi, se è conforme al tuo disegno di glorificare questa angelica fanciulla, accogli le mie ardenti preghiere e concedimi per mezzo di lei la grazia particolare che ti chiedo…

Te ne supplico vivamente, Padre misericordioso, anche per intercessione della Vergine Santissima, che la pia Anfrosina ha tanto amato e dalla quale ha ricevuto segni così straordinari di materna predilezione. Amen.

Padre nostro, Ave Maria e Gloria al Padre.

Fontehttp://www.santiebeati.it/dettaglio/91630

 

Servo di Dio Luigi Giussani

SERVO DI DIO LUIGI GIUSSANI

Mons. Luigi Giovanni Giussani

Fondatore (1922 – 2005) 22 febbraio

Fondatore del movimento di Comunione e Liberazione. Ecco cosa disse l’allora Cardinale Joseph Ratzinger alle sue esequie  “… Lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa, attraverso di lui, un Movimento, … che testimoniasse la bellezza di essere cristiani in un’epoca in cui andava diffondendosi l’opinione che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere. …” 

Luigi Giussani nacque e trascorse la sua infanzia nella cittadina di Desio, in Brianza, a pochi chilometri da Milano. Maggiore di cinque fratelli, ricevette la prima introduzione alla fede cattolica dalla madre Angelina Gelosa, operaia tessile; il padre Beniamino, disegnatore e intagliatore, era un socialista.

Il 2 ottobre 1933 entrò nel seminario diocesano San Pietro Martire di Seveso dove frequentò i primi quattro anni di ginnasio. Nel 1937 si trasferì a Venegono Inferiore, nella sede principale del seminario dove frequentò l’ultimo anno di ginnasio, i tre anni del liceo e dove svolse i successivi studi di teologia.

Ebbe come docenti, fra gli altri, Giovanni Colombo (poi cardinale e arcivescovo di Milano), i teologi Gaetano Corti, Carlo Colombo (in seguito vescovo ausiliare di Milano) e Carlo Figini. In quella sede conobbe i compagni di studio Enrico Manfredini e Giacomo Biffi che divennero in seguito entrambi arcivescovi di Bologna. In questi anni si interessò di Giacomo Leopardi e delle chiese ortodosse.

Il 26 maggio 1945 Giussani, ventitreenne, ricevette l’ordinazione sacerdotale dal cardinale Ildefonso Schuster.

Dopo l’ordinazione, rimase nel seminario di Venegono come insegnante e si specializzò nello studio della teologia orientale (specie sugli slavofili), della teologia protestante statunitense e della motivazione razionale dell’adesione alla Chiesa.

Nel 1954, trentaduenne, lasciò l’insegnamento in seminario per quello nelle scuole superiori. Iniziò l’insegnamento della religione nelle scuole superiori, presso il liceo Berchet di Milano, dove rimase per dieci anni, fino al 1964. Le prime riunioni di suoi studenti si tennero con il nome di Gioventù Studentesca (GS), che fondò insieme a don Francesco Ricci e che fino agli anni settanta fece parte dell’Azione Cattolica.

Iniziò anche un’attività pubblicistica volta a porre attenzione sulla questione educativa. Redasse la voce “Educazione” per l’Enciclopedia Cattolica.

Sotto al cardinale Colombo continuò gli studi di teologia protestante americana per i quali soggiornò per cinque mesi negli Stati Uniti. Nel 1964, ottenne la cattedra di Introduzione alla Teologia presso l’Università Cattolica di Milano, che mantenne fino al 1990.

« Lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa, attraverso di lui, un Movimento, il vostro, che testimoniasse la bellezza di essere cristiani in un’epoca in cui andava diffondendosi l’opinione che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere. Don Giussani s’impegnò allora a ridestare nei giovani l’amore verso Cristo “Via, Verità e Vita”, ripetendo che solo Lui è la strada verso la realizzazione dei desideri più profondi del cuore dell’uomo, e che Cristo non ci salva a dispetto della nostra umanità, ma attraverso di essa. » (Cardinale Joseph Ratzinger durante l’omelia per le esequie di Don Giussani, Duomo di Milano, 24 febbraio 2005.)

Negli anni 1969-1970 il movimento da lui creato prese il nome di Comunione e Liberazione; Don Giussani ne assunse la guida presiedendone il consiglio generale. L’11 febbraio 1982 il Pontificio Consiglio per i Laici riconobbe la Fraternità di Comunione e Liberazione e don Giussani ne guidò la Diaconia Centrale.

Fu creato Monsignore da Giovanni Paolo II nel 1983 con il titolo di Prelato d’onore di Sua Santità. Sei anni dopo, nel 1989, contribuì alla costituzione del Banco Alimentare. Nel 1987 fu nominato consultore del Pontificio Consiglio per i Laici. Nel 1988 tale organismo riconobbe ufficialmente l’associazione laicale Memores Domini. Nel 1994 fu nominato consultore della Congregazione per il Clero. L’11 dicembre 1997 il suo testo, Il senso religioso, fu presentato nell’edizione inglese al Palazzo dell’ONU di New York.

La maggior parte delle opere di Luigi Giussani, soprattutto a partire dagli anni ottanta, deriva dalla trascrizione di dialoghi, conversazioni e lezioni svolte in pubblico durante raduni, convegni, esercizi spirituali. Nelle sue numerose opere propone la concezione della fede e dell’esperienza cristiana come incontro con Cristo attraverso la Chiesa cattolica. Per don Giussani la fede è un «riconoscere una Presenza» ed occupa ogni singolo spazio della vita individuale (i rapporti umani, l’esperienza lavorativa, la vita sociale e politica). Da ciò nasce anche una critica alla ragione illuminista. L’idea della ragione come principale strumento offerto all’uomo nel rapporto con la realtà e della fede come metodo di conoscenza sono, secondo don Giussani, le premesse metodologiche per un’analisi dell’esperienza religiosa.

Don Giussani morì a Milano il 22 febbraio del 2005. Molti gli resero omaggio nei giorni successivi nella camera ardente, allestita nella cappella dell’Istituto Sacro Cuore, scuola voluta dallo stesso don Giussani. Il suo funerale fu celebrato giovedì 24 febbraio 2005 dall’inviato di Giovanni Paolo II, l’allora cardinale Joseph Ratzinger, che a distanza di poche settimane sarebbe stato scelto come suo successore, e concelebrato dall’Arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, dall’allora Patriarca di Venezia Angelo Scola, dal successore alla guida del movimento di Comunione e Liberazione, don Julián Carrón, e da altri sacerdoti. Il funerale fu trasmesso in diretta da Rai Uno.

Luigi Giussani fu sepolto nel Famedio del Cimitero monumentale di Milano. Nella notte dell’8 giugno 2006 la tomba di don Giussani al Famedio fu profanata e vennero trafugati due ex voto da parte di ignoti. In seguito la salma fu traslata in una cappella dedicata all’interno del Cimitero monumentale.

Il 17 gennaio del 2006 venne riconosciuto dalla Santa Sede fondatore delle Suore di Carità dell’Assunzione insieme a padre Stefano Pernet.

In occasione del settimo anniversario della morte, il 22 febbraio 2012 è stato dato l’annuncio della richiesta di Nihil obstat alla Santa Sede per dare inizio alla fase diocesana del processo per la causa di beatificazione e canonizzazione di don Luigi Giussani. Dopo l’ottenimento del Nihil obstat, dal 13 aprile 2012 Luigi Giussani è considerato Servo di Dio.

Fontehttps://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Giussani

Beata Elisabetta Sanna

BEATA ELISABETTA SANNA

Vedova, Terziaria francescana, membro dell’Unione dell’Apostolato Cattolico (1788 – 1857) 17 febbraio

A tre mesi perdette la capacità di sollevare le braccia, ma riuscì comunque a sposarsi ed allevare cinque figli. Vedova  fece voto di castità; diventa la madre spirituale delle ragazze e delle donne della sua terra. …

 

A Codrongianos (Sassari), il 23 aprile 1788, da una famiglia di agricoltori, ricca di fede e di figli, nasce Elisabetta Sanna. Nella sua casa si lavora, si prega, mai si nega l’elemosina ai poveri. Quando ha appena tre mesi, un’epidemia di vaiolo causa la morte di molti bambini ed anche lei ne viene colpita. Guarisce, ma rimane con le braccia leggermente storpie e le articolazioni alquanto irrigidite. Ciò non le impedisce di crescere, imparando a sopportare il suo handicap, come cosa naturale e a sbrigare al meglio le faccende domestiche, a presentarsi sempre ordinata e pulita.[…]

A dieci anni, la prima Confessione e la prima Comunione. Frequenta il catechismo tenuto da Don Luigi Sanna, cugino del papà, e al catechismo porta le compagne, dicendo: «Dai, vieni che è bello». Ella stessa, giovanissima, pur non sapendo né leggere né scrivere, diventa piccola catechista. Un giorno, guardando il Crocifisso, sente una voce interiore che le dice: «Fatti coraggio e amami!».

Quindicenne, raduna le ragazze nei giorni festivi in casa sua e insegna loro la dottrina cristiana e a pregare con il Rosario. Suo fratello, Antonio Luigi – dal quale ha imparato a intensificare il culto alla Madonna – entra in Seminario a Sassari dove diventerà sacerdote. Elisabetta, rimanendo nel mondo si iscrive alla Confraternita del Rosario e a quella dello Scapolare del Carmelo. Una giovinezza serena, piena di lavoro, di colloquio con il Signore Gesù, di apostolato.

Vorrebbe farsi suora; sicuramente, essendo handicappata, non pensa a sposarsi, eppure, ventenne è cercata in sposa da giovani buoni. Così il 13 settembre 1807, a 19 anni, celebra il matrimonio con un certo Antonio, un vero buon cristiano di modeste condizioni. Una festa semplice e serena, un totale affidamento al Signore e alla Madonna, è l’inizio della loro vita coniugale. Antonio è un marito e padre esemplare che stravede per la sua sposa e le dà totale fiducia. Agli amici dice: «Mia moglie non è come le vostre, è una santa!». Elisabetta dirà: «Io non ero degna di tale marito, tanto era buono». La loro famiglia è modello per tutto il paese.

Negli anni che seguono, nascono sette figli. Ella passa le giornate tra la casa, impegnata nell’educazione dei figli e la campagna, dove lavora senza risparmiarsi. E trova anche il tempo per lunghe ore di preghiera in chiesa. Ella stessa prepara i suoi figli alla Confessione e alla Comunione e trasmette loro un grande amore a Gesù, con molta dolcezza, senza mai usare modi bruschi. Una vera educazione con il cuore. Non teme le critiche per la sua fede pubblicamente professata e vissuta: «Questo mio tenore di vita – risponde – non mi ha impedito di attendere ai miei doveri di madre di famiglia che compio oltre le mie forze».

Dei sette figli, due sono morti in tenerissima età. Nel gennaio 1825, il giorno 25, suo marito, Antonio, assistito da lei, muore in giovane età. Vedova con cinque figli, il più grande ha 17 anni, il più piccolo di appena tre, intensifica la sua vita di preghiera e di carità, senza mai trascurare i suoi doveri di madre e la sua famiglia procede con dignità e decoro.

La sua casa diventa quasi un piccolo oratorio, dove, oltre ai suoi familiari, si riuniscono in preghiera i vicini di casa. Ella vive come una monaca nel mondo e così è chiamata con rispetto: “sa monga”.

In questi anni, compone in dialetto logudorese una bellissima lauda, che sarà cantata a lungo a Codrongianos: “Ti ho, Dio, in cuore e in mente, perché troppo mi hai amata. Viver non posso più lontana da Dio. Gesù è il cuor mio e io sono di Gesù”.

Nel 1829 arriva in paese il giovane vice-parroco, Don Giuseppe Valle, di nobile famiglia, di notevole ascendente sulle anime. Diventa il confessore e direttore spirituale della famiglia Sanna, in particolare di Elisabetta, che lui avendo appena 24 anni, chiama zia. Don Valle, viste le ottime disposizioni di Elisabetta, la invita alla Comunione molto frequente, le permette di portare il cilicio e le concede di emettere il voto di castità. La sua vita cristiana diventa davvero ardente. Gesù le chiede così di seguirlo più da vicino.

Elisabetta, pensa di andare allora in Palestina. Ma dove avrebbe sistemato i suoi figli, in quel tempo? Il buon prete le suggerisce di affidarli al fratello sacerdote, Don Antonio Luigi. Alla fine del giugno 1830, si imbarcano da Porto Torres per Genova: lì attendono dieci giorni la nave per Cipro. All’ultimo momento, però, Don Valle scopre di non avere il visto per l’Oriente.

Allora, con Elisabetta e un altro frate, decidono di dirigersi a Roma: «Anche Roma è terra Santa: ci sono le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo, grandi santuari e poi c’è il Papa, Vicario di Gesù sulla terra. Più tardi, da là, se il Cielo vorrà, partiremo per la Palestina». Così il 23 luglio 1830, arrivano a Roma. Don Valle è assunto come cappellano all’ospedale Santo Spirito, dove si dedica ai malati con cuore di padre. Elisabetta Sanna si accomoda in un piccolissimo alloggio di due stanzette, di fronte alla chiesa di Santo Spirito, vicinissimo alla Basilica di San Pietro, proprio nel cuore della Cristianità.

Elisabetta conosce solo il dialetto e quindi non parla con nessuno. Solo con Dio nella preghiera e vive nella sua celletta, come un’eremita: visita chiese, partecipa alla Messa più volte al giorno, fa la carità ai poveri. Nel suo alloggio, due mesi dopo, accoglie Don Giuseppe Valle, come un figlio da curare. Il prete vi rimarrà fino al 1839, assistito da Elisabetta come da una madre.

L’apostolato di San Vincenzo Pallotti

Nel suo pellegrinare per le chiese di Roma, assetata di preghiera, Elisabetta si incontra, in San Pietro con il Maestro dei Penitenzieri, Padre Camillo Loria, che, ascoltata la sua confessione, le ordina di tornare in Sardegna. Ella è decisa ad obbedire, ma proprio in quel periodo di dubbio e di ansia sul da farsi, incontra nella chiesa di Sant’Agostino, un santo prete romano, Don Vincenzo Pallotti, dedito ad un proficuo vasto apostolato, in cui coinvolge numerosi laici, dando vita nel 1835 alla Società dell’Apostolato Cattolico.

Uomo di grande influenza sui religiosi e sui laici, ricco di un fascino singolare, Don Pallotti sarà canonizzato dal Santo Padre Giovanni XXIII nel gennaio 1963. Elisabetta è compresa e rasserenata da Don Vincenzo, che illuminato da Dio, vede la singolare missione a cui ella è chiamata nell’Urbe. Dirà: «Allora, mi quietai e dopo circa cinque anni che dimoravo a Roma, ebbi una lettera da mio fratello sacerdote che la mia famiglia era veramente lo specchio del paese e tutti ne erano edificati».

[…] Diventa terziaria francescana e soprattutto si occupa, come prima collaboratrice, nell’unione Apostolato Cattolico, fondato da Don Pallotti. Ai suoi figli in Sardegna, fa donazione di tutto quanto possiede, lieta di vivere in perfetta povertà. Chi la avvicina, dirà di lei: «Vedeva Dio in tutto e lo adorava in tutte le cose.

 

[…] Il 17 febbraio 1857, con la morte dei santi, Elisabetta Sanna va incontro a Dio, dopo aver visto Don Pallotti e San Gaetano da Thiene, che vengono a prenderla per il Paradiso. Al suo funerale, la gente di Roma dirà: «È morta la santa di San Pietro».

Fu tanto il consenso popolare su di lei che, appena quattro mesi dopo la morte, fu nominato il postulatore della sua causa di beatificazione, durata oltre un secolo e mezzo. È stata dichiarata Venerabile il 27 gennaio 2014. Il miracolo che l’ha condotta finalmente sugli altari, approvato da papa Francesco il 21 gennaio 2016, è la guarigione, avvenuta nel 2008, di una ragazza brasiliana da un tumore che le paralizzava un braccio. È stata beatificata il 17 settembre 2016 presso la basilica della Santissima Trinità di Saccargia a Codrongianos.

Fontehttp://www.santiebeati.it/dettaglio/94038

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SAN VINCENZO PALLOTTI

 

Serva di Dio Arcangela Filippelli

Serva di Dio Arcangela Filippelli

Vergine e martire (1853 –1869) 7 febbraio

Insidiata da un giovane che intendeva usarle violenza, opponendosi vivamente venne uccisa a colpi di scure. I suoi resti mortali, dapprima sepolti nel cimitero della sua città vennero successivamente traslati nella Chiesa parrocchiale di San Francesco di Paola.

Arcangela nacque nella contrada “Timpa”, situata lontana dal centro abitato di Longobardi, in provincia di Cosenza, il 16 marzo del 1853, anche se venne registrata in Comune il giorno successivo. I suoi genitori, Vincenzo Filippelli, bracciante e Domenica Pellegrini, filatrice, l’insegnarono a vivere con devozione le principali solennità religiose ed erano noti tra i concittadini per la loro onestà.

Crescendo, finì col diventare la ragazza più bella del paese non solo per i suoi capelli biondi e l’incarnato roseo, ma soprattutto per il suo sorriso con cui i compaesani la ricordavano e che traeva origine dai lunghi colloqui con Dio nella Chiesa del paese che frequentava con assiduità e nella quale si accostava ai sacramenti.

Il 7 febbraio 1869, domenica di Carnevale, la madre decise di mandare la ragazza da un’amica, Anna Provenzano, per procurarsi della legna da ardere. La signora, tuttavia, non ne aveva neppure per sé, quindi mandò insieme alla fanciulla le sue tre figlie in un bosco privato in contrada “Russo”, di cui era custode suo marito Arcangelo. A differenza dei genitori di Arcangela, questi non godeva di buona fama, tanto da essere soprannominati “Lucifero”.

Dopo la Messa, le ragazze si avviarono verso il bosco, per non partecipare alle feste di Carnevale, all’epoca ritenute occasione di peccato. A seguirle, il figlio di Arcangelo Provenzano, Antonio, di 22 anni, che per il suo aspetto e i suoi comportamenti si era procurato, come avvenuto per il padre, un soprannome poco gradevole, quello di “facione”. Era interessato ad Arcangela, perciò colse l’occasione per insidiarla e cercare di farla sua.

Accompagnate le ragazze nel bosco, le aiutò personalmente a legare le fascine di legna, che aveva tagliato con la scure che gli era stata prestata da Saveria Mantello, una vicina di casa. Una volta sistemato il carico delle sorelle sulle loro teste, le invitò a tornare a casa, mentre lui sistemava la restante legna con Arcangela, ma loro non vollero muoversi senza di lei. Tuttavia, mentre stavano ancora nel bosco, la sua fascina si sciolse, costringendola a restare indietro di qualche centinaio di metri.

Allora Antonio decise di attuare il suo piano: dopo aver raccolto la legna, prese a insinuare proposte scorrette alla ragazza, la quale, impaurita, iniziò a correre e a urlare per il bosco, poi si aggrappò con forza a un albero di castagno che si trovava nei pressi di un’altura. Il giovane la raggiunse e ripeté le sue profferte, ottenendo, costantemente, rifiuto dopo rifiuto: «La Madonna non vuole queste cose» e «Morta sì, ma non mi farò mai toccare da te», esclamò Arcangela.

Infuriato, Antonio estrasse la scure dalla cinta dei pantaloni e mutilò la ragazza tagliandole mani, orecchie e piedi, infierendo successivamente sul resto del corpo con oltre quaranta colpi.

A causa del buio e della nebbia, né i contadini del luogo né le sorelle Provenzano accorsero. Verso sera, partirono le ricerche di Arcangela, su iniziativa dei genitori che non l’avevano vista tornare. Lo stesso Antonio fu a capo di uno dei gruppi e arrivò, per occultare il misfatto, a smorzare il lucignolo di una lanterna. Solo l’indomani, il bracciante Pasquale Cavaliere, ritrovò il cadavere e avvertì le autorità e i parenti. I sospetti caddero subito su Antonio, che aveva cercato di crearsi un alibi tornando al suo posto di lavoro, ma lì venne arrestato.

Tutta la popolazione di Longobardi e numerosi abitanti dei paesi vicini presero parte al funerale di Arcangela, che fu seppellita nel cimitero cittadino. Immediatamente, venne avviato il processo penale davanti alla Corte d’Assise di Cosenza, durante il quale i testimoni interpellati assicurarono la rettitudine della ragazza e dei suoi familiari. Il 17 maggio 1869 il processo si concluse con la condanna a morte di Antonio, che non fu eseguita perché lui morì di cancrena, presso le carceri di Cosenza, il 5 agosto 1872.

Ben presto, la gente prese a visitare la tomba di Arcangela quasi in forma di pellegrinaggio: perciò, dopo una missione popolare predicata da don Domenico Cananzi, il suo corpo fu traslato, con il permesso del Vescovo di Tropea, nella chiesa di San Francesco di Paola a Longobardi. Sul luogo del martirio, il 22 settembre del 1973, fu eretta una monumentale croce, benedetta dall’Arcivescovo di Cosenza, monsignor Enea Selis.

Il parroco di San Francesco, don Francesco Miceli, raccolse numerose testimonianze dirette per chiedere l’apertura di un eventuale processo canonico. Una serie di concause, ossia la sua avanzata età, l’annessione di Longobardi alla diocesi di Cosenza e, infine, la sua morte, fecero sì che il suo lavoro rimanesse custodito nell’archivio parrocchiale. Non fu, tuttavia, un’opera inutile: dopo aver accolto le istanze dei fedeli di Longobardi, monsignor Salvatore Nunnari, Arcivescovo di Cosenza-Bisignano, costituì la Postulazione per la causa di beatificazione e canonizzazione di Arcangela. Dopo che la Conferenza Episcopale Calabra ebbe espresso il suo parere favorevole il 7 febbraio 2007, giunse il nulla osta da parte della Santa Sede il 23 maggio dello stesso anno. L’inchiesta diocesana sul martirio della Serva di Dio Arcangela Filippelli venne quindi avviata il 1° ottobre 2007 e conclusa il 29 maggio 2013.

Autore: Emilia Flocchini e don Enzo Gabrieli, Postulatore

Note: Per informazioni: Don Enzo Gabrieli (Postulatore) Parrocchia di San Nicola Piazza Duomo 87040 Mendicino (CS)

FONTEhttp://www.santiebeati.it/dettaglio/93909

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SANTA MARIA GORETTI
BEATA ALEXANDRINA MARIA DA COSTA
ALBERTINA BERKENBROCK (12 ANNI)
Beata Laura Vicuña (12 ANNI)
PIERINA MOROSINI
BEATA LIDUINA
BEATA ANTONIA MESINA (16 ANNI )
Marisa Porcellana (14 ANNI)
Angelina Zampieri (20 anni)
MARIAH MANISHA (18 anni)
Yara Gambirasio (13 anni)
VIRGINIA NOTARI (18 ANNI)

San Matteo Correa Magallanes

San Matteo Correa Magallanes

Sacerdote e martire (1866-1927) 6 febbraio

Questo sacerdote messicano fu ucciso per non aver voluto violare il segreto della confessione fatta da alcuni prigionieri. Il generale che lo aveva indotto a confessare solo per sapere i segreti dei carcerati lo fece fucilare.

Mateo Correa Magallanes nasce nel 1866 in Messico, in una famiglia povera, così povera che non potrebbe mai permettersi il lusso di farlo studiare. E lui, che invece vuole diventare prete, va a lavorare nella portineria del seminario per guadagnare quanto basta per andare a scuola.

Per capacità, merito e buona condotta vince poi una borsa di studio, che gli permette di continuare a studiare senza dover anche lavorare. Viene ordinato prete a 26 anni e subito lo aspetta un intenso lavoro pastorale in varie parrocchie.

La persecuzione contro i cattolici lo sorprende mentre è a Valparaíso, una parrocchia vivace in cui l’Azione Cattolica sta diffondendo e raccogliendo adesioni al “Manifesto” con cui si chiede al Governo l’abrogazione delle leggi anticlericali in vigore.

La situazione deve essere troppo effervescente e l’iniziativa cattolica deve raccogliere troppi consensi, se a livello centrale si decide di mandare a Valparaíso il generale Eulogio Ortíz, non a caso soprannominato “El Cruel” (= il Crudele). Come a dire:a mali estremi, estremi rimedi.

In pochi giorni Ortiz riesce a dimostrare quanto gli sia appropriato quel soprannome e dispiega tutta la sua azione repressiva, soprattutto nei confronti dei giovani cattolici. Riesce anche ad arrestare e a mandare sotto processo Padre Matteo e il suo collaboratore, insieme ad alcuni giovani, ritenuti i rappresentanti delle associazioni cattoliche locali, ma il giudice li assolve “perché il fatto non sussiste”.

Quelli vengono accolti in parrocchia come trionfatori, mentre il generale se lo lega al dito, come un affronto personale di cui prima o poi vuole vendicarsi. Il suo livore è soprattutto nei confronti di Padre Matteo, che sta utilizzando il periodo a lui favorevole per rianimare e rafforzare i suoi cristiani, in attesa della nuova ondata di persecuzioni che, lui sente, non tarderà di certo.

Il 30 gennaio 1927, mentre sta andando a portare gli ultimi sacramenti ad una malata accompagnato dal figlio di questa, incrocia una pattuglia di militari: riconosciuto da uno di loro e immediatamente arrestato, ha appena il tempo di consegnare ad una persona fidata la sua teca con l’ostia consacrata.

Per strada gli riesce perfino di familiarizzare con i soldati e la serata finisce con la recita del rosario, guidato da lui ed al quale essi rispondono in coro. La musica, però, cambia il giorno dopo, quando è davanti al generale Ortíz, al quale non sembra vero di aver messo le mani su colui che è la sua spina nel fianco: “El Cruel” non può dimenticare lo smacco subito per colpa di quel prete, che in parrocchia è venerato come un santo e di cui la gente si fida ciecamente.

Ormai gli è chiaro che è per colpa di Padre Matteo se a Valparaíso la politica anticlericale del governo non riesce ad attecchire e se le associazioni cattoliche stanno così spavaldamente alzando la testa: tutti stanno prendendo esempio da quel prete, dalla fede salda e dal coraggio inossidabile, coerente e limpido, che riesce a catalizzare tutta la parrocchia e ad infiammare i cuori.

Con la perfidia che gli è propria e che si addice alla sua fama di “cruel”, ordina a Padre Matteo  di andare a confessare in cella i “banditiche il giorno dopo saranno fucilati e di venirgli poi a riferire quanto da essi saputo in confessione. I “banditi” altro non sono che “cristeros”: messicani, cioè, che anche attraverso la lotta armata rivendicano il diritto di professare liberamente la loro fede, opponendosi all’azione anticlericale del governo, e per questo condannati a morte.

“El Cruel” spera così di ottenere informazioni utili per arrestare altre persone e smantellare la rivolta dei cattolici, ma forse ha sottovalutato il coraggio di Padre Matteo. Che, sacerdote fino in fondo, va subito a confessare e a preparare alla morte quei poveri condannati, ma al ritorno, si rifiuta ovviamente di riferire quanto ascoltato in confessione.

La furia del generale Ortíz, che si sente beffato, esplode violenta. Minacciato di morte, Padre Matteo risponde con fermezza: “Lei può anche uccidermi, ma il mio generale non sa che un prete è obbligato a conservare il segreto della confessione”.  E così il mattino del giorno dopo, 6 febbraio, lo fa giustiziare con la propria pistola d’ordinanza nei pressi del cimitero, regalando alla Chiesa un nuovo martire della Confessione, beatificato da Giovanni Paolo II nel 1992 e canonizzato dallo stesso papa il 21 maggio 2000.

FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/90117

 

Servo di Dio Giuseppe Ottone

Servo di Dio Giuseppe Ottone

Adolescente (1928 – 1941) 4 febbraio

GIUSEPPE ORTONENato in seguito ad una relazione extraconiugale venne accolto appena nato nel Brefotrofio di Benevento per poi essere adottato a otto mesi. Fece voto di donare la propria vita in cambio di quella della madre malata. Da quel momento cadde a terra e non si riprese mai più.

Nacque il 18 marzo 1928 a Castelpagano, in provincia di Benevento, da genitori ignoti. La giovane levatrice del paese provvide a registrarlo all’Ufficio competente il 23 dello stesso mese, con il nome di Giuseppe e il cognome Italico, dopo che, il giorno precedente, era stato battezzato nella Chiesa del SS. Salvatore di Castelpagano. Il Comune provvide a farlo accogliere nel Brefotrofio Provinciale di Benevento, con i pochi oggetti che gli erano stati trovati addosso: una fascia di tela, un pannolino e una cuffia.

In seguito si seppe che Giuseppe era il frutto della relazione extraconiugale di una donna di Castelpagano, il cui marito era emigrato in Argentina. Dopo aver appreso della duplice infedeltà della moglie, che dopo il bambino ebbe anche una figlia, non volle tornare; la coppia aveva già un altro bambino legittimo. La donna, di cui omettiamo il nome, voleva abortire, ma un’amica di famiglia la convinse a portare avanti la gravidanza; la stessa amica fece da madrina di Battesimo al neonato.

Giuseppe non restò per molto al Brefotrofio di Benevento, perché il 22 novembre dello stesso anno 1928 venne affidato in allevamento esterno ai coniugi Domenico Ottone e Maria Capria, di Benevento. Non avevano figli e volevano adempiere un voto pronunciato dalla signora, quindi chiesero un bambino da allevare con amore e da poter crescere come un figlio loro.

I coniugi decisero di trasferirsi a Napoli nel timore che in seguito la madre naturale reclamasse il piccolo. Lei, dopo aver appreso il fatto, si legò amichevolmente con i genitori adottivi e seguì a distanza la formazione del figlio: commossa e contenta, si definiva «indegna madre».

Casa di Giuseppe Ottone

La religiosità della mamma adottiva, non ostacolata dal marito, divenne per Giuseppe un sicuro modello, al quale egli affettuosamente s’ispirava per trovare un orientamento della propria vita. Qualche tempo dopo la famiglia Ottone si trasferì definitivamente a Torre Annunziata, terra di mare, posta lungo la costa che si delinea sotto le pendici del Vesuvio.

Peppino, come fu presto soprannominato, crebbe sincero, deciso, ricco di qualità e di virtù. Andava volentieri a scuola senza mostrarsi mai scontento ed era disciplinato e armonioso con tutti. Prima di entrare a scuola passava in chiesa, senza curarsi delle prese in giro da parte dei compagni, per una breve visita a Gesù nel Tabernacolo.

Dal 1934 fino al 1939 frequentò la scuola elementare, poi venne ammesso all’Istituto Tecnico Commerciale “Ernesto Cesàro”. A scuola era il primo della classe e fu sempre promosso. La madre adottiva faceva la smacchiatrice, il padre invece il cameriere; lei di indole buona, pia, paziente, lui invece collerico, irascibile, spesso beveva vino più del necessario. Giuseppe cercò quindi di aiutare la mamma a sopportare i suoi gesti violenti. Di nascosto prese ad aiutare alcuni poveri con frequenti elemosine, utilizzando i suoi piccoli risparmi e anche dando le sue merende.

Con grandissimo fervore, a sette anni, ricevette la Prima Comunione il 26 maggio 1935, nell’Arciconfraternita del SS. Rosario. Da allora si accostò all’Eucaristia con frequenza e con la passione per una vita santa.

Osservò assiduamente le pie pratiche dei primi nove venerdì al Sacro Cuore e dei 15 sabati alla Madonna del Rosario di Pompei. Ogni primo venerdì del mese era presente in chiesa già alle 5.30, incurante del freddo, sempre sorridente, tra alcuni operai dello Spolettificio militare, una grande occasione di lavoro per il territorio di Torre Annunziata. Si recava spesso in bicicletta alla vicina Pompei, per pregare davanti alla Vergine del Rosario, di cui era molto devoto, nel Santuario fondato dal beato Bartolo Longo.

Pur essendo serio, studioso, religioso, ubbidiente, era soprattutto un ragazzo con tutti i desideri e gli svaghi tipici della sua età. Ad esempio, gli piacevano i giornalini di storie avventurose: ne leggeva a centinaia dopo lo studio, scambiandoli con altri ragazzi, con cui giocava nei momenti liberi. Il suo sogno più grande era quello di fare, da grande, l’Ufficiale di Marina, come del resto lo era e lo è per tanti ragazzi torresi, che da secoli intraprendono la carriera o i mestieri marinari.

Dopo circa undici anni di affidamento esterno alla famiglia Ottone, il 26 giugno 1940 il giudice tutelare della Pretura di Torre Annunziata concesse l’affiliazione di Giuseppe, che così cambiò il cognome da Italico in Ottone. In piena Guerra Mondiale, con l’alternarsi delle vicende politiche, che creavano incertezza e miseria, il padre si guadagnò il soprannome di “Mimì il fascista”. Oltre a quella tribolazione, la mamma Maria Capria dovette ricoverarsi a Napoli per subire una duplice operazione chirurgica molto delicata, specie per quei tempi. Giuseppe rimase molto scosso ed angosciato, per l’affetto davvero filiale che nutriva per lei.

Il 3 febbraio 1941, giorno dell’operazione in clinica, mentre percorreva corso Vittorio Emanuele II con un gruppo di amici, trovò a terra un’immagine della Madonna di Pompei. La raccolse e la baciò devotamente, esclamando: «Madonna mia, se deve morire mamma, fai morire me». Qualche minuto dopo, divenne pallido e cadde svenuto a terra. Gli amici e un vigile urbano lo soccorsero: fu trasportato al vicino Ospedale Civico e venne accolto alle 15.30 al Pronto Soccorso «in stato di incoscienza con polso e respiri frequentissimi…».

La madre ritornò in tutta fretta dall’ospedale napoletano, senza subire la duplice operazione: per il dolore, i capelli le erano diventati completamente bianchi. Lo assistette per tutta la notte, recitando il rosario, mentre si disponeva ad accettare la volontà di Dio per sé e per quel suo figlio tanto amato.

Peppino non riprese conoscenza: morì alle quattro del mattino del 4 febbraio 1941, a quasi 13 anni. Il suo sacrificio, offerto per la mamma tanto amata, fu accettato dal Signore: la donna fu guarita istantaneamente e continuò a vivere in buona salute fino al 1983, quando morì a 88 anni. Il marito, invece, morì nel 1975.

La stima che Giuseppe godette in vita presso i coetanei, i genitori, il parroco e i suoi maestri è andata sempre più aumentando con gli anni, tanto da mutarsi in fama di santità. Il processo informativo diocesano per l’accertamento dell’eroicità delle sue virtù iniziò quindi a Napoli il 6 aprile 1962 e si concluse il 4 marzo 1975.

I suoi resti mortali, inizialmente inumati nel cimitero della città, furono traslati il 25 ottobre 1964 in una cappella laterale della Parrocchia Santuario dello Spirito Santo, detta comunemente del Carmine. Alla traslazione partecipò un gran numero di fedeli e di autorità, sia da Torre Annunziata, sia da Castelpagano.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/91632

 

Santa Marcella di Roma

Santa Marcella di Roma

vedova (330-410) 31 gennaio

Rimane orfana del padre. Sposatasi da giovane dopo sette mesi rimane vedova e lo spirito ascetico la conquista e rifiuta le seconde nozze. Il suo palazzo diventa un luogo dove ove confluiscono altre nobili romane, vergini e vedove, preti e monaci per intrattenersi in conversazioni sulla Sacra Scrittura.

Alcune lettere di s. Girolamo, in particolar modo l’Ep. 127, alla vergine Principia, discepola di Marcella, costituiscono le fonti principali per la vita della santa.

Appartenne ad una delle piú illustri famiglie romane: quella dei Marcelli (secondo altri dei Claudi). Nacque verso il 330, ma non ebbe la giovinezza felice, essendo ben presto rimasta orfana del padre. Contratto matrimonio in giovane età fu nuovamente colpita da un gravissimo lutto per la morte del marito avvenuta sette mesi dopo la celebrazione delle nozze. Questi luttuosi avvenimenti fecero maggiormente riflettere Marcella sulla caducità delle cose terrene tanto piú che nella fanciullezza era rimasta assai affascinata dalle mirabili attività del grande anacoreta Antonio, narrate nella sua casa dal vescovo Atanasio (340-343).

Lo spirito ascetico propugnato dal monachesimo, consistente nell’abbandono di ogni bene mondano, andò sempre piú conquistando l’animo della giovane vedova. Quando perciò le furono offerte vantaggiose seconde nozze col console Cereale (358), nonostante le premurose pressioni della madre Albina, oppose al ventilato matrimonio un netto rifiuto, motivato dal desiderio di dedicarsi interamente ad una vita ritirata facendo professione di perfetta castità.

Cosí Marcella, secondo s. Girolamo, fu la prima matrona romana che sviluppò fra le famiglie nobili i principi del monachesimo. Il suo maestoso palazzo dell’Aventino andò trasformandosi in un asceterio ove confluirono altre nobili romane come Sofronia, Asella, Principia, Marcellina, Lea; la stessa madre Albina si associò a questa nuova forma d i vita.

Piú che di vita monastica in senso stretto può parlarsi di gruppi ascetici senza precise regole, ma ispirati ai principi di austerità e di disprezzo del mondo, propri della scuola egiziana, assai conosciuti attraverso la vita di s. Antonio e le frequenti visite di monaci orientali. Lo stesso vescovo di Alessandria, Pietro, fu nel 373 ospite della casa Marcella e narrò la vita e le regole dei monaci egiziani.

Porse proprio dopo il 373 la casa di Marcella divenne un vero centro di propaganda monastica. Riservatezza, penitenza, digiuno, preghiera, studio, vesti dimesse, esclusione di vane conversazioni furono il quadro della vita quotidiana quale risulta dalle lettere di s. Girolamo, divenuto dal 382 il direttore spirituale del gruppo ascetico dell’Aventino. Nella domus di Marcella entravano vergini e vedove, preti e monaci per intrattenersi in conversazioni basate specialmente sulla S. Scrittura. Il sacro testo, specie il Salterio, non fu studiato solo superficialmente: per meglio comprenderne il significato Marcella imparò l’ebraico e sottopose al dotto Girolamo molte questioni esegetiche, come ne fanno fede varie lettere a lei dirette. Fra Girolamo e Marcella si strinse una profonda spirituale amicizia, continuata anche dopo la partenza del monaco per la Palestina.

Tuttavia questa donna fu di spirito piú moderato tanto da non condividere pienamente le violente diatribe e le acerbe polemiche del dotto esegeta. Simile moderazione dimostrò nelle pratiche ascetiche; pur amando e professando la povertà non alienò in favore della Chiesa e dei poveri tutti i suoi beni patrimoniali, anche per non recare dispiacere alla madre. Né volle trasferirsi a Betlemme, nonostante una pressante lettera delle amiche Paola ed Eustochio. Preferí invece continuare la diffusione della vita ascetica e penitente in Roma; per molti anni infatti la sua domus dell’Aventino rimase un cenacolo ascetico specie fra le vergini e le vedove della nobiltà.

Verso la fine del IV sec. si trasferí in un luogo piú isolato nelle vicinanze di Roma, forse un suo ager suburbanus, nel quale visse con la vergine Principia come madre e figlia. Rientrò in Roma nel 410 sotto il timore dell’invasione gota; in tale occasione Marcella subí percosse e maltrattamenti e a stento riuscí a salvare Principia dalle mani dei barbari, rifugiandosi nella basilica di S. Paolo.

Morí nello stesso anno e la sua festa è celebrata il 31 gennaio.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/39200

 

 

Beata Giuseppa Maria di Sant’Agnese

Beata Giuseppa Maria di Sant’Agnese

(Giuseppa Teresa Albinàna)

Vergine (1625 – 1696) 21 gennaio

beata-giuseppa-maria-di-santagnese3Giovanissima, rimase orfana di padre. Dopo aver superato varie difficoltà, entrò come suora conversa nel monastero delle agostiniane del suo paese. Semplice ed umile, fu una grande anima contemplativa. Analfabeta ma dotata di conoscenze teologiche e il dono del consiglio.  Le sue estasi sorprendevano quanti la conoscevano.

Giuseppa Teresa Albinàna nacque il 9 gennaio 1625 a Benigànim, nei pressi di Valenza, dai poveri genitori Luigi e Vincenza Gomar. Rimasta orfana di padre ancora in tenera età, fu accolta dallo zio Bartolomeo Tudela, dove crebbe devota alla Madonna e dedita alla recita del Santo Rosario.

Rimasta poi orfana anche di madre, all’età di diciotto anni chiese di essere ammessa nel locale monastero delle Eremitane Scalze di Sant’Agostino. Allo zio, che ripetutamente tentò di maritarla, si era sempre opposta affermando: “Non sia mai che io debba innamorarmi di qualche uomo. Io ho già un ottimo sposo in Gesù che è la mia gioia”.

Un giorno, salita nel granaio per riempire un sacco di grano, un servo tentò di abbracciarla e baciarla, ma Giuseppa prima di fuggire, si lasciò scappare un ceffone urlandogli: “Io sono vergine!”.Giuseppa fu dunque accolta tra le agostiniane nel 1643 e dopo otto mesi ricevette il velo di conversa. La maestra di noviziato, per assicurarsi della sua vocazione, un giorno le comunicò che era decisa a rimandarla nel mondo, ma la ragazza che preferiva lo stato claustrale le rispose di essere disposta piuttosto a morire.

beata-giuseppa-maria-di-santagnese2Fu allora ammessa alla professione religiosa ed assunse il nome di Suor Maria Giuseppa di Sant’Agnese. Le fu poi affidato il compito di dispensiera e nei momenti liberi fabbricava corone del Rosario o aiutava le consorelle. Al suo confessore confidò: “Preferisco molto di più pulire, scopare e raccogliere le immondezze nella casa di Dio, che essere regina di Spagna”. Per tutta la vita volle riservarsi il macabro compito di vestire e seppellire le consorelle defunte.

Dopo una grave malattia suor Giuseppa udì una voce interna che la invitò a scegliere se restare per tre anni paralitica o muta e per non essere di peso alla comunità preferì la seconda opzione. L’infermità la aiutò nel restare più unita a Dio ed anche lavorando non cessò mai la sua orazione mentale. Quando guarì prese comunque ad osservare il silenzio non solo nelle ore stabilite, ma anche nei momenti di riposo. Per la vita santa che conduceva sotto ogni aspetto, l’arcivescovo di Valenza monsignor Martino Lopez Antiveros, durante una visita al monastero nel 1663 volle che Giuseppa fosse ammessa tra le coriste.

Fu sempre puntuale al coro e benché fosse balbuziente, tenendo dinanzi allo sguardo una devota immagine dell’“Ecce homo”, recitava speditamente l’ufficio divino. Si alzava alle tre del mattino, andava in coro e vi restava fino alle undici. Pregava per il papa, per ogni necessità della Chiesa ed in particolare per le anime del Purgatorio, che definiva “sue figlioline”. Supplicava di pregare per loro quanti si avvicinavano alla sua grata, raccoglieva elemosine per la celebrazione di Messe, si flagellava a sangue, non mangiava mai carne, in avvento e quaresima non si nutriva che di pane ed acqua e non beveva vino né cioccolata.

A cotante rinunce e sofferenze Giuseppa era spinta dalla continua contemplazione della Passione di Gesù. Durante le tre processioni penitenziali dell’anno, la beata procedeva ultima della fila a piedi scalzi, portando sulle spalle una croce, sul capo una corona di spine ed una corda al collo. Durante i pasti sovente era assorta e con il volto infiammato: interrogata sul perché non mangiasse, rispondeva che tutto il cibo le si convertiva in chiodi, battiture e corone di spine.

beata-giuseppa-maria-di-santagnese1Il diavolo la molestò più volte, attribuendole titoli volgari e tentandola ad azioni disoneste, ma ella se ne liberò sempre segnandosi ed esclamando: “Gesù, figlio di David, abbi pietà di me”. Era sufficiente parlarle del mistero della Santissima Trinità perché la beata andasse in estasi e nelle situazioni più impegnative soleva esclamare: “La Santissima Trinità ci assista”.

Suor Giuseppa si riteneva una grande peccatrice e temeva di sprofondare nell’inferno. Ogni giorno riceveva la Comunione su licenza del suo confessore. Il tempo libero lo trascorreva in adorazione dinnanzi al tabernacolo e salutava qualsiasi visitatore sempre così: “Sia lodato il Santissimo Sacramento”. Quando fra le consorelle sorgeva qualche discordia, sapeva indurle alla riconciliazione con un tatto tutto speciale. Madre Giuseppa accorreva gioiosamente e con prontezza per soccorrere i poveri nelle loro necessita, donando loro gli abiti smessi dalle consorelle. Ma anche per se stessa preferiva le vesti rappezzate a quelle nuove.

La fama della sua santità si era ormai propagata ovunque e gli abitanti di Valenza, in situazioni di pericolo, erano soliti esclamare: “Madre Agnese assistetemi”. Leggeva il futuro come in un libro e penetrava nei segreti dei cuori: per questo molti vescovi, religiosi e personalità importanti andavano a consultarla ed a raccomandarsi alle sue preghiere. La madre del re Carlo II di Spagna sottoponeva al suo giudizio addirittura i principali affari della monarchia. Più volte gli arcivescovi valenziani fecero esaminare la beata, ma tutti gli inquisitori ne riconobbero la singolare virtù, nonostante da certe religiose fosse considerata una pazzerella.

Un’ulteriore sua peculiarità fu la virtù dell’obbedienza, che esercitò sempre con devozione, eseguendo prontamente anche i comandi che riceveva mentalmente da chiunque, avvertita dall’Angelo Custode.

beata-giuseppa-maria-di-santagneseQuando Madre Giuseppa fu avvertita in modo soprannaturale dell’ormai prossima sua morte, non riuscì a contenere il suo giubilo.

Negli ultimi mesi di vita fu colpita dall’epilessia, dall’asma e dall’ernia che aveva contratto in noviziato compiendo sforzi eccessivi. Sollecitò ella stessa il Viatico: “Sorelle mie, portatemi subito il mio sposo perché parto”. Morì infatti il 21 gennaio 1696, non prima di aver pronunciate ininterrottamente parecchie invocazioni a Gesù e a Maria.

Il corpo della defunta si conservò flessibile e da esso si sprigionò inoltre in tutto il monastero una soave fragranza. La folla accorse numerosa per poterla venerare ed ottenerne qualche reliquia.

Il pontefice Leone XIII la beatificò il 21 febbraio 1888 ed il Martyrologium Romanum ancor oggi la commemora nell’anniversario della nascita al Cielo. I suoi resti mortali, venerati nella cappella del monastero di Benigànim, furono trafugati durante la guerra civile spagnola negli anni Trenta del secolo scorso e se ne perse irrimediabilmente traccia.

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/90163

 

SAN SEBASTIANO

SAN SEBASTIANO

Martire (263 – 304) 20 gennaio

san-sebastianoBen tre Comuni in Italia portano il suo nome, e tanti altri lo venerano come santo patrono. San Sebastiano fu sepolto nelle catacombe che ne hanno preso il nome. Cavaliere valsosi dell’amicizia con l’imperatore per recare soccorso ai cristiani. Venne legato al tronco di un albero, in aperta campagna, e saettato da alcuni commilitoni.

Alcune fonti lo vedono nato in Francia allora Gallia, poiché il padre era francese, mentre S. Ambrogio afferma che fosse milanese come la madre. Intraprese la carriera militare al solo scopo di poter essere di aiuto ai cristiani che soffrivano le persecuzioni. Mantenne quindi segreta la sua fede fin quando ritenne fosse necessario. Fu proprio per questa sua efficace ed instancabile opera che fu proclamato da papa s. Caio “difensore della Chiesa”.

Una delle sue azioni apostoliche si riferisce ai fratelli gemelli Marco e Marcelliano, che erano stati imprigionati a Roma, e che erano visitati ogni giorno da Sebastiano. Sottomessi a frustate, anche se erano membri di una famiglia di senatori, sono stati condannati alla decapitazione, avendo i suoi famigliari ottenuto dall’amministratore romano chiamato Cromazio un mese per far cambiare loro opinione.

Tenuti incatenati nella casa del capo della cancelleria imperiale, Nicostrato, i fratelli furono sottoposti a tentativi di persuasione da parte dei loro genitori, delle loro spose e figli ancora piccoli, oltre che da amici, ma quando erano a rischio di cedere, le parole di San Sebastiano riaccendevano il loro spirito, colpendo tutti quelli che nel buio della cella lo vedevano circondato di luce.

Tra questi, Zoe, la moglie di Nicostrato, che riconoscendo in Sebastiano un uomo di Dio, si buttò ai suoi piedi e gesticolando gli fece capire che da 6 anni una malattia l’aveva resa muta. Sebastiano dopo aver fatto il segno della croce sulla bocca di Zoe ed aver chiesto ad alta voce a Nostro Signore Gesù che la guarisse riebbe la parola. 

san-sebastiano1Davanti alla guarigione della moglie, anche Nicostrato si buttò ai suoi piedi chiedendo perdono per aver mantenuto quei due cristiani imprigionati e affermò che sarebbe stato felice di morire al posto di quei due innocenti. I due fratelli dal canto loro si rifiutarono di abbandonare la lotta mettendo in pericolo un’altra persona, rafforzandosi ancora di più nella fede. Nelle ore successive si ebbero ben 68 conversioni e tutti furono battezzati da San Policarpo, richiamato da Sebastiano.

Senza conoscere i dettagli – perché era stato ingannato – il prefetto di Roma, Cromazio, che aveva concesso ai gemelli il periodo di attesa perché rinunciassero alla loro fede, chiamò il padre di entrambi, chiedendo in cambio della vita di offrire incenso agli dei. Questi però si dichiararono cristiani e parlarono del miracolo di guarigione avvenuto.

Essendo anche Cromazio afflitto da una malattia offrì del denaro in cambio della sua guarigione. Gli venne così spiegato che essa la si poteva acquistare solo con la fede e per ottenerla sia lui, sia il figlio decisero di farsi cristiani permettendo che venissero rotte più di duecento statue di idoli, gli istrumenti che erano utilizzati per l’astrologia e altre pratiche divinatorie. Seguirono il loro esempio più di 1.400 persone, compresi gli schiavi ai quali Cromazio concesse la libertà dicendo che era stata data perché avevano accettato Dio come padre e non potevano più essere schiavi degli uomini.

Diocleziano che teneva in grande considerazione Sebastiano gli dette l’incarico di capitano della prima compagnia della Guardia Pretoriana a Roma. A quel punto però Sebastiano non se la sentì più di tenere nascosta la sua fede e l’imperatore sentendosi tradito lo legò al tronco di un albero e ordinò ai suoi soldati di tempestarlo di frecce.

san-sebastianoConvinti che fosse morto se ne andarono abbandonando il corpo. La vedeva di San Castulo però, nel desiderio di seppellirlo dignitosamente si accorse che era ancora vivo e miracolosamente, sotto le sue cure, guarì.

Nonostante il consiglio degli amici di fuggire da Roma, egli che cercava il martirio, decise di proclamare nuovamente la sua fede davanti a Diocleziano e al suo associato Massimiano, che si stavano recando per le funzioni al tempio eretto da Elagabolo, in onore del Sole Invitto, poi dedicato ad Ercole. Increduli alla vista del santo, si sentirono rimproverare per l’accanimento contro i cristiani, i quali non solo non erano nemici dello stato, ma pregavano per esso.

Il crudele imperatore, però, ostinato nei suoi errori, ordinò che venisse flagellato a morte nell’ippodromo del Palatin e il corpo fu poi gettato nella Cloaca Massima, affinché i cristiani non potessero più recuperarlo. L’abbandono dei corpi dei martiri senza sepoltura, era inteso dai pagani come un castigo supremo, credendo così di poter trionfare su Dio e privare loro della possibilità di una resurrezione.

La tradizione dice che il martire apparve in sogno alla matrona Lucina, indicandole il luogo dov’era approdato il cadavere e ordinandole di seppellirlo nel cimitero “ad Catacumbas” della Via Appia. Nel luogo della sua sepoltura è stata costruita una delle sette principali Chiese di Roma, la Basilica di San Sebastiano.

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Reliquia del capo di San Sebastiano

Le sue reliquie, sistemate in una cripta sotto la basilica, furono divise durante il pontificato di papa Eugenio II (824-827) il quale ne mandò una parte alla chiesa di S. Medardo di Soissons il 13 ottobre 826; mentre il suo successore Gregorio IV (827-844) fece traslare il resto del corpo nell’oratorio di San Gregorio sul colle Vaticano e inserendo il capo in un prezioso reliquiario, che papa Leone IV (847-855) trasferì poi nella Basilica dei Santi Quattro Coronati, dove tuttora è venerato.

Gli altri resti di s. Sebastiano rimasero nella Basilica Vaticana fino al 1218, quando papa Onorio III concesse ai monaci cistercensi, custodi della Basilica di S. Sebastiano, il ritorno delle reliquie risistemate nell’antica cripta; nel XVII secolo l’urna venne posta in una cappella della nuova chiesa, sotto la mensa dell’altare, dove si trovano tuttora.

Considerato il terzo patrono di Roma, dopo i due apostoli Pietro e Paolo. Patrono degli arcieri e archibugieri, tappezzieri, fabbricanti di aghi e di quanti altri abbiano a che fare con oggetti a punta simili alle frecce. Patrono di Pest a Budapest e dei Giovani dell’Azione Cattolica, è invocato nelle epidemie, specie di peste, così diffusa in Europa nei secoli addietro.

Insieme a s. Giovanni Battista, è molto raffigurato nei gruppi di santi che circondano il trono della Madonna o che sono posti ai lati della Vergine.

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Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/25800

 

San Jenaro (Gennaro) Sanchez Delgadillo

San Jenaro (Gennaro) Sanchez Delgadillo

Sacerdote (1876-1927) 17 gennaio

san-jenaro-gennaro-sanchez-delgadillo1Nacque a Zapopan, Jalisco (Arcidiocesi di Guadalajara) il 19 settembre 1876. In diverse occasioni, disse: “In questa persecuzione moriranno tanti sacerdoti e forse io sarò uno dei primi”. E così fu.

Nacque a Zapopan, Jalisco (Arcidiocesi di Guadalajara) il 19 settembre 1876. I suoi genitori erano Christopher Sanchez e Julia Delgadillo, cristiani umili e attenti, che godevano di grande stima da parte di chi li conosceva.

Il suo parroco elogiava la sua obbedienza. I fedeli ammiravano la sua rettitudine, il suo fervore, la sua eloquenza nella predicazione, ed accettavano con piacere l’imagine del padre Jenaro quando chiedeva una buona preparazione per poter ricevere i sacramenti.

Prima della persecuzione da parte del governo di Calles, in particolare contro i preti, Padre Jenaro aveva percepito nel profondo del suo cuore che non sarebbe stato facile per lui portare avanti il suo ministero e pianse quando comprendendo che le sue sensazioni erano reali, venne dato l’ordine di chiudere le chiese.

san-jenaro-gennaro-sanchez-delgadilloFu imprigionato per aver letto nella chiesa parrocchiale di Zacoalco a Jalisco, la lettera inviatagli dal suo vescovo, monsignor Francisco Orozco e Jiménez. Si trattava di una lettera di protesta relativamente alla persecuzione contro la Chiesa ed i suoi ministri.

Con la sospensione del culto pubblico P. Jenaro dovette esercitare il suo ministero sacerdotale in gran segreto. In diverse occasioni, disse ad alcuni di loro: “In questa persecuzione moriranno tanti sacerdoti e forse io sarò uno dei primi”. E così fu.

Il 17 gennaio 1927 Padre Jenaro si allontanò con un gruppo di vicini di casa. Tornando al ranch, il padre ed i suoi compagni si resero conto che i soldati li stavano cercando. Non riuscirono a sfuggire all’arresto, ma mentre i suoi compagni vennero rilasciati, Padre Jenaro fu portato a Tecolotlán.

Il capo dei soldati ordinò che gli si mettesse una corda intorno al collo. Padre Jenaro posto di fronte al plotone, con eroica serenità proferì le seguenti parole: “Paesani, mi impiccheranno; Io li perdono, che anche mio Padre Iddio li perdoni e che sempre viva Cristo Re!“.

I carnefici tirarono la corda cosi forte che la testa del martire battè violentemente su un ramo dell’albero. Dopo poco morì in quella stessa notte del 17 gennaio 1927. L’astio dei soldati continuò e tornati all’alba fecero scendere il cadavere, gli spararono sulla spalla sinistra e una pugnalata con la baionetta quasi attraversò il corpo ormai inerte del testimone di Cristo.

san-jenaro-gennaro-sanchez-delgadillo2Verso le undici arrivò la madre del sacerdote Dona Julia che abbracciato il corpo di suo figlio, se lo mise sulle ginocchia e pianse come una Madonna fino all’ultima lacrima.

La notizia si sparse per tutta la zona e in massa raggiunsero Tecolotlán. Vedendo tanta gente le autorità temettero una reazione violenta della folla, così ne ordinarono la sepoltura immediata.

La sua memoria e la testimonianza del suo martirio è stata registrata nella memoria della Chiesa del Messico e dei fedeli che ne invocano l’intercessione. Fu canonizzato da Giovanni Paolo II nel Giubileo del 2000, il 21 maggio.

Fonti: https://www.aciprensa.com/santos/santo.php?id=649; http://www.santiebeati.it/dettaglio/90133

 

Beato Zacarias Cuesta Campo

BEATO ZACARIAS CUESTA CAMPO

Giovane laico, martire (1916 –1937) 15 gennaio

beato-zacarias-cuesta-campo2Zoppo dall’età di cinque anni venne affidato ad un orfanotrofio dove imparò l’arte del calzolaio. Condivise con il Sacerdote che lo gestiva il martirio durante la guerra civile spagnola.

Zacarías Cuesta Campo nacque il 10 luglio 1916 a Villasidro presso Burgos, in Spagna. A cinque anni, a causa di un’iniezione sbagliata, rimase zoppo. La gamba gli faceva molto male specie in inverno, ma lui non perse il suo buon carattere, che lo spingeva ad esempio a prendere le difese delle bambine, quando i maschi le prendevano in giro. Inoltre, insieme ai fratelli, andava a recitare il Rosario.

I suoi genitori erano molto amici di un sacerdote, don Valentín Palencia Marquina, direttore a Burgos del Patronato di San Giuseppe per bambini e ragazzi orfani o abbandonati. Lui li invitò ad affidargli il bambino perché imparasse il mestiere di sarto e di calzolaio: l’istituto, infatti, aveva anche un laboratorio artigianale.

beato-zacarias-cuesta-campoSecondo il suo metodo educativo, aveva grande importanza anche l’insegnamento della musica, così Zacarías imparò anche a suonare. Aveva anche un’ottima grafia, con la quale copiava nei suoi quaderni i testi di poesie o di canti religiosi.

Nell’estate del 1936 era già pronto per avviarsi alla professione di calzolaio e gli era stato suggerito dal suo istruttore di non andare in vacanza, ma don Valentín gli chiese di accompagnarlo per badare ai ragazzi che partecipavano, come ogni anno, alla colonia estiva del Patronato nella località marittima di Suances, nella comunità autonoma della Cantabria. La serenità di quel momento venne interrotta il 18 luglio, con la dichiarazione della guerra civile spagnola.

Don Valentín venne in seguito denunciato al Fronte Popolare e arrestato. Sei giovani vennero chiamati a deporre, ma Zacarías e altri tre, Donato Rodríguez García, Germán García García ed Emilio Huidobro Corrales, vollero accompagnarlo più da vicino. Tutti e cinque vennero quindi uccisi il 15 gennaio 1937 sul monte Tramalón, nei pressi di Suances. Zacarías aveva 20 anni.

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Il sacerdote e i suoi quattro giovani, che qualcuno non a torto ha definito “martiri dell’amicizia”, sono stati oggetto di un processo di beatificazione. La causa, ottenuto il nulla osta dalla Santa Sede il 21 agosto 1996, è stata aperta nella diocesi di Burgos il 30 settembre 1996 e conclusa il 18 marzo 1999; l’8 novembre dello stesso anno ha ottenuto la convalida. La “positio super martyrio” è stata consegnata a Roma nel 2003.

A seguito del congresso peculiare dei consultori teologi, l’8 novembre 2013, e della sessione dei cardinali e vescovi membri della Congregazione, papa Francesco ha firmato il 30 settembre 2015 il decreto che riconosceva ufficialmente il martirio di Zacarías Cuesta Campo e dei suoi quattro compagni. La loro beatificazione congiunta è avvenuta il 23 aprile 2016, nella cattedrale di Burgos.

Autore: Emilia Flocchini

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/96842

 

Venerabile Anna de Guignè

Venerabile Anna de Guignè

Fanciulla (1911 – 1922) 14 gennaio

venerabile-anna-de-guigneEra considerata una piccola peste la primogenita e figlia di conti, con un caratterino tutto pepe, sempre pronta a cercar lite con chiunque, eppure dai 4 anni, dopo la morte del padre ebbe una conversione incredibile. 

È nata nel castello di La Cour, presso Annecy (Francia), il 25 aprile 1911; cresciuta inevitabilmente nella bambagia, dimostra quale unica nota positiva, oltre alla bellezza fisica, una sincerità disarmante, che costringe i suoi genitori a vivere sempre sulla difensiva per cercar di riparare i disastri che provoca all’etichetta ed alla loro vita di relazione.

A poco più di quattro anni resta orfana di papà, che muore eroicamente sui Vosgi, nel corso della prima guerra mondiale. Dal momento in cui il sindaco di Annecy bussa alla porta di casa per annunciare quella morte, la vita e l’atteggiamento di Anna cambiano radicalmente: con il proposito di confortare mamma e di renderle meno penosa la vedovanza, diventa improvvisamente dolce, conciliante remissiva, obbedientissima in tutto.

Cosa comune, forse, anche ad altri bambini nella fase di elaborazione del lutto, che però si risolve perlopiù in un fuoco di paglia. Sorprendentemente, in Anna diventa invece il suo nuovo stile di vita, che le costa sforzi immensi per dominare il suo carattere irruente e la sua facilità ad arrabbiarsi. Soltanto le guance un po’ arrossate tradiscono però i suoi sforzi, celati sempre dietro ad un sorriso che diventa il suo più simpatico biglietto da visita.

venerabile-anna-de-guigne2Questa metamorfosi si accompagna ad un ancor più stupefacente, data l’età, innamoramento per Gesù, nel quale cerca conforto ed al quale cerca di piacere in tutto.Mio Gesù, io voglio ciò che tu vuoi”, “Gesù, io ti amo e per piacerti prendo la decisione di obbedire sempre”; così l’amore per la mamma è diventato la strada di Anna per arrivare a Gesù. La prima Comunione è una tappa fondamentale di questa sua “conversione”: la riceve ad appena sei anni, nel 1917 e per via dell’età le occorre una dispensa vescovile.

Il gesuita, incaricato di esaminarla, è obbligato a riconoscere che neppure un cristiano adulto sarebbe preparato come quella bimba, alta appena un soldo di cacio, ma con il cuore pieno di amore per Gesù. Che, come al solito, non viene da Anna a mani vuote, rendendo ancor più salda la trasformazione che in lei è avvenuta. La bambina scopre il gusto della preghiera, che diventa un prolungato colloquio con Gesù; in particolare, anche se può sembrare sproporzionato all’età, Anna comincia a cogliere il senso della preghiera di intercessione, facendosi carico dei problemi e delle necessità degli altri.

Sono soprattutto i poveri  a trovare posto nel suo cuore e nelle sue preghiere e, tra questi, “i poveri più poveri” che lei individua in quelli che hanno perso la fede e sono lontani da Dio. Per questi offre, insieme alle preghiere, i suoi sforzi per diventare più buona e le sue piccole sofferenze, preparandosi così all’offerta più grande.

venerabile-anna-de-guigne1Nel 1921 Anna è in un’esplosione di vita e di gioia e il pediatra ad ottobre la trova in perfetta salute. Il 19 dicembre, mentre si trova a Cannes con la famiglia, è assalita da fortissimi dolori di testa e di schiena e alcuni giorni dopo le viene diagnostica una meningite. Il quadro clinico peggiora di giorno in giorno, le sofferenze diventano lancinanti ed Anna soffre in silenzio “per gli altri”. “Posso andare con gli angeli?”, chiede all’alba del 14 gennaio alla suora che l’assiste: obbedientissima sempre, soltanto quando questa le risponde di sì, Anna dolcemente chiude gli occhi per riaprirli nell’incanto di Dio.

La Chiesa si è domandata a lungo se i bambini possono praticare in grado eroico le virtù cristiane, cioè se, in definitiva, possono essere proclamati santi, arrivando solo nel 1981 ad una risposta affermativa. Soltanto allora la causa di beatificazione di Anna, avviata nel 1932, ha potuto decollare e nel 1990 Giovanni Paolo II l’ha dichiarata venerabile. Si attende ora un miracolo, che permetta di proclamare beata la piccola peste che, in dieci anni appena, è diventata una meraviglia di Dio.

Autore: Gianpiero Pettiti

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/93869

 

San Pietro di Capitolias

San Pietro di Capitolias

Sacerdote e martire (VII secolo – 715) 13 gennaio

gaspare-traversi-martirio-di-san-bartolomeoA Capitolíade nella Batanea fu accusato davanti al capo dei Saraceni di insegnare apertamente per le strade la fede di Cristo. Gli fu amputata la lingua, le mani e i piedi per poi essere appeso alla croce, coronando la sua vita con il martirio che aveva ardentemente desiderato.

L’antica ‘passio’ attribuita a s. Giovanni Damasceno, racconta che verso la fine del VII secolo, Pietro era prete a Capitolias, borgo a vari km. dal lago di Tiberiade ed a 100 km a sud di Damasco.

Era sposato ed aveva tre figli, un maschio e due figlie; a 30 anni si sentì chiamato ad una vita di solitudine e con il consenso della moglie si ritirò in un eremo, dopo aver sistemato le due figlie più grandi in un monastero posto fuori città.

Quando il figlio ebbe 12 anni, lo alloggiò in una cella vicina alla sua, per dargli lui stesso una educazione spirituale. Tralasciando ciò che la ‘passio’ racconta sui rapporti di Pietro con la famiglia, si arriva che in prossimità dei 60 anni, Pietro cadde ammalato, perdendo la speranza di morire martire, ma fece un tentativo, mandò a chiamare tramite il suo servo, i notabili musulmani per dettare in loro presenza il testamento; infatti fece pubblicamente una professione di fede cristiana, lanciando violente invettive contro l’Islam.

martirio2I contrariati musulmani, invece di ucciderlo subito, decisero di soprassedere visto il suo stato, infatti dopo un po’ arrivò la notizia della sua morte; ma non era vero e Pietro ristabilitosi prodigiosamente, si mise a predicare in pubblico sulle piazze. I musulmani di Capitolias, redassero un rapporto ad ‘Omar figlio del califfo Walid I, il quale incaricò un suo dignitario Zora, di verificare se l’imputato fosse nelle sue facoltà mentali.

Constatato il buon stato mentale, Zora fece arrestare Pietro, inviando un rapporto ad ‘Omar. Nel frattempo il califfo Walid I cadde gravemente ammalato, mentre si trovava a Damasco, riuniti i suoi figli attorno a sé, apprese da ‘Omar la storia di Pietro il prete e ordinò che fosse condotto da lui.

Il venerdì 4 gennaio 715, Pietro arrivò nella residenza del califfo; venne sottoposto alle pressioni di ‘Omar per farlo apostatare per aver salva la vita, al suo rifiuto comparve dinanzi a Walid I, poi morto il 23 febbraio 715; l’esito dell’incontro fu la sua condanna a morte e ‘Omar ebbe l’incarico dell’esecuzione, a sua volta affidata a Zora.

Il supplizio del prete Pietro doveva consistere, una volta tornato a Capitolias e adunata la popolazione, compresi i figli del condannato, nel strappargli la lingua dalla radice, il giorno dopo saranno tagliati la mano e il piede destro, patirà per un intero giorno, poi si taglierà l’altra mano e l’altro piede e verranno bruciati gli occhi con ferro rovente.

martirioPoi steso su una barella sarà portato in giro per la città, preceduto da araldi che inviteranno gli spettatori a riflettere su questo esempio. Dopo, il condannato sarà messo in croce lasciandocelo per cinque giorni, trascorsi i quali, il cadavere sarà bruciato in un forno incandescente; tutto di lui verrà ridotto in cenere compreso la croce e le vesti e buttato nello Yarmouk, proibito a chiunque di procurarsi una reliquia.

Il supplizio iniziato il giorno 10 gennaio ebbe termine il 13 gennaio 715. Prima di questa ‘passio’ georgiana, si conosceva di questo personaggio soltanto la breve notizia dei sinassari bizantini, celebrato al 4 ottobre.

In seguito la figura di s. Pietro da Capitoilas si è duplicata in un Pietro metropolita di Damasco e in un Pietro ‘cartulario’ di Maiouma anch’egli martire al tempo di musulmani e tutto ciò è diventata materia di discussione e studio degli esperti, al punto che anche il ‘Martirologio Romano’ aveva una triplice commemorazione in date diverse. La nuova edizione del 2002 del ‘Martirologio Romano’ lo celebra il 13 gennaio, giorno accertato del suo martirio.

Autore: Antonio Borrelli

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/72850

 

B. M. Anna Sureau Blondin

B. M. Anna Sureau Blondin

Fondatrice (1809 – 1890) 2 gennaio

b-m-anna-sureau-blondinFondatrice canadese della congregazione delle Suore di Sant’Anna, che si dedicano principalmente all’educazione dei bambini dei contadini. A lei da ragazza era mancata proprio una scuola cattolica in un territorio dominato da protestanti inglesi e per tale ragione nei primi anni d’infanzia rimase analfabeta.

Una beata del grande Stato nordamericano del Canada, infatti Maria Ester Sureau Blondin, nacque a Terrebonne nella provincia del Quebec il 18 aprile 1809, il padre agricoltore e la madre casalinga; primogenita di una famiglia molto cattolica di 12 figli.

Trascorse l’infanzia e l’adolescenza a casa, ricevendo un’educazione e formazione dai propri genitori, vista la mancanza di scuole cattoliche di lingua francese, in uno Stato che da 50 anni era passato sotto il dominio inglese e protestante.

A 20 anni, nel 1829 entrò a servizio delle suore della Congregazione di Notre-Dame, che si erano da poco stabilite a Terrebonne, chiedendo come salario di imparare a leggere e scrivere; nel 1832 fu ammessa nel noviziato di questa Congregazione, ma non pronunciò i voti perché rifiutata per debolezza fisica e malattia.

b-m-anna-sureau-blondin3Trascorse un periodo di cura e di riposo a casa e poi diventò collaboratrice della maestra della scuola elementare cattolica del villaggio di Vaudreuil; diventando nel 1838 direttrice della stessa scuola e negli anni seguenti un po’ alla volta, si orientò a fondare una Congregazione religiosa per l’educazione dei bambini e l’8 dicembre 1850 Maria Ester Soureau-Blondin, prendendo il nome di Maria Anna, insieme ad un gruppo di prime suore, pronunciò i voti davanti al vescovo di Montreal, Ignazio Bourget, dando inizio alla nuova Congregazione delle “Suore di S. Anna”.

Gli inizi della giovane Istituzione furono difficoltosi per la grande povertà; nel 1853 la Casa Madre fu aperta a Saint-Jacques de l’Achigan e il vescovo Bourget nominò come cappellano il giovane sacerdote Louis-Adolphe Maréchal, il quale in meno di un anno prese il comando della Congregazione e fece destituire nel 1854 la fondatrice e superiora generale suor Maria Anna, allontanandola dandole la carica di superiora di una piccola comunità a Sainte-Geneviève.

Nonostante la lontananza, molte suore, formate da suor Maria Anna, rimasero in contatto con lei; questo non fu tollerato dal cappellano, il quale ottenne dal vescovo di toglierle anche questo incarico.

A lei fondatrice e ottima insegnante, furono affidati i compiti più umili, come portinaia, responsabile della biancheria delle suore, sagrestana, espletati in 36 anni in Case poste in varie città.

b-m-anna-sureau-blondin1Quest’ultimo periodo della sua vita, è la testimonianza di una viva fede e di una grande forza di volontà, in mezzo alle incomprensioni; esempio di amorosa sottomissione alla volontà di Dio, di rispetto per le autorità, bontà e servizio verso tutti, umiltà ed abnegazione.

Accettò la sua destituzione offrendo la sua vita per il bene della Congregazione e ciò evidentemente fu accettato da Dio, nel 1884 si ebbe l’approvazione da Roma e nel 1890 si contavano 428 religiose impegnate nell’insegnamento e occupate nella cura degli ammalati in 43 case del Quebec, Colombia canadese, Stati Uniti e Alaska.

Nell’autunno del 1889 madre Maria Anna si ammalò di una grave bronchite; nella notte di Natale volle assistere alla Messa nella grande cappella della Casa Madre, ciò le costò un aggravamento della malattia, che la fece morire il 2 gennaio a Lachine.

Il 7 gennaio 1977 fu introdotta la causa per la sua beatificazione, il 14 marzo 1991 ebbe il titolo di venerabile e il 29 aprile 2001 è stata beatificata da papa Giovanni Paolo II in Piazza S. Pietro a Roma.

Autore: Antonio Borrelli

Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/91474